A Urbino la facoltà
di Giurisprudenza
ha lanciato
una nuova iniziativa:
la ricostruzione
del processo secondo
il Diritto Romano.
In scena attori, docenti
e scrittori
Il 28 aprile, nella rinascimentale Urbino, la facoltà di Giurisprudenza ha organizzato la IV edizione della simulazione processuale di diritto romano. Ideatori e curatori dell’iniziativa erano Giuseppe Giliberti, professore ordinario di Fondamenti del Diritto europeo (Storia del Diritto romano) e Gianluca Sposito, docente di Argomentazione giuridica e Retorica forense dell’ateneo urbinate. Quest’anno, a presiedere la giuria composta da studenti c’era Oliviero Diliberto, ex ministro della Giustizia e professore di Istituzioni di diritto romano dell’università di Roma "La Sapienza". Nell’aula magna della facoltà, il rettore Giovanni Bogliolo ha spiegato come sia cambiato il ruolo dello studente ("Non è più colui che riceve ma colui che partecipa") ed ha ricordato che anche quest’anno la videoregistrazione della simulazione processuale verrà vista e utilizzata in varie università. "Il processo riguarda un fatto avvenuto nel 60 a. C. - ha poi aggiunto, rivolgendosi a Diliberto - sapevo che la giustizia era lenta, ma non pensavo lo fosse fino a questo punto".
Giliberti ha raccontato come è nata l’idea della simulazione processuale: "E’ successo guardando un film di Perry Mason, dove il famoso avvocato viene chiamato ad assistere a un processo simulato, presso una Law School". Dal film ai classici il passo è stato breve: alla memoria del docente sono apparse le pagine di Seneca il Vecchio, che addestrava i futuri avvocati facendo loro sostenere delle arringhe su casi inventati (disputationes). Le radici di questo sistema didattico tipicamente anglosassone erano in realtà greco-romane. Da lì la decisione di usarlo per lo studio del diritto romano, applicandolo per la prima volta a dei processi penali antichi.
La corte dei sicari
e degli avvelenatori
Giliberti ha chiesto al pubblico in sala di immaginare di passare dalla Urbino del XXI secolo alla Urbinum del 60 a. C. e da lì "teletrasportarsi’" al foro romano, nel tribunale. Ed ecco la scena: ci sono il pretore - un magistrato elettivo, uomo politico più che esperto di diritto - e la giuria della "corte permanente contro i sicari e gli avvelenatori". Si tratta di un tribunale permanente istituito per materie come l’omicidio a mano armata, l’avvelenamento, il brigantaggio, il porto d’armi abusivo, l’incendio doloso, il parricidio e altri. I membri della giuria sono estratti da un album di persone appartenenti all’aristocrazia. C’è inoltre il pubblico, richiamato dalla gravità del caso e dalla fama degli oratori.
Il dibattimento avviene con un’orazione dell’accusa, un’orazione della difesa e l’escussione dei testi. Se schiavi, vengono preventivamente torturati.
Dopo le orazioni, e sentiti i testi, i membri della giuria mettono la scheda contenente il loro verdetto in un’urna: A sta per "absolvo", C per "condemno" ed Nl ("non liquet", letteralmente "non scorre") per l’astensione. Scrutinate le schede, il presidente della Corte leggerà il verdetto. L’imputato, se rimasto in aula, verrà portato altrove per essere strangolato; se si sarà preventivamente allontanato dall’aula, la condanna non sarà eseguita e il condannato andrà in esilio.
La vicenda discussa nel corso della simulazione riguarda l'urbinate Crescenzio che presta 10.000 sesterzi al suo concittadino Scribonio, noto per condurre nella capitale una vita al di sopra dei suoi mezzi. Recatosi a Roma, Crescenzio viene a sapere che Scribonio si prepara a partire nottetempo per l'Egitto. Crescenzio, che da tempo chiedeva invano la restituzione del prestito, decide di attenderlo davanti a casa.
Nel cuore della notte, Scribonio e lo schiavo Felix si apprestano ad uscire a cavallo da una stalla attigua alla casa. Crescenzio afferra per le redini il cavallo di Scribonio, uscito per primo, intimandogli di scendere e pagare il debito. Il cavallo si imbizzarrisce e cade, schiacciando il padrone sotto il suo peso.
Accorre Clodio, ospite di Scribonio, che accusa Crescenzio di omicidio. Al processo dichiarerà di averlo trovato accanto al cadavere con un pugnale (il porto di qualsiasi tipo di armi era vietato dalle leggi di Roma). Crescenzio, invece, affermerà di non avere mai avuto intenzione di uccidere Scribonio: voleva solo costringerlo a pagare, temendo una fuga. Quanto al pugnale, lo aveva estratto dopo l'incidente, temendo di essere assalito da Felix.
Felix testimonia - dopo essere stato, come d'uso, sottoposto a tortura - che i fatti si sono svolti come li ha raccontati Crescenzio.
Crescenzio è colpevole di omicidio, e Felix lo copre, temendo di essere accusato di non aver saputo difendere il padrone? Oppure si tratta di un incidente, dalla dinamica imprevedibile?
Oliviero Diliberto, prima di aprire i lavori, spiega al pubblico quale dev’essere la funzione della pena. Da professore, non ancora calato nel personaggio del pretore romano, ripercorre l’evoluzione storica della pena, a partire dalla legge del taglione, la quale prevede che a un’offesa corrisponda sempre una reazione eguale e contraria. "Occhio per occhio" è un’applicazione della teoria della retribuzione, la più semplice e antica.
Una radicale trasformazione si verifica con la filosofia classica, in particolare con Platone che, nel Gorgia e nel Protagora, riflette su quale debba essere l’ordinamento di una città reale. Alla teoria retributiva si affianca quella preventiva. Le leggi romane utilizzarono spesso un sistema di pene flessibili con funzione deterrente. L’imperatore Adriano sosteneva questa linea: sosteneva, ad esempio, che per quanto riguarda l’abigeato, le pene dovevano essere più severe dove questo reato era più diffuso. "In realtà - incalza Diliberto - nella stessa pena coesistono più funzioni: deterrere e lenire il dolore dei parenti della vittima, quindi retribuzione".
La cesura tra mondo antico e mondo moderno l’abbiamo con la nascita del carcere, che sembra rendere plausibile un’altra teoria, prevista anche dalla nostra Costituzione: l’emenda. Teoricamente - continua il professore - il carcere deve avere la funzione di correzione, deve tendere alla rieducazione, in realtà ha la funzione utilitaristica di allontanare il reo dalla società. La pena dell’ergastolo dovrebbe quindi essere una contraddizione. Quanto alla pena di morte, è evidente la sua natura retributiva. Non è un deterrente efficace: infatti proprio i paesi dove è prevista hanno il maggior numero di reati di sangue. Il problema principale non è, quindi, la natura più o meno terribile della pena.
Già Plutarco affermava che la pena deve arrivare subito, perchè diversamente si condannerà un’altra persona. Infatti, a distanza di tempo, la persona condannata sarà una persona differente. E sono ancora i classici a venirci incontro, sostenendo che una classe dirigente deve essere giudicata dal modo in cui punisce, e non deve governare con le emozioni che ottenebrano la mente.
Diliberto conclude citando Bernardo di Chartres, filosofo del XII secolo: "Noi contemporanei vediamo più lontano dei nostri predecessori perchè siamo nani sulle spalle di giganti".
Sposito ha spiegato come sono state allenate le due squadre, che hanno lavorato in completa indipendenza e in spirito competitivo. L’accusa ha avuto la consulenza di Enrico Zampetti, sostituto procuratore del Tribunale di Urbino; la difesa si è invece avvalsa della collaborazione di Enrico Cipriani, consigliere dell’ordine degli avvocati di Pesaro. Ciascuno dei gruppi di lavoro ha lungamente studiato il caso dal punto di vista tecnico-giuridico, costruendo le orazioni mediante le tecniche degli avvocati romani e cercando i più efficaci argomenti retorici tesi al convincimento della giuria.
A questo punto, sei studentesse, tre per l’accusa e tre per la difesa, si sono sfidate in una serrata disputa oratoria.
"Vi prego, giudici - ha invocato l’accusa - non lasciate che Crescenzio rimanga impunito dopo essersi macchiato di un crimine atroce! A nulla serve la debole versione che vi fornirà la difesa, dell'incidente dalla dinamica imprevedibile. Siamo davanti ad un reato perfetto..."
"Vi esorto, o giudici - ha ribattuto la difesa - a mettere una mano sopra la vostra elevatissima coscienza. Vi esorto a immedesimarvi in quest'uomo spaventato che avete dinanzi e che, da placido e stimato uomo d'affari si è ritrovato sotto il fango di accuse senza senso. Vi prego di seguire la vostra ragione e il vostro cuore: esso non è un cattivo consigliere, esso non sa mentire".
A conclusione del dibattimento, il presidente della Corte ha invitato i giurati al voto. Ne è risultata, a larghissima maggioranza, l’assoluzione di Crescenzio
I soldi e l’amante
Ma la verità processuale coincide con quello che realmente è accaduto?
Valerio Varesi, scrittore e giornalista di Repubblica, membro del Laboratorio di Comunicazione della Facoltà di Giurisprudenza di Urbino, ha pensato di raccontare quello che realmente è avvenuto in quella notte del 60 a. C. La sua verità è in un racconto che accompagnerà il dvd della simulazione processuale. Questa traccia ne è l’anticipazione.
“Clodio, il giovane amante di Scribonio, è stanco della relazione e da tempo ha deciso di andarsene. Scribonio, tuttavia, non si rassegna alla fine e per trattenerlo arriva a nominarlo suo erede testamentario. Quest’ultimo, a slanci di generosità, alterna però momenti di irosa minaccia da un uomo collerico e incline ai colpi di testa qual è. Tanto da essere temuto da tutta la cerchia dei suoi compagni di baldorie. L’ultimo tentativo di tenere Clodio legato a sé, è la promessa di un fastoso viaggio in Egitto di parecchie settimane lungo il Nilo, meta a cui il ragazzo ha sempre ambito. Ma questi, corteggiato anche da altri ricchi signori, ben sa che Scribonio sta rapidamente dilapidando tutto il suo patrimonio, al punto da non essere più né solvibile né credibile. Così architetta un piano per sbarazzarsi dell’ormai scomodo amante. Innanzitutto si serve di Lena, da anni schiava di Scribonio a Urbino, ma confidente di Crescenzio al punto da poter essere facilmente ricattata. Dietro la minaccia di rivelare tutto, Clodio manda la donna da Crescenzio ad informarlo che Scribonio, a una certa ora della notte, fuggirà verso il porto di Ostia con tutto il denaro che gli è rimasto, sfuggendo così ai creditori. Compreso proprio Crescenzio che gli ha prestato 10 mila sesterzi. Lena suggerisce di aspettarlo mentre esce col cavallo montando un grande scandalo tale da costringere Scribonio a saldare il debito seduta stante. Forte di tutta questa preparazione, Clodio si prepara a tendere l’agguato, non prima di essersi furtivamente recato nella stalla per drogare con certe erbe il cavallo di Scribonio rendendolo così bizzoso e irrequieto. Quindi attende che i due si incontrino osservando la scena dalla finestra dopo aver finto di ritirarsi a dormire e fatto abbondantemente bere l’amante.
Quando Crescenzio affronta Scribonio e afferra le redini del cavallo, l’animale s’imbizzarrisce, s’impenna, disarciona il cavaliere e rovina in terra assieme al padrone. Questi batte la testa rimanendo svenuto sul selciato. A quel punto, nel buio, Felix, lo schiavo di Scribonio attardatosi nella stalla, pensa a un’aggressione e si dispone a difendere il padrone come prescrive il suo dovere. Crescenzio, dapprima sbigottito, si impaurisce e, minacciato da Felix, scappa nei vicoli in cerca di riparo. I due così si allontanano lasciando la scena. Clodio, esce di casa rapido, afferra una pesante lastra di arenaria di un cantiere lì vicino e la getta sul petto di Scribonio a terra esanime sfondandogli il torace. Nel frattempo, vistosi perduto, Crescenzio, sempre inseguito da Felix, estrae un grosso pugnale che si era portato dietro, minacciando a sua volta lo schiavo. Questi desiste timoroso di fronte alla lama, mentre qualcuno è accorso dopo aver sentito le urla e il trambusto dei due. Quando si torna nel luogo dell’incontro tra Crescenzio e Scribonio, quest’ultimo giace in terra morto col petto sfondato come se il cavallo, rotolando assieme al padrone, l’avesse schiacciato. Clodio ha avuto il tempo di rimettere a posto la lastra di arenaria e di fingersi afflitto per la morte del compagno. Crescenzio protesta l’innocenza e sostiene che si è trattato solo di un incidente indicando il cavallo ancora agitato, mentre Clodio lo accusa apertamente di aver provocato la morte di Scribonio. Felix, dopo la tortura d’uso, non potrà che avvalorare la tesi dell’incidente, sia perché altrimenti incorrerebbe nelle ire della famiglia dell’ucciso per non averlo adeguatamente difeso, sia perché non ha visto ciò che Clodio ha fatto all’amante in terra svenuto. Dal canto suo, Lena non può profferire verbo giacché, con la morte di Scribonio, Clodio è diventato il suo padrone e può disporre di lei a suo piacimento. Nemmeno parla Stico, schiavo pubblico addetto alle pulizie del tribunale, perché amico di Felix. Ma la verità sulla morte di Scribonio circola a Roma sussurrata in ogni cantone. Alla fine, sarà proprio Stico, dopo essersi assicurato che le sue parole non nuoceranno all’amico, a raccontare la verità su quei fatti sottolineando come i ricchi cittadini che si sono illusi di aver fatto giustizia, in realtà non hanno capito nulla di quel che è accaduto nelle loro stalle e nelle loro cucine”.
Dopo il processo
Dopo questa immersione nel mondo romano, ritornare all’oggi sulla piazza di Urbino piena di studenti vocianti dà una sensazione di allegria. Abbiamo ancora qualcosa da chiedere a Giliberti, cui mi accomuna la passione per il romanzo poliziesco. Il professore è, infatti, il presidente della giuria del Premio ‘Franco Fedeli’, che il Siulp assegna ogni anno al migliore giallo italiano che ha un poliziotto come protagonista.
Professor Giliberti, in che cosa consiste il Laboratorio di Comunicazione che lei e Gianluca Sposito curate per la facoltà di Giurisprudenza di Urbino?
Il Laboratorio di Comunicazione, istituito quest’anno accademico dalla Facoltà di Giurisprudenza di Urbino, è un’iniziativa unica nel suo genere.
Si avvale della collaborazione di docenti di diritto e di comunicazione, di psicologi e perfino di un attore. Ha la funzione di introdurre gli studenti alle tecniche di comunicazione, scritta e verbale, per l’esercizio delle professioni forensi. Si struttura in due classi a numero chiuso – Scrittura degli atti e Tecniche della comunicazione verbale – e in un seminario estivo su Persuasione e negoziato. Di particolare interesse è la classe di Tecniche della comunicazione verbale, cui (oltre me e Sposito) collaborano l’attore Eugenio Bortolini e il prof. Ragnetti, docente di Tecniche della relazione. 15 studenti imparano a impostare voce, gesto, respirazione, per esprimere il proprio pensiero, convincere gli altri e affrontare le situazioni e i conflitti delle professioni legali. L’iniziativa ha riscosso molto interesse. Forse si potrebbe collegarla in qualche modo con il Premio Franco Fedeli. Anche il giallo può essere un mezzo per mettere in contatto i futuri operatori del diritto con i problemi reali della giustizia e dell’ordine pubblico. Non è così?
Nella foto: il prof. Giuseppe Giliberti
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