In un libro di Glauco Benigni, qui intervistato,
si ricostruiscono i problemi relativi alla sicurezza
del Pontefice. Ma è una questione
complessa che si può estendere anche
ad altre figure pubbliche
Quando Papa Giovanni Paolo II rientrava in Vaticano al termine di un bagno di folla, aveva le mani piene di graffi, conseguenza delle numerose strette di mani con i fedeli. Graffi che se da una parte testimoniano l’affetto che circondava il Pontefice, venivano contemporaneamente visti con preoccupazione dagli uomini della sua sicurezza, per i quali quei segni rossi sulla pelle rappresentavano altrettante minacce alla sua incolumità. Cosa sarebbe accaduto, infatti, se qualcuno, mischiato tra i fedeli, avesse approfittato della vicinanza per graffiare il Pontefice con un ago trasmettendogli un virus o un veleno? La domanda è tanto retorica quanto realistica, visto che una simile possibilità sarebbe tutt’altro che remota. Eppure nonostante il pericolo, nessun Pontefice rinuncerebbe mai all’abbraccio dei fedeli, visto che muoversi tra di loro rientra tra i suoi compiti.
E’ solo un esempio, ma rende molto bene l’idea di quanto sia difficile oggi il lavoro di chi ha il compito di difendere la vita di un Pontefice. Glauco Benigni, esperto di media e comunicazione, giornalista e oggi dirigente Rai, ha indagato a lungo su chi sono gli uomini discreti e un po’ misteriosi a cui spetta il compito di vigilare sull’incolumità di una personaggio così speciale. Il risultato delle sue ricerche è un libro intitolato “Gli angeli custodi del Papa” (Utet 2004, pgg. 343).
La sua tesi è che sia impossibile proteggere il Papa, perché?
La protezione di qualsiasi personaggio importante, nel corso della storia, ha due fasi: un conto è la protezione ravvicinata, da armi bianche o armi da fuoco convenzionali, un conto è la protezione da congegni di attacco che si innescano da lontano e che modificano tutto il concetto di protezione ravvicinata. Poi proteggere il Pontefice è particolarmente difficile almeno per due ordini di problemi, uno di natura squisitamente interna alla sacre cose, il Pontefice è il vicario di Cristo e in quanto tale la sua identità non può essere “inquinata” dalla presenza di uomini armati, tant’è che nei suoi confronti si applica la massima discrezione. A questo bisogna aggiungere un tabù: chi colpisce il Pontefice, visto che teoricamente è difeso dallo Spirito Santo? Sono le forze del male. Infatti in seguito all’attentato dell’81 da più parti si è sostenuto che ad agire fosse stato un emissario del maligno. Quindi come difendersi da un’eventualità in cui a scontrarsi sono il rapporto tra forze celesti e forze oscure? E’ molto complesso. Una complessità che all’inizio è un dogma ma poi diventa un tabù. Il dogma è: il Papa è protetto dallo Spirito Santo. Il tabù è: parliamone il meno possibile perché più ne parliamo più diventa evidente quanto è difficile proteggerlo.
Perché?
Perché il Pontefice deve fare il bagno di folla, deve stare tra le pecore del gregge. Ma c’è un altro motivo, che rappresenta il massimo di difficoltà: il ruolo presuppone la testimonianza del sangue, per cui è come dire io voglio proteggere un essere umano talmente speciale che è il primo dei potenziali martiri. Come fai? E’ difficile.
Altre difficoltà?
Certo. Bisogna comprendere quanto è difficile difendere un personaggio così particolare, che si muove su territori che ricadono sotto la giurisdizione di altri. Problema che si pone ogni vota che il Papa esce dalla Santa Sede.
All’interno del Vaticano invece chi pensa alla sua protezione?
C’è un sistema misto, Santa Sede Stato italiano. Oggi da dentro al Vaticano lo proteggono le guardie svizzere e la guardia pontificia, quando esce sul territorio italiano, dal 1929 è sotto la protezione dell’Ispettorato di Pubblica sicurezza, ma ogni volta che arriva all’aeroporto subentrano le forze di protezione del paese ospitante. In passato il sistema era molto più misto, perché c’erano per lo meno tre corpi di sorveglianza: gli svizzeri, la Guardia palatina e la Guardia nobile del Corpo con un responsabile che veniva chiamato “l’esente” proprio perché era esentato da ogni altro compito che non fosse quello di salvare la vita del Papa. Questo sistema la dice lunga sulle difficoltà legate alla sicurezza, perché sulla figura del Pontefice incidono interessi a mosaico, che corrispondono con i territori nei quali si spostava.
Eppure, nonostante tutte queste difficoltà, qualcuno per lavoro ha il compito di proteggere il Papa. Chi sono questi uomini e che tipo di preparazione hanno?
Sono intanto essere umani molto devoti, che hanno fatto di questo mestiere una missione. In Italia sono un centinaio di agenti di Pubblica sicurezza che operano nell’Ispettorato di Pubblica di sicurezza presso il Vaticano, frutto del concordato del 1929.
Anche apparati di intelligence fanno parte della protezione?
Dobbiamo distinguere: la protezione è fatta di due aree: un’area visibile, che ha una serie di funzioni, anche quella di deterrente, e un’area invisibile che ha una serie di funzioni tra cui la prevenzione. Nell’area visibile si muovono quelle formazioni di cui abbiamo parlato. Nell’area invisibile la protezione del Pontefice è affidata a centinaia di essere umani diversi, tra cui ovviamente c’è un’area che fa capo direttamente al centro decisionale del Vaticano, perché poi le decisioni finali le prende il Vaticano. Però quando parliamo di intelligence dobbiamo distinguere, perché non parliamo certo di personaggi stile James Bond. L’intelligence oggi ha tanti strati: c’è quella che si manifesta con le azioni fisiche e quella che invece si manifesta con azioni di controllo dalle quali poi dipendono le strategie dell’attacco e della difesa. Ma anche l’acustic intelligence, che è quella delle microspie, dei controlli sui telefoni, dei microfoni installati qua e là. E poi c’è quella delle intercettazioni di mail. Insomma ci sono vari livelli e varie persone, ovviamente circondate dal massimo riserbo.
Nell’organizzazione della sicurezza del Papa penso che ci siano due date fondamentali: la prima è il 13 maggio 1981, giorno dell’attentato, l’altra è l’11 settembre.
Ce n’è una terza: Sarajevo 1997, quando il Pontefice rischiò veramente tanto. Il Papa doveva passare su un ponte che era stato bonificato la notte precedente ma al mattino, casualmente, un omino di buona volontà andò a dare un’occhiata e trovò 24 mine anticarro pronte a essere attivate a distanza. E poi c’è il dopo 11 settembre che è una fase che si protrae tuttora e in cui tutti gli organismi di sicurezza, visibili e invisibili, hanno cominciato a produrre piani che variano al variare delle informazioni. Se si considera la velocità con cui oggi affluiscono le informazioni, si capisce che spesso ci si trova in difficoltà.
L’attentato dell’81 cambiò le cose, divenne evidente che le esigenze di sicurezza si facevano più alte e diverse rispetto al passato.
Assolutamente sì, perché il precedente attentato a un Pontefice era stato quello del 1970 a Paolo VI nelle Filippine, in cui un signore molto bizzarro, un pittore surrealista sudamericano che viveva a Manila, tentò di aggredirlo con una baionetta. Un attentato per così dire "tradizionale".
Alì Agca segna un salto di qualità notevole, anche per quello che ha alla spalle.
Sì, anche se cosa e chi abbia alle spalle Alì Agca è oggetto di uno sterminato dibattito che si perde nelle nebbie delle diverse interpretazioni possibili e delle smentite. C’è anche una smentita di Gorbaciov, c’è un’analisi di autori americani che analizzano quale fu il motivo che portò ad affermare che dietro l’attentato c’erano i servizi segreti sovietici. Per questi studiosi si trattò di un approccio più politico che analitico. In seguito si è anche parlato della pista bulgara, pista peraltro riuscita e caduta anche di recente.
Infine c’è la figuara di Alì Agca, un uomo che continua a dare informazioni contrastanti, abilmente o stoltamente non si capisce, un personaggio indecifrabile. Sta di fatto che quella fu un’occasione molto rischiosa per la stabilità del pianeta, perché questo è il punto: lì ci si accorse che era in ballo la stabilità del pianeta, non la stabilità del dopo Pontefice o del Paese in cui avvenne l’attentato.
Insomma chi si occupa della sicurezza del Papa deve essere anche un esperto di geopolitica.
Senza dubbio. In passato la difesa del Papa è sempre stata affidata alla forza politica e militare egemone sul territorio in cui il Pontefice si muoveva. Prima gli imperatori romani da Costantino in poi, poi addirittura i Visigoti quando si appropriano del territorio italiano, poi i Carolingi, poi gli imperatori tedeschi, poi Napoleone e così via. Ora non basta più e secondo me l’incolumità del Pontefice dovrebbe essere affidata al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Un’opinione che non credo sia condivisa da tutti.
Infatti, ma perché quello della sicurezza del Papa è un compito al quale molte istituzioni non vogliono rinunciare. Per esempio il ministero dell’Interno italiano non vorrebbe mai interrompere questo esercizio di alta rappresentanza e responsabilità, ignorando il fatto che gli agenti si lamentano perché sanno che si tratta di un compito complicato. In alcuni momenti è risultato addirittura difficilissimo.
Ad esempio?
Non bisogna andare lontano nel tempo, basta pensare a quanto accadde nel 2000 a Tor Vergata, ai due milioni di papaboys che circondarono il Pontefice.
Cosa la fa pensare che l’Onu potrebbe svolgere meglio questo lavoro?
Perché si potrebbe creare un interforze che si occupa stabilmente di questa questione e quindi alla fine la selezione delle informazioni arriverebbe da aree geopolitiche che sono corresponsabili del lavoro.
Quindi sarebbe più utile soprattutto per la raccolta di informazioni?
La questione della sicurezza oggi dipende dalle informazioni di cui disponi. Poi c’è una variabile, ma è una sola, del pazzo isolato. A parte questo, tutto il resto dipende dalle informazioni.
E’ vero che anche il cardinale Marcinkus si improvvisò guardia del corpo di Papa Paolo VI nell’attentato di Manila?
E’ quanto si intuisce dalla lettura dei giornali dell’epoca. Bisogna considerare che Marcinkus era particolarmente prestante dal punto di vista fisico e quando il Pontefice arrivava in un aeroporto lui era la persona che precedeva tutti. Naturalmente non era una guardia del corpo a tutti gli effetti, ma quando l’attentatore si avventò contro Pio XII Marcinkus, secondo una versione che non ha mai smentito, si gettò su di lui riuscendo a fermarlo.
Tra gli episodi citati nel libro ce ne sono un paio particolarmente curiosi. Come “l’operazione Conclave” che vide tra i protagonisti il generale De Lorenzo e un cardinale che non sarebbe diventato Papa proprio per i sospetti che lo circondavano.
C’era un candidato, un cardinale armeno, la cui sorella era sorvegliata dai Servizi perché frequentava un consigliere d’ambasciata, un diplomatico sovietico. Siamo negli anni della Guerra Fredda e questo fatto già costituiva un elemento di grande preoccupazione. Il giorno in cui vennero raccolte abbastanza informazioni degli incontri della sorella del futuro possibile Papa con un uomo che lavorava presso l’ambasciata sovietica, si rese impossibile l’elezione di quel candidato.
Quindi il Conclave tenne conto delle informazioni di De Lorenzo?
Evidentemente sì.
Papi spiati e papi spie. Lei racconta anche di quando il presidente americano Roosevelt convinse monsignor Montini, all’epoca Segretario di Stato di Pio XII e futuro Papa, a collaborare.
Non è che lo convinse. Non dobbiamo dimenticare che il Papa per la sua rappresentanza è protetto dalla forza politica militare più influente del territorio sul quale svolge la sua attività. Siccome il Papa è occidentale, alla fine della Seconda Guerra Mondiale c’era un nemico comune che all’epoca univa la Santa Sede agli Stati Uniti ed era l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Quindi ci fu un intervento molto diretto da parte dei Servizi anglo-americani.
Di cosa avevano paura gli americani?
E’ evidente che dal ’45 in poi una grandissima parte di sacerdoti dell’est erano ricattabili e sorvegliati dai Servizi del blocco sovietico e quindi è ovvio che i Servizi dell’altro blocco ci tenevano ad avere un rapporto diretto con il Papa. In sostanza: se i Servizi occidentali scoprivano che c’erano degli infiltrati, a chi lo dovevano dire? Lo dovevano dire al Papa.
Ma se non ho capito male quello che si chiese a Montini era un po’ di stare attento a quanto faceva il Papa e di riferirlo agli americani?
Noi stiamo parlando di una teocrazia di duemila anni in cui c’è un uomo che ha un potere quasi assoluto. In qualsiasi ambiente di questo tipo l’incrocio tra controllati e controllori e la sovrapposizione di questi ruoli è davvero non misurabile. Anche perché possono esserci dei momenti in cui personalità diverse, due visioni diverse del mondo ritengono di doversi controllare a vicenda, tanto più se uno è Papa e l’altro è Segretario di Stato. Se poi Montini abbia davvero trasmesso informazioni sull’operato di Pio XII, questo io non lo so, non lo posso sapere. Dalla lettura delle cronache si può supporre che questo possa essere accaduto, ma in buona fede. Ognuno difendeva la propria visione della storia.
A proposito di Servizi. Proprio la Chiesa dispone di una rete di raccolta informazioni tra le migliori al mondo, la rete delle parrocchie e dei vescovi.
E’ vero. Proviamo a fare una piccola riflessione: al mondo ci sono più o meno un miliardo di esseri umani che tendenzialmente dovrebbero confessarsi, ma ammettiamo pure che siano di meno, la metà se vuole o anche soli 200 milioni che si confessano con una certa regolarità. Tra di loro sono in molti coloro che ricoprono ruoli importanti, ci sono le mogli di costoro, i figli, i collaboratori, i quali vanno in un luogo segreto come è il confessionale e dicono delle cose. Adesso è ovvio che c’è il segreto della confessione, e infatti il sacerdote non rivela quanto gli ha detto mister X però poi il confessore va dal vescovo e dice di aver saputo alcune cose, il vescovo va dal cardinale e così via. Di fatto è un sistema di raccolta informazioni assolutamente efficiente.
Un’ultima domanda. L’esposizione mediatica aumenta i rischi di un attentato?
Senza dubbio e possiamo fare degli esempi per dimostrarlo. Basta pensare a cosa è successo a un personaggio come John Lennon, molto esposto mediaticamente. C’è un episodio che chiarisce bene come un black-out mediatico riduca i rischi, ed è quanto avvenuto nel 1979 quando Papa Giovanni Paolo II impose una sua visita in Turchia. Non potendo impedirgli di atterrare, il governo turco impose ai giornali di non parlare delle visita del Pontefice. Verifichiamo così che laddove un personaggio importante arriva su un territorio senza che lo sappia nessuno, esce senza che lo sappia nessuno e i rischi di un attentato diminuiscono.
Nonostante la sua importanza, come mai non si parla mai pubblicamente della sicurezza del Pontefice?
L’unico dibattito sulla sicurezza del Pontefice tenuto dal Parlamento italiano avvenne nel 1982. In quella sede molti si interrogarono sulle responsabilità che il governo italiano aveva assunto dal 1929 a oggi. Ecco mi sembra molto strano che dopo quella volta non si sia più affrontato l’argomento e che la questione relativa alla sicurezza del Pontefice riguardi esclusivamente il governo, che decide cosa fare senza che il Parlamento si pronunci.
E questo secondo lei perché avviene?
Perché probabilmente a voler affrontare l’argomento sono solo i democristiani o gli ex democristiani, che però sono vincolati alle esigenze della Santa Sede di non parlarne. C’è un incastro che impedisce di affrontare l’argomento nelle sedi adeguate e questo perché parlare del Papa renderebbe lo steso Papa più umano di quanto non voglia apparire.
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