La notizia è ufficiale, e terrificante. Anche se probabilmente da molti sarà recepita con indifferenza, o rassegnazione. A comunicarla è stata Hania Zlonik, direttrice dell’ufficio studi dell’Onu che segue la crescita e gli spostamenti della popolazione del globo: a partire dal 2006, fra sei mesi, più della metà della popolazione mondiale vivrà in agglomerati urbani.
Certo, era prevedibile. Questo fenomeno di urbanizzazione ha avuto inizio, nella seconda metà del 1800, con la rivoluzione industriale; prima di allora solo il 2% della popolazione mondiale viveva in città. L’afflusso dalle campagne della manodopera richiesta dalle fabbriche che sorgevano attorno ai centri forniti di linee di comunicazione per il trasporto delle materie prime e delle merci prodotte, provocò l’espandersi delle città con quartieri pensati e realizzati secondo criteri che neppure prendevano in considerazione la “qualità della vita”.
Da allora, anche se la crescita dell’industrializzazione avrebbe dovuto, e potuto, trovare un suo sviluppo armonico anche sul piano urbanistico e ambientale, l’espansione abnorme e disordinata delle città non doveva più interrompersi. Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX , si erano levate delle voci di dissenso, profetiche del disastro immanente, a proporre soluzioni diverse, più rispettose della dignità umana. Gli architetti Henry Van de Velde, belga, protagonista dell’Art Nouveau, e Walter Gropius, tedesco, fondatore nel primo dopoguerra del Bauhaus, erano stati due tra i più lucidi e motivati di questi profeti, considerati però dalle caste dominanti alla stregua di utopisti visionari che si riferivano alle esigenze delle classi lavoratrici parlando addirittura di problemi estetici. Ora, perché mai i lavoratori dovrebbero avere il tempo e la voglia di badare all’estetica del mondo in cui vivono ? E poi, l’estetica costa, e il profitto ha orrore di tutto ciò che non ha un ritorno immediato in utili quantificabili. In effetti, le città non erano diventate soltanto sempre più grandi, ma anche sempre più brutte, e invivibili per la maggioranza dei loro abitanti.
Nel 1900 a vivere in aree cittadine era già il 14% della popolazione mondiale, una quota salita all’ingresso nel 2000 al 47%: Nel 1950 in tutto il mondo le città con più di un milione di abitanti erano 83, oggi sono 411. All’inizio del 2002, 3 miliardi di persone vivevano in città, e 2 miliardi appartengono a quei Paesi denominati “in via di sviluppo”.
L’elenco delle dieci città più popolate del mondo è impressionante, e a suo modo significativo. In testa vediamo Tokyo, con 26.025.000 abitanti, seguita da Città del Messico, 18.131.000. Poi si passa all’India, con Bombay, 18.042.000, e al Brasile, con San Paolo, 17.711.000. Seguono New York (16.626.00), Shanghai (14.173.000), Lagos (13.488.000), Los Angeles (13.129.000), Calcutta (12.900.000), Buenos Aires (12.431.000). Si deve notare che delle dieci megalopoli, solo tre appartengono a Paesi tecnologicamente avanzati. E che al settimo posto si trova Lagos, capitale della Nigeria, un Paese africano che, malgrado le sue ricchezze minerarie, in particolare petrolifere (o magari anche a causa di queste) condivide la disgraziata sorte di quel continente.
L’urbanizzazione, in quei Paesi che furono promotori della rivoluzione industriale sembra essersi in qualche modo assestata, dato che ha già raggiunto il suo apice: negli Stati Uniti l’80% della popolazione vive in centri urbani, e semmai vi è una leggera tendenza ad allontanarsene, quando le condizioni di lavoro lo consentono. Sono i Paesi in via di sviluppo ad alimentare questo fenomeno, a registrare una continua migrazione dalle campagne alle città. Il risultato è mostruoso. Quelle che fino ad alcuni decenni or sono erano delle periferie disagevoli, vedono crescere attorno ad esse distese di baracche che ospitano masse miserabili di ex contadini che sognano di trasformarsi in cittadini, e non lo saranno mai. Le condizioni di vita, sempre difficili al limite della rottura, diventano impossibili.
Ora, nell’anno di grazia 2005, si lancia l’allarme. Il rapporto dell’Onu avverte che la situazione è gravida di pericoli: a parte le condizioni di vita create in queste allucinanti distese urbane, sono da temere incidenti di estrema gravità, scontri sanguinosi, migliaia di morti. Come in una guerra, tanto per cambiare. Uno scenario che potrebbe riprodurre, in molto peggio, quello mostrato a suo tempo da “Metropolis” di Fritz Lang. Sarebbe il caso di dire che il difetto è nel manico, all’origine. Gli strumenti del progresso, senza dubbio eccezionali, sono stati utilizzati per accrescere a dismisura i profitti di pochi, piuttosto che per migliorare le condizioni di vita di tutti. Perseguendo questo fine, non si è esitato a saccheggiare le risorse della Terra, e a distruggere quello che non sembrava immediatamente fonte di guadagno. Peggio ancora, si è affermato che questo modello di sviluppo zoppo era l’unico valido, e come tale è stato trasmesso, imposto, accettato.
“Chi arriva povero in città, rimane povero nel 99% dei casi, se non peggiora la sua situazione. Se questo è vero nella maggior parte dei casi per megalopoli come New York e Londra, è la regola nei Paesi in via di sviluppo. Lì il cinquanta per cento della popolazione vive senza fissa dimora, o al meglio in una baracca, e ha difficoltà anche per procurarsi il cibo. Aggiungendo i rischi concreti di aumento di malattie endemiche, e dell’Aids”: Anna Tibaijuka, dell’United Nations Human Settlements dell’ONU, indica due punti fondamentali per correre ai ripari. Migliorare le condizioni di vita nelle campagne, fornendo a chi vi risiede lavoro e servizi sociali. E attrezzare le città in modo che possano ricevere comunque i flussi prevedibili di nuovi arrivi.
Tenendo conto che lo spopolamento massiccio delle zone rurali avrà effetti negativi sull’ambiente, analoghi a quelli della distruzione delle foreste, dell’inquinamento dei corsi d’acqua, della cementificazione delle coste. Tutte cose che, senza bisogno di andare a vedere che cosa accade dall’altra parte del mondo, conosciamo benissimo.
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