Si deve distinguere
quello “buono”,
indispensabile per la
riuscita delle proprie
azioni (che viene
espresso con l’attività
psicomotoria) e quello
“negativo” foriero
di malessere e malattie
La finalità biologica principale di ogni organismo vivente è il proprio mantenimento in vita. Per assicurarsi ciò è necessario che ogni organismo acquisisca l’energia e le sostanze chimiche occorrenti dall’ambiente circostante: gli organismi vegetali effettuano questo assorbendo energia dai raggi solari e le sostanze dal terreno, gli organismi animali invece devono assorbirli da altri organismi per cui devono muoversi, lottare, uccidere, difendersi e difendere la propria prole. Per effettuare tutto questo è necessario un sistema nervoso, un cervello, un organo in grado di coordinare il movimento, la lotta o la fuga. Nell’evoluzione cerebrale delle varie specie animali il cervello ha via via sviluppato dei circuiti neurologici sempre più complessi in grado di assicurare all’organismo il mantenimento in vita attraverso il meccanismo della ricompensa e della punizione. Quando l’azione dell’animale ottiene il successo desiderato per cui riesce a mangiare, ad accoppiarsi, ad eliminare un animale nemico, ecco che il cervello, come ricompensa, genera una intensa sensazione di piacere attraverso la liberazione di dopamina all’interno dei circuiti neurologici. La dopamina, a cascata, provoca una liberazione anche di altri neurotrasmettitori in grado di influenzare l’attività psicomotoria, come la noradrenalina e la serotonina.
Se invece l’azione dell’animale non ottiene successo, per cui non riesce a catturare la propria preda, non riesce ad accoppiarsi né a difendere il proprio territorio, il cervello inizia a liberare sostanze, come il cortisolo, in grado di provocare malessere fisico, disagio, frustrazione. Tutto questo accade anche per l’uomo: il cervello umano libera dopamina quando l’attività umana ottiene successo, mentre libera cortisolo se non vengono acquisiti gli obiettivi prefissati. È nota ormai da tempo la reazione dell’organismo umano alla frustrazione ed allo stress attraverso la liberazione di cortisolo e la successiva diminuzione dell’attività immunitaria. Avere una buona strategia d’azione risulta determinante non solo per il proprio mantenimento in vita, ma anche per godere di una buona salute psicofisica. Una buona strategia d’azione serve per:
• avere un buon grado di adattamento all’ambiente
• saper rispondere alle sollecitazioni ed alle richieste esterne
• riuscire a soddisfare in modo adeguato i propri bisogni.
Un buon grado di adattamento all’ambiente non si ottiene in modo automatico e naturale, è necessario sviluppare una strategia comportamentale adeguata, attraverso le proprie capacità cognitive ed intellettive, e disporre di adeguati mezzi fisici per poter sostenere lo stress delle varie competizioni e lo sforzo che questo comporta.
L’adattamento richiede quindi uno sforzo (stress) che se ottiene un buon risultato verrà premiato con la gratificazione ed il piacere della dopamina, mentre se non riesce ad ottenerlo verrà punito con il malessere e le malattie provocate dal cortisolo. Attraverso questo sforzo (stress) l’organismo mobilita le proprie risorse attraverso un aumento dell’adrenalina in circolo che per il fisico equivale ad una scossa, un allarme generale in grado di incrementare:
• l’attenzione e la vigilanza psichica;
• il battito cardiaco e la pressione sanguigna;
• il respiro ed il tono muscolare bloccando al tempo stesso le attività non necessarie come ad esempio quella salivare, quella renale ed intestinale.
La scossa adrenalinica di allarme mette l’organismo in grado di agire con energia ed attenzione. Tuttavia ne discende l’obbligo che per disinnescare tutto questo è necessaria l’azione muscolare, il comportamento, vale a dire la lotta o la fuga. Non è accettabile per il cervello provocare questa attivazione neurovegetativa e poi non agire: la mancata azione trasforma la produzione cerebrale sul versante del cortisolo, per cui l’organismo che non reagisce è destinato ad ammalarsi ed a morire.
Si distingue quindi uno stress buono, salutare, indispensabile per la riuscita delle proprie azioni, che viene espresso con l’attività psicomotoria, ed uno stress negativo, foriero di malessere e malattie, che viene espresso con l’inibizione psicomotoria. Il primo viene definito “eustress” (o stress buono), mentre il secondo “distress” (o stress cattivo). Il distress, quando viene mantenuto per un prolungato periodo di tempo, attiva una serie di risposte neurobiologiche che si trasformano in risposte psicofisiche patologiche: in modo particolare nei sintomi della depressione, ma possono trasformarsi anche in sintomi caratteristici di molteplici altre patologie psichiatriche, come il disturbo dell’adattamento, nelle fasi acute, ed il disturbo post-traumatico da stress, nel successivo sviluppo cronico.
Recenti studi effettuati negli Usa hanno dimostrato che la depressione ed i disturbi dell’adattamento sono direttamente correlati con l’innalzamento dei tassi di mortalità per malattia cardiologica, per ictus cerebrale e per malattia oncologica.
Alcune situazioni ambientali o soggettive come l’isolamento affettivo, le separazioni ed i lutti, le malattie croniche ed invalidanti, le difficoltà economiche, le frustrazioni, il distress cronico ed altro possono essere in grado di modificare il funzionamento di due sistemi cerebrali neurotrasmettitoriali specifici: il sistema noradrenergico ed il sistema serotoninergico.
Lo stato dell’umore e dell’attivazione psicomotoria viene infatti regolato dai centri nervosi cerebrali di questi due sistemi ed un loro impoverimento è in grado di provocare la malattia depressiva. Lo sbilanciamento di questi sistemi è legato non solo alle problematiche affettive ed ambientali, ma anche all’uso di farmaci psicoattivi, all’abuso di droghe, di alcol ed alla mancata regolazione dei cicli buio-luce (giorno-notte).
Il circuito noradrenergico ha la funzione di integrare tutte le informazioni provenienti dall’esterno del corpo umano e di modulare in base a questa la risposta neuronale globale. Il ruolo fisiologico del sistema noradrenergico sarebbe quindi quello di valutare gli stimoli esterni ed elaborare in base a questi delle strategie di comportamento, mediando le emozioni ed attivando i sistemi vegetativo, metabolico ed endocrino per ottenere una risposta comportamentale ottimale.
Questo sistema cerebrale è particolarmente sensibile agli stimoli stressanti. Nella depressione la ridotta funzionalità di questi neuroni sarebbe responsabile dell’ipersensibilità dell’individuo agli stimoli ambientali e lo renderebbe incapace di generare sia a livello vegetativo che endocrino, affettivo e cognitivo una risposta comportamentale adeguata a questi stimoli. Ne consegue la comparsa della triade sintomatologia principale della depressione, cioè l’abulia, l’apatia e l’anedonia.
Anche tutte queste funzioni sono alterate nella malattia depressiva e possono provocare altri sintomi, come ad esempio le anomalie comportamentali di tipo sessuale (come il deficit della libido o l’impotenza psicogena) ed alimentare (come l’anoressia o la bulimia), le anomalie nella regolazione del sonno (come l’insonnia o l’ipersonnia), la percezione del dolore (come il dolore psicogeno) e le funzioni cognitive (come i deficit di attenzione, concentrazione e memoria).
Lo stress cronico, evolvendo verso i vari gradi della malattia depressiva, è in grado di provocare delle alterazioni neurobiologiche nelle vie noradrenergiche e serotoninergiche, alterando quindi le seguenti funzioni:
• le funzioni cognitive;
• il tono dell’umore;
• il comportamento alimentare;
• il comportamento sessuale;
• il ritmo sonno-veglia;
• il grado di attivazione psicomotoria.
Osservazioni effettuate negli ultimi anni in medicina del lavoro hanno evidenziato che lo stress cronico e la fatica operazionale (Operational fatigue - Of) rappresentano delle inevitabili conseguenza di qualsiasi attività lavorativa. In generale l’Of determina un decadimento dei livelli di prestazione cognitiva in grado di produrre il decadimento delle funzioni dell’attenzione, della concentrazione e quindi all’impossibilità di eseguire i compiti assegnati, indipendentemente dalla loro complessità. Finora il campo di studio elettivo dell’Operational fatigue è stato il campo aeronautico, dove si è dimostrato che la fatica operazionale è responsabile di circa l’80% degli incidenti aeronautici.
Da questi studi emerge inoltre che la fatica operazionale viene di norma sottovalutata dal personale stesso: ognuno è convinto che, qualora in difficoltà, di poter reagire alla stanchezza ricorrendo alla forza di volontà, all’esperienza, ad un maggior impegno o semplicemente ricorrendo all’abilità professionale. Le cose non stanno così: la fatica operazionale agisce in modo subdolo ed il personale potrebbe non rendersi conto di trovarsi a livelli di prestazione potenzialmente già diminuiti dagli effetti negativi accumulati.
Esperti della Nasa, negli Usa, hanno determinato che, ad esempio, una persona con 18-20 ore di attività alle spalle, senza un adeguato riposo, può mostrare sintomi simili a chi ha bevuto due o tre birre apparendo euforico, ma con tempi di reazione più alti e con un ridotto controllo delle abilità motorie. I principali fattori che possono indurre fatica operazionale sono rappresentati dallo stravolgimento dei cicli circadiani e dalle perdite cumulative di sonno.
Il nostro organismo è fisiologicamente legato all’alternarsi del giorno e della notte, il cosiddetto ritmo circadiano, e questa esigenza può entrare in conflitto con la necessità di periodi prolungati di attività. Esistono due periodi nel ritmo circadiano dove il soggetto avverte un forte incremento del bisogno di sonno, secondo un orologio interno: il maggiore è fra le 3 e le 5 del mattino, il minore tra le 14 e le 15 del pomeriggio. Continuare ad operare in questi orari riduce il livello di prestazione dell’essere umano fino anche al 35%. Durante i periodi di sonno, inoltre, la temperatura corporea subisce un marcato abbassamento per il rallentamento dell’attività metabolica, dovendo restare svegli, durante gli orari normalmente dedicati al riposo, lo stravolgimento della temperatura corporea produce in aggiunta dei marcati effetti di affaticamento fisico. La perdita anche soltanto di una ora di sonno pone il fisico in condizioni da essere in debito di riposo e questa esigenza non è possibile compensarla né sostituirla in altro modo. L’affaticamento può essere acuto, dovuto alla perdita di sonno notturno, oppure cronico, causato dal mancato riposo reiterato nel tempo.
Questi due tipi di affaticamento, l’acuto ed il cronico, possono causare la comparsa improvvisa di “microsleeps”, noti come “colpi di sonno”. Si tratta di episodi spontanei e non controllati di sonno, che possono durare solo pochi secondi o alcuni minuti, nei quali il soggetto si estranea dalla realtà e diviene inerte. La probabilità che questi microsleeps accadano di notte è dieci volte maggiore a quelli che si possono verificare di giorno e sono proporzionali al livello di affaticamento cronico e non aiutano a risolvere il senso di affaticamento fisico.
Quando una persona avverte la fatica operazionale non è prevedibile in che modo e con quale intensità si manifesteranno i suoi disturbi nei processi di decadimento delle prestazioni umane. Gli studi effettuati in argomento hanno ampiamente dimostrato che ogni carico di lavoro coinvolge le capacità mentali e la resistenza fisica di ogni individuo. Quando il carico aumenta oltre il livello critico, l’abilità di raccogliere informazioni diminuisce e l’organismo si trova ad operare al limite delle proprie capacità. Si apprezzano e sono evidenti gli effetti fisici e psichici dello stress e se il carico sale ancora possono venire a mancare del tutto le riserve mentali fino alla comparsa del blocco dell’attività cognitiva.
Il carico di lavoro è funzione dell’esperienza personale, dell’addestramento ricevuto ed è funzione anche del grado di tecnologia presente nell’espletamento del lavoro.
Ogni tipo di gestione del personale e delle risorse umane, specialmente negli ambiti operativi h 24, 7 giorni su 7, mira ad ottenere un livello ottimale della prestazione utilizzando il minor numero possibile di persone, attraverso la programmazione di turni e servizi. Nella pianificazione dei turni è necessario tener conto degli orari di inizio e di fine, del tipo di ambiente in cui si opera, il suo grado di temperatura, il grado di rumore presente, delle possibilità di interrompere per alimentarsi (i tassi di glicemia incidono notevolmente sul grado di vigilanza, di attenzione mentale e sulla capacità di prendere decisioni). Anche l’età gioca un ruolo importante, in quanto è dimostrato che dopo i 45 anni i livelli della fatica operazionale scendono e quindi molto più facilmente possono manifestarsi i segni ed i sintomi dell’affaticamento mentale.
Sia lo stress acuto che quello cronico possono evolvere nel tempo nel Disturbo Post-Traumatico da Stress (Dpts). Il Dpts è l’unico tra i disturbi ansiosi che si caratterizza per una stretta relazione causale con un evento traumatico ben conosciuto dalla persona e sappiamo molto bene quanto il concetto di trauma, fisico o psichico, sia centrale nel ragionamento diagnostico e terapeutico di molti operatori della salute mentale. Tuttavia molto spesso il termine trauma viene abusato e gli vengono conferiti significati e ruoli scorretti. Cerchiamo quindi di definire meglio il concetto di trauma di cui ci occupiamo.
L’etimologia affonda nel greco traumatizein (che significa ferire) e si ricollega immediatamente al concetto di ferita e quindi alla presenza di lesioni fisiche. In psicopatologia in origine veniva usato per indicare un evento grave capace di indurre nell’individuo delle conseguenze dannose sia fisiche che psichiche e fino ad alcuni anni fa la nosografia psichiatrica definiva il trauma in modo generico come un evento fuori dalle esperienze comuni. L’esperienza di un terremoto od in genere della violenza degli eventi naturali, come è stato il caso del recente maremoto nell’Oceano Indiano, erano eventi non comuni all’esperienza umana almeno fino a quando la globalizzazione dei mezzi di comunicazione di massa hanno reso questi eventi più frequenti, più conosciuti e meno eccezionali. La conoscenza tuttavia non ne ha modificato il forte impatto mentale di chi li subisce, anche solo nelle immagini in video.
Una delle problematiche più immediate da chiarire è anche la correlazione esistente tra “trauma” e “stress”. Il termine stress è generalmente utilizzato per indicare la risposta sia biologica che psicologica e comportamentale nell’individuo che subisce un evento destabilizzante. Risposta finalizzata ad affrontare l’evento stesso riportando poi l’organismo ad un nuovo livello di equilibrio. Una delle differenze principali tra un trauma che comporta un pericolo per la vita ed altri tipi di condizioni stressanti è che quando lo stimolo stressante viene rimosso si alleviano le conseguenze negative dell’evento stressante stesso, mentre gli effetti negativi dell’esposizione al trauma possono persistere a lungo, anche per molti anni, dopo il verificarsi dell’evento traumatico, configurando il quadro clinico del Dpts.
Se la presenza di una situazione stressante contribuisce in modo determinante al presentarsi di una condizione clinica psicopatologica, la sua rimozione prevede la risoluzione dello stato clinico, ciò non è possibile con il Dpts.
Il recente sviluppo delle neuroscienze ha posto fine alla distinzione tra malattie mentali “organiche” e malattie mentali “funzionali” e nel campo della psichiatria nessun disturbo mentale è riuscito ad illustrare meglio il superamento della distinzione cartesiana tra mente e corpo. Fino a pochi anni fa il Dpts veniva considerato come un disturbo caratterizzato da sintomi quasi esclusivamente psicologici, nati da un evento traumatico esterno all’individuo. I risultati della ricerca scientifica hanno modificato questa visione “psicologica” dimostrando l’esistenza di anomalie biologiche, funzionali e strutturali nel cervello. Osservazioni che rafforzano l’indissolubile legame tra mente e corpo.
Il Dpts rappresenta anche il superamento della divisione tra quadri clinici “reattivi” ed “endogeni”. Gli studi hanno dimostrato che non tutti i soggetti esposti ad un trauma eccezionale sviluppano un Dpts, suggerendo la presenza di una vulnerabilità individuale che condiziona lo sviluppo del disturbo solo in una minoranza di soggetti esposti. Il Dpts è sicuramente una delle condizioni psichiatriche più gravi, capace di indurre comportamenti di abuso di sostanze e di condurre il soggetto che ne è colpito a tentare di porre fine alla propria vita.
I medici che si occupano per primi della fase post-trauma di un soggetto che ha subito un evento negativo possono individuare i primi sintomi caratteristici del Dpts ed iniziare un progetto terapeutico in grado di garantire la migliore qualità della vita al paziente con Dpts.
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I fattori collegati con le sindromi depressive
• Fattori genetici - Studi su gemelli e consanguinei hanno evidenziato le connessioni della malattia depressiva con la suscettibilità di alcuni geni dei cromosomi 11 e 18; i fattori genetici assumono rilevanza etiopatogenetica nel disturbo bipolare e nelle depressioni maggiori ricorrenti.
• Fattori ambientali - Le perdite, le privazioni, il dolore cronico, lo stress cronico, i disastri naturali, la guerra, il deficit dei sistemi di supporto sociale, una cattiva alimentazione, la mancanza di esercizio fisico, i farmaci depressogeni, le malattie croniche ed invalidanti.
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Gli effetti dell’“Operation fatigue”
La presenza di questi sintomi segnala che la persona è scivolata nell’area delle ridotte prestazioni fisiche e mentali:
• aumento del numero degli errori (nonostante gli sforzi compiuti)
• ridotto livello di comunicazione
• tempi di reazione più alti
• fissazione verso una sola fonte di informazione
• ripetizione di soluzioni risultate inefficaci
• mancanza di iniziativa personale
• accettazione di prestazioni al di sotto degli standard
• ridotta consapevolezza della situazione
• facile distraibilità per elementi di scarso conto
• svogliatezza nell’affrontare il compito
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