Il 4 marzo scorso a Baghdad, durante la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena, l’agente del Sismi Nicola Calipari non è stato ucciso solo dall’arma del fuciliere Usa, Mario Lozano.
Affermazione ad effetto, penserà qualcuno. Lecito sostenerlo. Così come lecito è ritenere del tutto inutili altre amabili deduzioni: ad esempio quelle che vogliono come certo lo scenario dell’agguato e dei suoi protagonisti. Sono invece almeno due i frammenti di proiettile rinvenuti sull’auto, che è stata crivellata di colpi la sera di quel 4 marzo. Di più: le rigature, impresse su tali mozziconi, non coincidono con quelle rilevate sul proiettile che uccise Calipari. E si è appena al 30% del lavoro svolto sul veicolo. Ergo: la Commissione d’inchiesta, condotta dagli statunitensi, nel merito della responsabilità del fuoco esploso nell’azione, ha detto il falso. Quella che appare un’incontrovertibile verità emerge dall’analisi della vettura, un lavoro che si sta svolgendo ormai da giorni nei laboratori sotterranei della Scientifica, nella sede della Direzione anticrimine centrale, diretta dal prefetto Nicola Cavaliere. Secondo l’avvocato di Sgrena, Alessandro Gamberini, non coinciderebbero assolutamente le rigature di un frammento di proiettile, ritrovato nell’auto, comparate al microscopio con quelle del colpo estratto durante l’autopsia sul corpo dell’agente del Sismi. Oltre a ciò, comunque, ci sarebbe almeno un altro frammento ‘decifrabile’, che riporterebbe segni ben diversi da quelli rimasti impressi sul proiettile che ha colpito Calipari. A dirla tutta, in più, sarebbero innumerevoli i reperti, scovati nell’abitacolo, che indicherebbero ben altre eventualità, rispetto a quelle ufficialmente dichiarate sinora dall’autorità Usa, sulla dinamica dell’agguato.
Agguato? Sì, un’altra parola grossa. Chi non la vuol leggere si copra occhi ed orecchie.
Sinora, infatti, si parla di almeno una ventina di frammenti, anche di dimensioni minime, dunque poco utilizzabili per una comparazione; altri pezzi di piombo, senza rigature; ma altri, abbastanza grandi, da far vedere la camiciatura, quindi leggibili come un libro aperto.
Il prossimo appuntamento con ‘un’altra verità’ è ora fissato per il 9 giugno. Per quella data, infatti, è prevista la riunione in cui i diversi consulenti, nominati dalla Procura e dalle parti civili, si siederanno intorno ad un tavolo per fare il punto su quanto accertato in merito ai rilievi balistici. Per quei giorni dovrebbe essere pronta anche la ricostruzione delle traiettorie dei proiettili, una dinamica che già si evidenzia da primissimi rilievi: si è osservato, cioè, che i percorsi delle pallottole indichino già traiettorie non congruenti con quanto sinora affermato dagli esperti Usa. Emergono cioè direttrici che viaggiano non sono dall’alto verso il basso, ma anche dal basso verso l’alto, provenendo esplicitamente da un punto di fuoco ad altezza d’uomo.
A ciò va sommato l’angolo di incidenza dalla fonte di sparo, angolo che varia di molti gradi anche con spostamenti di pochi metri; visto che il posto di blocco, secondo i rapporti ufficiali, era ad almeno 50 metri sono lampanti le difficoltà affrontate dai periti.
Nel merito, la procura di Roma prende tempo. “Quelli balistici – dichiara – sono soltanto una parte degli accertamenti, complessi e delicati, che abbiamo disposto sull’auto su cui, la sera del 4 marzo, viaggiavano Nicola Calipari, l’autista e la giornalista italiana. I nostri consulenti hanno chiesto 60 giorni di tempo e dovrebbero depositare la relazione finale il 9 luglio salvo proroghe. Hanno detto che ci vuole pazienza. Soltanto alla fine si potranno tirare le somme”.
Nell’attesa, comunque, è possibile comporre altri piccoli pezzi dello scena. In quel 4 marzo scorso, Nicola Calipari viene assassinato ad un illegal check-point. Niente di scandaloso: in questo modo, nello scenario dell’inesauribile conflitto iracheno, vengono definiti i posti di blocco non convenzionali.
Legali o meno, dall’inizio dell’occupazione dell’Iraq, queste ‘porte armate’ continuano a contare vittime, militari e civili, a iosa. Concretamente, le precauzioni basilari previste per l’ingaggio si sono dunque rivelate sinora del tutto inadeguate e, in un cospicuo numero di casi, in larga misura obsolete. Da molti mesi a questa parte, vi è stato chi ha insistito sulla necessità di segnalazioni chiare: dall’utilizzo di luci alla presenza di scritte in diverse lingue, a partire dall’arabo. Ma nulla di fatto.
Calipari viene ucciso ad un posto di blocco ben definito: una “blocking position”, cioè blocco ‘volante’. Altra traduzione? Un’imboscata, qualcosa che non comporta la ricerca di veicoli o un contatto diretto con essa. Nel caso dell’omicidio del nostro uomo del Sismi, però, il rapporto del Pentagono sembra voler contraddire questa potenziale libertà di azione. In esso, infatti, sono citate espressamente alcune misure precauzionali che gli uomini Usa avrebbero dovuto innescare: “alert line”, “warning line”, “stop line”, “search area”, “overwatch area”. Si sta parlando di procedure tattiche, tecniche che includono segnali di attenzione a distanza sufficiente per essere visti da veicoli in arrivo, barriere fisiche poste come argine insormontabile tanto da costringere i veicoli in arrivo a bloccarsi, utilizzo di dotazioni come segnaletica di avviso, triangoli, coni per il traffico, cunette artificiali, cavalletti. Niente di tutto questo, in quella sera del 4 marzo. Domanda: c’è qualcuno in grado di comprendere cosa, in sostanza, prevedano gli Usa per le diverse tipologie di check-point in Iraq?
Da parte delle autorità militari Usa, che comunque esonerano i propri uomini da reali responsabilità nell’assassinio, emerge comunque un non detto o, comunque, un detto ‘a metà’. Si schiude cioè la strada ad una troppo labile congruenza da quanto previsto dalla teoria e quanto svolto nella pratica. L’unità avrebbe usato procedure informali, oltre ad essere stata poco addestrata sulle procedure adeguate per operare ad un posto di blocco.
Detto questo, adesso si prenda in considerazione uno degli aspetti più oscuri della vicenda. Su tale questione, e da quanto è emerso, gli stessi servizi italiani non hanno sinora ricevuto risposte plausibili dai colleghi statunitensi. La “blocking position 541”, dove è stato ucciso Calipari, è stata predisposta per proteggere il passaggio dell’ex ambasciatore Usa in Iraq, John Negroponte, che in quelle ore viene nominato capo di tutte le agenzie di informazione statunitensi. Domanda: perché la postazione è rimasta attiva oltre il dovuto? Meglio: visto che Negroponte era già giunto a destinazione, perché la “blocking position 541” non è stata tolta? A parlare non è un uomo del Kgb ma Cesare Ragaglini, il diplomatico che, insieme al generale del Sismi Pierluigi Campregher, ha partecipato al Gruppo investigativo congiunto Usa-Italia, per nulla paritetico, sull’uccisione di Calipari. “Negroponte – ricorda – doveva muoversi in elicottero, ma quella sera pioveva, quindi decisero di farlo spostare via terra”. Per avere massima sicurezza, fu chiusa per intero l’Irish Route, la superstrada che porta all’aeroporto di Baghdad. “Alle 20.10 – precisa Ragaglini – Negroponte era già passato e al sicuro, ma la pattuglia ebbe l’ordine di smantellare il posto di blocco fino alle 20.18, cioè solo per pochi minuti, e nessuno ha capito perché”.
Secondo Ragaglini, il capitano responsabile della Sala operativa “pur sapendo che Negroponte era arrivato, ci disse che aveva avuto problemi di comunicazione, che il Voip (il sistema di comunicazione satellitare Usa, ndr) era rotto. Ma aveva però un sistema radio per comunicare. Questo è un elemento indicatore – continua Ragaglini – della gestione Usa, di come le cose, quella sera, non siano andate proprio per il verso giusto”. Il diplomatico ci tiene a sottolineare che tutto questo “risulta agli atti”: “alle 20.55 passa l’auto di Calipari e il posto di blocco, allestito per la sicurezza di Negroponte, era ancora lì”.
C’è chi sostiene che questo sia stato uno scontro tra servizi. Arguto. Se così è, ogni passaggio della vicenda è lungi dall’essere un’illazione. E’ solo un’ipotesi concreta, da valutare e sommare ad altre: compreso il ritenere, a tutt’oggi, del tutto indefinite le identità che hanno agito in quell’illegal check-point. Con buona pace dei rimestatori, buffamente allarmati dalla stampa dedita alla disinformazione.
Nella foto: la Toyota sulla quale viaggiavano Nicola Calipari e Giuliana Sgrena
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