La Corte europea dei Diritti dell’uomo - IV Sezione - con sentenza dell’11 gennaio 2005, ricorso n. 33695/96 (pres. Braiza; Musumeci vs Italia) dichiara, all’unanimità, che l’Italia ha violato l’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo in relazione al diritto di accesso ad un Tribunale per contestare le misure previste dall’articolo 41-bis della legge sull’ordinamento penitenziario; più precisamente per la violazione del termine ordinatorio di legge per rendere una decisione giudiziale.
La Cedu solleva l’inottemperanza dello Stato italiano all’effettività del diritto di accesso alla tutela giurisdizionale; principio, ormai consolidato sia in diritto della Comunità europea che internazionale, che prevede l’effettività non solo di termini astratti della tutela delle posizioni giuridiche, ma anche l’apprestamento degli strumenti concreti di tutela.
Infatti, l’art. 6 della Convenzione enuncia che “ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un Tribunale indipendente ed imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia sulla fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta [...]”.
Una persona, cittadino italiano, sospettata di essere dedita al traffico di stupefacenti, ad estorsioni ed al gioco d’azzardo, veniva arrestata e sottoposta a detenzione; dal luglio 1992 gli veniva applicato il regime speciale di detenzione previsto dall’articolo 41-bis della legge 354/75 che disciplina l’ordinamento penitenziario. Il detenuto ricorre alla Corte Europea in quanto si duole dell’applicazione del regime speciale di detenzione da parte di un organo amministrativo e non giudiziario e, soprattutto, che lo Stato italiano non ha disposto di un ricorso efficace avverso a tale speciale detenzione, in quanto i ricorsi (reclami, ndr) al Tribunale di sorveglianza sarebbero inefficaci a causa del superamento del termine legale per rendere la decisione. Nella fattispecie, il ricorrente è stato oggetto di nove decreti applicativi del regime speciale, nonostante abbia contestato ciascuno di essi e nessuna decisione su tali reclami è intervenuta nel termine di dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento dell’interessato. Infatti i reclami sono stati decisi in un termine che varia da un minimo di due mesi e una settimana ad un massimo di quattro mesi e 25 giorni.
La Corte ha constatato che l’inosservanza sistematica del termine legale di dieci giorni, da parte del Tribunale di sorveglianza investito dei ricorsi contro le ordinanze ministeriali di proroga del regime speciale, ha sensibilmente ridotto, addirittura annullato, l’impatto del controllo esercitato dei Tribunali sui decreti del Ministro della Giustizia. La stessa Corte precisa che gli elementi valutati, perché l’inosservanza dei termini legali costituisca una concreta violazione del diritto di accesso alla tutela, sono dettati fondamentalmente dalla stessa giurisprudenza europea (Messina vs Italia n. 25498/94), paragrafo 94, Cedh 200-X), ovvero che la circostanza che la legge applicabile preveda un termine di decisione di soli dieci giorni è dovuta alla gravità dell’impatto del regime speciale sui diritti del detenuto e, dall’altro, alla limitata validità temporale della decisione contestata.
Infatti, al fine di valutare se il ritardo nel decidere i reclami formulati dal ricorrente abbia privato di efficacia la via del ricorso in questione, la Corte ha considerato la durata limitata (sei mesi) di ciascun decreto ministeriale applicativo del regime speciale, ed il fatto che il ministero della Giustizia non è vincolato dall’eventuale decisione del Tribunale di sorveglianza che revochi parzialmente o integralmente dopo lo scadere del termine di validità di uno dei tali decreti, un nuovo decreto che reintroduca le restrizioni revocate dal Tribunale.
Nel caso in specie, il Tribunale di sorveglianza ha revocato in ben quattro occasioni le restrizioni alle visite familiari ma, a causa del ritardo nell’adozione di tali decisioni, il ricorrente ha subito suo malgrado le suddette restrizioni per un tempo maggiore di quello necessario. Inoltre, almeno una volta, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso in Cassazione perché il periodo di applicazione del decreto era spirato e quindi, per tale motivo, il ricorrente aveva perso ogni interesse il suo esame.
Si aggiunga che la violazione di tale termine ordinatorio non determina nullità della procedura ma che vale a sottolineare la necessità di una trattazione tempestiva e non dilatoria.
In merito all’applicazione del regime speciale di detenzione da parte di un organo amministrativo, la Corte, respingendola, ricorda che “il diritto ad un Tribunale” non costituisce un diritto assoluto perché richiede, per sua stessa natura, una regolamentazione da parte dello Stato e nell’adottare tale disciplina gli Stati contraenti godono della piena sovranità e quindi potere discrezionale.
D’altro canto, si osserva che lo Stato italiano, in ossequio a diverse pronunce della Corte Costituzionale e di Cassazione, ha stabilito, per una effettiva tutela delle posizioni giuridiche, un reclamo al magistrato di sorveglianza, con fissazione di apposita udienza, con partecipazione di difensore e pubblico ministero, nonché ricorribile per Corte di Cassazione. Si conoscono bene le ragioni politiche di tale regime penitenziario speciale per i soggetti ritenuti socialmente pericolosi ed appartenenti ad associazioni criminali di stampo mafioso, ma l’azione del legislatore non è stata accompagnata, come al solito, dal tempestivo adeguamento delle dotazioni organiche dei Tribunali di sorveglianza, valutando con maggiore attenzione le esigenze logistiche, materiali e di personale, nonché la necessità che per un effettivo accesso alla tutela giurisdizionale occorre consentire una adeguata istruttoria. La scelta dell’applicazione di un regime speciale, pur sempre detentivo e limitativo della libertà, con misure eccezionali quali la disposizione ministeriale non poteva essere giustificata per un periodo superiore a sei mesi, anche se prorogabile. Forse l’applicazione del regime per un periodo iniziale di due anni, con le dovute garanzie costituzionali, avrebbe consentito con il dovuto scaglionamento ad una migliore e più razionale allocazione delle risorse con conseguente riduzione dei tempi di trattazione dei reclami a soglie più ragionevoli.
La continua campagna di delegittimazione dei giudici, accompagnata da una demonizzazione di tale categoria attuata personalmente dal Guardasigilli, comporta un non allineamento del nostro Paese ai diritti dell’uomo a dispetto di secoli e secoli di cultura giuridica di tutto rispetto.
La sentenza, che prevede anche la violazione dell’art. 8 della Convenzione al diritto del ricorrente al rispetto della corrispondenza, in quanto non prevista per legge, ci è favorevole perché, almeno, non prevede l’applicazione dell’articolo 41 della stessa Convenzione.
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