Forse c’è stato un periodo della Storia in cui la politica ha avuto il sopravvento; forse si sono vissute esperienze positive grazie a idee condivise sviluppate nel nome dell’interesse comune. Sicuramente non è questa la realtà del nostro tempo, dove dominano incontrastati valori personalistici ma dove, soprattutto, trionfano ovunque i criteri dell’economia.
Economici sono i presupposti delle leggi finanziarie, i riferimenti politici, i limiti di azione, i mutamenti, i disimpegni o i progetti. Tutto questo mentre l’economia mantiene intatte le sue caratteristiche di lontananza dalla vita quotidiana. Di politica si può sempre discutere, magari appassionandosi e coinvolgendosi: nei confronti dell’economia si ha invece un atteggiamento passivo derivante dalla intangibilità dei centri decisionali.
Eppure c’è qualcosa di strano se da un lato si riafferma il primato della politica ma poi, nelle realizzazioni concrete, non è la politica a decidere bensì l’economia. Le scelte economiche locali, nazionali ed internazionali sono dunque la nuova frontiera della politica; la possibilità di intervenire su queste scelte è direttamente proporzionale e propedeutica rispetto all’acquisizione di una posizione rilevante in ambito politico.
Quindi se guardiamo alle vicende italiane più recenti come la riforma delle pensioni, la discussione intorno alla legge finanziaria per l’anno 2005 con i suoi corollari di tagli di spese, la riduzione delle imposte, non possiamo fare a meno di notare come la politica abbia un ruolo del tutto defilato e secondario nei confronti di quelle che vengono spesso definite come “priorità”.
Senza dubbio si tratta di un aspetto importante e trasversale nelle società contemporanee: si può azzardare l’ipotesi che una parte del disinteresse verso il coinvolgimento personale nella vita politica derivi proprio dalla constatazione della personale inutilità quando vengono evocati scenari “macroeconomici”, “debito pubblico”, “prodotto interno lordo” e simili. Eppure fino al 1957 nei quotidiani italiani non esisteva nemmeno la pagina economica: fu il quotidiano “Il Giorno” ad introdurla in quegli anni e oggi ognuno può valutare quanto pesi l’economia nell’informazione, non solo considerata come notizia specialistica ma anche e soprattutto nella logica che sottende la vita giornaliera a qualsiasi livello. Se la politica viene spesso accusata di essere riservata a pochi eletti, che dire dell’economia? Con i suoi termini tecnici - spesso mutuati dalla lingua inglese - che la rendono ostica ad un osservatore impreparato, con i suoi riti ed i suoi templi, con le sue previsioni, statistiche e censure, essa appare come una torre d’avorio difficilmente accessibile.
Per quanto la politica in certe sue forme tenta di riunificare, l’economia ha una potenziale capacità divisoria insita nella sua stessa natura, almeno negli aspetti che riguardano l’accumulo del profitto. Probabilmente ci troviamo di fronte ad un mutamento che potrà originare anche ripercussioni sul modo stesso di fare politica.
È ovvio che questi legami sono alla luce del sole e non sfuggono alla classe politica, ma non sono altrettanto chiari gli obiettivi cui si tende e quali assetti futuri regoleranno la vita sociale in costanza di una preponderante rilevanza dell’economia sulla politica.
È la politica che si impone dei limiti economici: il ragionamento specularmente opposto forse sarebbe auspicabile in varie circostanze, ma un politico “ragionevole” difficilmente entra in rotta di collisione con le previsioni di crescita dell’economia.
Così restano irrisolte questioni globali di inaudita violenza intrinseca, come fame, povertà, disoccupazione, il costo dei medicinali per i paesi del Sud del mondo: ma in fondo ognuno si sente po’ sollevato, considerando l’esiguità dei mezzi a disposizione rispetto a problemi tanto grandi, e moralmente ci si autoassolve, senza provare la minima indignazione. Ovviamente non esiste un rimedio per ribaltare questa tendenza a misurare la vita come se fosse un’azione di borsa; esiste solo il più classico degli interventi che la politica, in extremis, ci suggerisce, e cioè tornare a pensare con la libertà di apprezzare le situazioni scevre dalle implicazioni economiche che, inevitabilmente, le accompagnano.
Si possono riscoprire le molteplici scelte quotidiane che, qualora fossero sentite e praticate da una vasta comunità, potrebbero addirittura modificare i progetti economici decisi altrove.
È possibile avere la curiosità di conoscere cosa c’è dietro le scelte economiche di fondo, dare un volto ad un’economia sempre più travestita sotto le sembianze della politica e sempre meno vicina alle esigenze umane: occorre verificare quale sia l’impegno su fronti come quello della spesa sociale e, alla fine, esprimere un giudizio, attività sempre più rarefatta, ma non per questo meno importante.
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