E’, purtroppo, risaputo che la fine della “guerra fredda”, dovuta all’implosione dell’Unione Sovietica, non ha coinciso con uno stato di pace mondiale, ma al contrario ha generato un processo di situazioni conflittuali che sembra inarrestabile. Non si tratta di un’affrettata analisi politica, bensì di un’ovvia constatazione. Alla “guerra fredda” – basata su uno status quo garantito da due partner-antagonisti, ognuno responsabile della sua zona di influenza – sono succedute tante guerre locali, sanguinosamente vivacizzate da un terrorismo su larga scala che nelle guerre trova copioso alimento. Inoltre, è stato coniato, e applicato, il nuovo concetto di “guerra preventiva”, che, parafrasando un antico detto latino, sentenzia “se vuoi la pace, fa’ la guerra”. E presenta l’indubbio vantaggio di richiedere un solo contendente, quello che attacca, senza nemmeno il fastidio di dichiarazioni formali.
Nello stesso tempo, si è avuta ovunque una notevole riduzione numerica delle forze armate nazionali – molto più incisiva nell’Europa dell’Est, ex-Urss in testa, ma notevole anche negli Usa e in Occidente – che ha prodotto due effetti concomitanti: la difficoltà di disporre di effettivi sufficienti a gestire una situazione di costante interventismo, sia pure con la dovizia di armamenti sofisticati di cui dispone la superpotenza; l’immissione sul mercato di un gran numero di esperti militari di ogni grado e nazionalità, rimasti senza lavoro e quindi pronti a mettere le loro competenze a disposizione del migliore offerente. Si configura così il ruolo assunto da quelli che in linguaggio giornalistico sono chiamati i “nuovi mercenari” (termine che, dopo la drammatica esecuzione in Iraq di Fabrizio Quattrocchi, ha suscitato grande scalpore nel nostro Paese, dove, almeno finora il fenomeno ha connotati e dimensioni piuttosto ridotte, artigianali), e che nella realtà costituiscono qualcosa di più serio (e, se si vuole, potenzialmente di più pericoloso) che viene ufficialmente definito Private Military Companies (Pmc): il termine è sufficientemente chiaro. Si tratta di società private che dispongono di uomini addestrati e di mezzi atti a svolgere compiti bellici per conto di chi li paga.
La presenza, e anche l’influenza, delle Pmc – in prevalenza americane, britanniche, sudafricane, con propaggini di reclutamento un po’ ovunque – è andata via via imponendosi dall’inizio degli anni ’90. In Africa, continente già privilegiato dai mercenari anni ’60 (come il francese Bob Denard), in America Latina, nell’ex Jugoslavia, dove tra croati, serbi e bosniaci, le Pmc sono state probabilmente le uniche a trarre un reale profitto dalle guerre interetniche, nella Guerra del Golfo del 1991, e, dopo l’11 settembre 2001, in Afghanistan e, naturalmente, in Iraq.
Soprattutto l’Iraq è stata, e rimane, la grande occasione delle Pmc. La “guerra preventiva” voluta dall’amministrazione Bush-Cheney, ormai trasformata in “guerra permanente”, ha evidenziato il ruolo di queste Spa che nella guerra, e solo nella guerra, con i suoi annessi e connessi, trovano la loro ragione di essere. In Iraq, i mercenari – o, meglio, i “contractors”, cioè “sotto contratto” – sarebbero circa trentamila, il secondo contingente straniero dopo quello statunitense. Diciamo “sarebbero” perché il numero esatto non è ufficialmente noto. E forse, nel caos diffuso, nessuno lo sa. Persino il capo del pentagono, Donald Rumsfeld, parlando davanti al Congresso si è limitato a prevedere che il loro numero sia destinato ad aumentare.
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“Stipendiare uomini d’arme venuti di fuori era pratica corrente nel Quattrocento soprattutto italiano (“condotta” era il contratto con il quale un capitano di ventura era assoldato: di qui il termine condottiero). Essa non è tuttavia sconosciuta nei tempi contemporanei, ed anzi recenti eventi bellici (la campagna militare in Iraq nel 2003) hanno richiamato su di essa l’attenzione dell’opinione pubblica. Pare oggi crescente, rispetto al recente passato, la varietà di modalità, occasioni e scopi, legati alla pratica di assoldare professionisti della guerra o della sicurezza. Ne consegue una difficoltà nel rinvenire una definizione onnicomprensiva di soldato a pagamento”: è l’inizio di un dossier del gennaio 2005, dal titolo “I soldati di ventura del XXI secolo”, redatto per il Servizio Studi del Senato da Luca Borsi e Simone Bonanni. In effetti, la difficoltà nel definire il “soldato a pagamento” sta anzitutto nella sua funzione: un nodo importante, del resto, è rappresentato proprio dalla distinzione tra “guerra” e “sicurezza”, che in scenari di elevata e diffusa conflittualità (come, ad esempio, quello iracheno) risulta, a dir poco, capziosa.
“I primi strumenti giuridici definitori, cui volgersi – prosegue l’introduzione del dossier – sono quelli messi a disposizione dal diritto internazionale contemporaneo. Esso riguarda tale fenomeno alla esclusiva stregua del “mercenario” e del “mercenarismo”, con connotazione negativa. Tali strumenti giuridici sono essenzialmente tre: l’articolo 47 del Protocollo I aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra adottato l’8 giugno 1977; la Convenzione per l’eliminazione del mercenarismo adottata dall’Unione africana nel 1977; la Convenzione Onu contro il mercenarismo del 1989”.
L’articolo 47 del protocollo aggiuntivo I alle Convenzioni di Ginevra (ratificato dall’Italia con la legge 762 dell’11 dicembre 1985) stabilisce che viene definito “mercenario” chi: a) sia appositamente reclutato, localmente o all’estero, per combattere in un conflitto armato; b) di fatto prende parte diretta alle ostilità; c) prende parte alle ostilità spinto dal desiderio di ottenere un profitto personale; d) non è cittadino di una parte in conflitto, né residente di un territorio controllato da una parte in conflitto; e) non è membro delle Forze armate di una parte in conflitto; f) non è stato inviato da uno Stato non parte nel conflitto in missione ufficiale quale membro delle Forze armate di detto Stato. Nell’articolo 47 si dichiara che un mercenario non ha diritto allo statuto di combattente o di prigioniero di guerra.
La Convenzione dell’Unione africana riprende sostanzialmente la definizione di Ginevra, e lo stesso fa quella dell’Onu. Ma nell’ambito della Commissione diritti umani delle Nazioni unite è stata elaborata una relazione, presentata nel dicembre 2003, che indica una “distinzione tra le attività di mercenarismo illegale, oggetto della condanna della Convenzione delle Nazioni Unite, e quelle legate a servizi di assistenza militare legali”. Su questa linea, verosimilmente gradita ai governi che fanno largo uso di “contractors” (e verosimilmente da loro ispirata), si suggerisce di distinguere tra Private Military Companies (Pmc), agenzie private che si occupano di problemi prettamente militari, e Private Security Companies (Psc), agenzie dedite ai problemi della sicurezza in senso lato. La stessa distinzione viene usata dall’associazione di categoria delle compagnie, che non a caso ostenta nella sua denominazione la parola “pace”: International Peace Operations Association (Ipoa), associazione internazionale per le operazioni di pace. Ed è stata ripresa, nel febbraio 2002, dal Libro Verde del Parlamento britannico, che in proposito rileva come le definizioni date dalle Convenzioni internazionali non siano quasi mai applicabili. Certo è che esse non sono quasi mai applicate, e ricordiamo che la Gran Bretagna è, dopo gli Stati Uniti, il Paese dove hanno sede il maggior numero di Pmc, spesso operanti al servizio del governo di Londra.
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Al di là dei tentativi di classificazioni ufficiali, non è agevole individuare i compiti assolti dalle Pmc, anche se queste società non praticano alcuna forma di clandestinità, ma al contrario pubblicizzano le loro attività attraverso Internet, con siti spesso ben curati e accattivanti. E dietro i contractors operativi sul campo, vi sono i consigli d’amministrazione, finanziarie, consulenti militari, politici ed economici, strutture di supporto logistico.
Un esempio emblematico è la Blackwater Usa, che comprende cinque compagnie: Blackwater Training Center, Blackwater Target Systems, Blackwater Security Consulting, Blackwater K-9, Blackwater Aviation. “Come to Blackwater, where the professionals train”, venite da Blackwater dove i professionisti si addestrano, recita la presentazione del sito (www.blackwateru-sa.com).
Creata nel 1996 da un ex ufficiale dei corpi speciali americani (il nome “acqua nera” vuole ricordare i raid notturni dei sommozzatori), la Blackwater Usa ha sede a Moyock, nella North Carolina, dove ha un centro di addestramento di 2.500 ettari. Presente in forze nel conflitto iracheno, Blackwater ha arruolato all’inizio dello scorso anno trecento cileni già appartenenti alla polizia militare di Pinochet, una parte dei quali sono stati adibiti alla protezione dell’aeroporto di Baghdad. E John Dimitri Negroponte, l’ambasciatore americano in Iraq nominato coordinatore di tutti i servizi segreti statunitensi, era scortato da un reparto di questa Compagnia la sera del 4 marzo, quando il suo convoglio precedette di poco l’arrivo dell’auto con Nicola Calipari e Giuliana Sgrena. Ricordiamo che nei giorni immediatamente successivi all’uccisione di Calipari, una radio di Washington, la Wtop, affermò che a sparare non erano stati dei militari americani, ma dei “contractors” della Blackwater, tesi che il portavoce della Compagnia, interrogato da un giornalista italiano, smentì recisamente.
Per tornare ai ruoli che ricoprono le Pmc, la Blackwater, come le altre Compagnie, spazia dalla sicurezza alla partecipazione diretta agli scontri a fuoco, spesso con maggiore successo delle forze regolari. Questo perché i “contractors” sono tutti elementi esperti e ben addestrati, che si muovono come autentici “cani da guerra” (il termine non è dispregiativo, anzi più volte è stato assunto con orgoglio) che colpiscono calcolando con esattezza occasioni e rischi. Anche se a volte i rischi sono inevitabili, come avvenne per quattro uomini della Blackwater uccisi il 30 marzo 2004 a Falluja, e poi fatti a pezzi dalla folla.
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Pur essendo ben preparate e attrezzate per gli interventi bellici,(o “di sicurezza” come vengono di preferenza definiti, sulla scia di una banalizzazione della guerra agli occhi dell’opinione pubblica), le Pmc traggono buona parte dei loro profitti dalle forniture di servizi logistici e di supporto alle forze militari regolari, dalla protezione di strutture produttive (come le raffinerie e i pozzi petroliferi), alla gestione delle basi strategiche. Giungendo così ad essere saldamente inserite nel Grande Gioco degli affari legati alla guerra condotto da gruppi finanziari e industriali. E’ un aspetto che mette in luce e analizza Francesco Vignarca nel suo libro “Mercenari S.p.A.” (Edizioni Bur, pagg. 268, _ 8,50), fra le recenti opere dedicate all’argomento la più completa e meglio articolata, in grado di dare anche al lettore meno esperto in materia un quadro d’insieme ragionato di un fenomeno che sembra destinato ad espandersi. In proposito è utile citare un brano della prefazione che Vignarca dedica, appunto, “al lettore”: “La presenza di un mercato mercenario della guerra è stata, continua a essere e purtroppo sarà in futuro, un aspetto fondamentale e imprescindibile delle strutture militari, sia difensive sia offensive. Un mercato che ha sempre mantenuto uno stretto legame con i modelli decisionali, le opportunità politiche, e i meccanismi economici e sociali. Nell’immaginario collettivo è diffusa un’idea precisa e molto “classica” di mercenario, poco adatta alla situazione attuale, anche perché il concetto stesso non è mai stato statico ma si è evoluto parallelamente alla società. I nostri strumenti, siano essi giuridici o di studio, sono spesso obsoleti e possono arrivare a favorire una disinformazione diffusa che giova, in fondo, allo stesso mondo mercenario.
L’elemento che può determinare un salto qualitativo nell’analisi è quello economico. Non parlo solo degli enormi guadagni più o meno oscuri che le compagnie militari private sono in grado di raccogliere. L’economia deve fornirci invece gli strumenti adatti a comprendere appieno le dinamiche di base di quello che ormai è diventato un vero e proprio comparto industriale, con regole e percorsi molto più simili di quanto si creda alle caratteristiche dell’economia civile. Il percorso di analisi non può dunque che correre su due , l’uno politico e l’altro economico. E questa è la novità dell’approccio che l’attualità esige… La fine della guerra fredda, con il conseguente vuoto prodotto nell’ambito della sicurezza, le trasformazioni nella natura stessa della guerra, la crescita normativa e retorica della privatizzazione a tutti i costi. Un miscuglio di elementi dirompenti sta agendo come mai in passato a favore di un cambiamento radicale di scenario, utile e favorevole soprattutto a chi vuole trarre profitto dalle guerre; questa consapevolezza ci costringe ad essere vigili e attenti, per non trovarci domani di fronte a una gestione completamente arbitraria della violenza su scala mondiale”.
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“Outsourcing” è la parola chiave, tradotta in italiano con “esternalizzazione”. Più precisamente, riprendendo la riflessione di Francesco Vignarca, si dovrebbe dire “privatizzazione”. Nel senso che, verità di Vangelo, “privato è meglio”. E questo per alcuni “privati” è senz’altro vero.
Per quanto riguarda la “privatizzazione” della guerra sono noti i rapporti che le maggiori Pmc intrattengono con gli ambienti politici di Washington, non lesinando doni e sovvenzioni in vista di quei contratti che l’amministrazione Usa moltiplica di anno in anno, anzi ormai di mese in mese, sopperendo alle crescenti esigenze belliche, con un occhio di riguardo per gli amici degli amici: Blackwater, Vinnell Corporation, MPRI, DynCorp, e altre. Mentre una posizione di particolare privilegio va riconosciuta a Kellog Brown & Root, sussidiaria della Halliburton, della quale dal 1995 al 2000 era stato amministratore delegato Richard Cheney, attuale vice-presidente e vera testa pensante del governo. La Halliburton, direttamente e attraverso la Kellog Brown & Root ha negli ultimi anni ottenuto lucrosi contratti in Iraq e in Kuwait, e uno, riguardante la logistica dell’esercito americano, addirittura senza bando.
L’aumento dei profitti, garantito dalle collusioni politiche a diversi livelli, fa sì che le quotazioni in Borsa delle Pmc e delle società finanziarie che le sostengono abbiano una tendenza al rialzo del tutto anomala rispetto ad altre imprese. E P.W. Singer, attento politologo americano, commenta: “In definitiva, abbiamo una distorsione del libero mercato che sconvolgerebbe Adam Smith, un collegamento tra affari e governo che sgomenterebbe i Padri Fondatori, e un mutamento nel complesso militare industriale che sta facendo sicuramente rivoltare nella tomba il presidente Eisenhower. Salvo cambiamenti, questa è una ricetta per una cattiva politica, e cattivi affari”.
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Ma quante sono le Pmc? Uno studio dell’International Consortium of Investigative Journalists ne calcola oltre 90, che operano in 110 Paesi. Tenendo conto che queste società mantengono una struttura organizzativa fissa, ma il numero dei mercenari arruolati è variabile, dipendendo dalle esigenze operative. Comunque, una mano d’opera specializzata è sempre reperibile in un serbatoio capiente e composito. Si va dagli ex appartenenti ai corpi speciali americani, britannici, sudafricani, a quelli provenienti dai Paesi dell’Est (molto ricercati ucraini e bielorussi), dai latinoamericani (soprattutto cileni e brasiliani) ai Gurka nepalesi, fino ai filippini e ai guerrieri delle isole Figi. Le paghe sono alte, da due a dieci volte superiori a quelle ricevute in patria, e in alcune situazioni particolarmente delicate, e rischiose, possono raggiungere i 1000 dollari al giorno.
E parlando di situazioni rischiose, è evidente che si tratta di una professione nella quale si rischia essere uccisi. E, anche se non se ne parla quasi mai (e in ogni caso sull’attività dei “contractors” il riserbo sembra essere di rigore), i morti ci sono. Nel conflitto iracheno, in un elenco ufficioso, che gli estensori dichiarano incompleto, dal 10 aprile 2003 al 21 aprile 2005, se ne contano 229, con nomi e nazionalità: e nell’elenco figurano americani, britannici, canadesi, bulgari, turchi, australiani, filippini, croati, egiziani, sudcoreani, nepalesi, sudafricani, macedoni, indiani, pachistani, russi, giordani, portoghesi, libanesi, neozelandesi, romeni, cechi, finlandesi, colombiani, ungheresi. Una “internazionale” di specialisti della guerra ai quali è stata offerta l’occasione di mettere a frutto l’addestramento a suo tempo ricevuto. Un’offerta conveniente se non vi sono incidenti di percorso. E comunque, questo tipo di gestione (costi aziendali adeguati al lavoro da svolgere, con una manodopera ben pagata per il periodo richiesto) garantisce alle Pmc profitti sicuri e in crescita. Tanto che molte compagnie preferiscono stabilire la loro sede ufficiale in qualche paradiso fiscale.
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Potrebbe sembrare contraddittorio che a favorire la crescita delle Pmc e l’espansione dei loro ruoli sia proprio il governo Usa, oggi unica potenza imperiale, la cui supremazia militare è incontestabile. Eppure è così. Il Pentagono è il maggiore, e più ricercato, cliente delle compagnie militari. La guerra in Iraq ha messo in luce (per modo di dire, perché i termini concreti degli accordi restano piuttosto oscuri) questo connubio, ma esso era già funzionante in Arabia Saudita, si era sviluppato nella Guerra del Golfo del 1991, e ha assunto maggiori dimensioni in Afghanistan, dove i “contractors” sono incaricati della protezione del governo locale, la cui reale giurisdizione non supera alcuni quartieri di Kabul, e continuano a dare la caccia, alla frontiera pakistana, a Osama bin Laden: senza trovarlo, beninteso, e forse senza cercarlo seriamente, dato che nessuno sa (e chi lo sa non lo dice) dove sia il famigerato personaggio. E infine l’Iraq. Nel Paese dei due fiumi i nuovi mrcenari fanno di tutto e di più (e, quando capita, di peggio), assolvendo compiti dei quali si parla il meno possibile; per disposizioni dall’alto, e anche perché in fondo la loro presenza irrita l’orgoglio di casta dei militari americani, mentre gli altri membri della coalizione preferiscono fingere di ignorarli.
Ai “contractors” è affidato il controllo dell’aeroporto di Baghdad, la protezione dei pozzi petroliferi, e persino la scorta di personalità come John D. Negroponte (e prima del governatore Brennen), quasi che fossero ritenuti più affidabili dei bravi GI americani. E senza la rete logistica data in appalto alle Pmc i soldati in uniforme non avrebbero né viveri né rifornimenti in armi, munizioni, carburante.
Certo, vi è una contropartita, anche di genere psicologico, o propagandistico. Quando i “contractors” muoiono, non tornano in patria nelle bare avvolte dalle bandiere a stelle e strisce, ma vengono rispediti a casa come privati cittadini periti in un qualsiasi incidente. Si suppone che l’opinione pubblica non sappia nemmeno che siano mai esistiti. Va detto che le loro compagnie si sono premurate di coprirli con una polizza assicurativa, il cui costo naturalmente viene addebitato al cliente.
Ma l’argomento si presta a più ampie, e articolate, considerazioni, che riguardano la filosofia liberista assunta come dogma dall’attuale amministrazione Usa. Secondo la dottrina sostenuta dal capo del Pentagono, Donald Rumsfeld, ridurre gli effettivi delle Forze armate affidando molti dei loro compiti a dei privati rappresenta, per il Tesoro un risparmio. Tesi difficilmente documentabile, dato che essa dipende dall’estensione degli interventi militari americani, e dalle tariffe, in costante crescita, praticate dalle Pmc.
D’altra parte, questi appalti vanno a incrementare i profitti di strutture economiche bene inserite nel sistema politico, e quindi – bypassando i fastidiosi controlli statali – vi è sempre modo di trovare il proprio tornaconto. Insomma, “meno Stato e più mercato”, uno slogan che si fa sentire anche dalle nostre parti. Come per l’odiato welfare, e in particolare per le pensioni. Un paragone ad hoc, poiché molti fondi pensione americani sono investiti nelle azioni delle Private Military Companies.
“Tutto il potere ai Soviet”, proclamò Lenin, incappando in un grossolano abbaglio. “Tutto il potere alle finanziarie private”, parafrasano, più accortamente, i neocons (non solo americani), che nel loro intimo detestano lo Stato, le sue leggi, le sue regole. E, nella sostanza, le Pmc sono delle finanziarie private: delle strutture che, crescendo ed espandendosi, potrebbero condizionare la gestione bellica e affaristica delle guerre.
Una prospettiva che suscita varie perplessità, riassunte da Francesco Vignarca a conclusione del suo libro: “Gli Stati, che pure hanno pensato o stanno pensando di servirsi di queste entità private come bracci per le proprie politiche (sia estere sia generali), potrebbero tra non molto trovarsi davanti a una realtà completamente differente, scoprendosi di colpo semplici strumenti nelle mani di una nuova forma di potere: transnazionale, de-territorializzata e soprattutto di natura finanziaria e commerciale.
Il pericolo grave che si intravede dietro questo delicato angolo è che le conseguenze, inconsapevolmente, le subiranno soprattutto le popolazioni di tutti gli angoli del mondo le quali, oltre a trovarsi immerse in un conflitto permanente e globale, non sapranno nemmeno più a chi rivolgersi per chiedere spiegazioni, dare responsabilità o cercare di cambiare le cose. E’ ormai giunto il tempo di aprire gli occhi e agire di conseguenza. Tutti insieme”.
Per concludere – ovviamente senza poter tirare una conclusione univoca – citiamo il parere di un esperto, il tenente colonnello Carmine Masiello, in servizio presso l’Ufficio Generale del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, autore di un lungo articolo dedicato alle Pmc, pubblicato sulla “Rivista Militare”.
Dopo aver rilevato che la tendenza di alcuni Paesi ad orientare la specializzazione dei loro eserciti verso operazioni di peace keeping contrasta l’ambizione delle compagnie militari di proporsi come “braccio armato delle organizzazioni internazionali (ricordiamo che il loro intervento nei Balcani dette risultati mediocri, ambigui, e persino scandalosi), l’ufficiale esprime un giudizio che potremmo definire amaro e obiettivo: “Ciò malgrado, non si può non convenire che la situazione mondiale è tale, perlomeno a breve e medio termine, che le Compagnie militari private hanno ancora notevoli margini di sviluppo.
Come l’esempio iracheno ha dimostrato, l’interventismo statunitense, sempre in sintonia e supportato dall’alleato britannico, richiederà inevitabilmente il loro supporto”.
Nella foto: "Contractors" della Blackwater in azione a Baghdad
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