A tanti anni di distanza
non ci sono ancora
elementi nuovi
sull’omicidio di Alberica
Filo Della Torre. Ecco
i difetti delle indagini
Parliamo della contessa Filo Della Torre uccisa nel ’91, un anno dopo il caso di Simonetta Cesaroni. Anche questo è rimasto un caso misterioso, ci sono stati nuovi sviluppi?
Non mi pare che ci siano mai stati sviluppi importanti.
Credo che le indagini su questo caso siano state fatte con grande approssimazione sin dall’inizio: non sono state identificate tutte le persone che ruotavano intorno alla contessa e alla sua casa, non c’è stata una strategia d’indagine precisa; è un po’ il difetto di tutte queste inchieste che sono finite nel nulla. Non si ha la cultura del fatto che bisogna congelare i luoghi, identificare tutte le persone che abbiano un qualunque tipo di legame con il luogo e con la vittima - in questo caso la contessa, il marito, i familiari più stretti, le persone frequentate - e soprattutto non si parte con una strategia di indagine, come ad esempio passare al setaccio tutte le storie delle persone a partire dalla vittima, dal marito, ecc.
Quindi, quando si fanno delle inchieste in modo approssimativo succede poi che si da adito a interpretazioni giornalistiche, che sono legittime perché il giornalista deve anche cercare di porre quesiti all’opinione pubblica, ma il risultato però è spesso quello di denigrare qualcuno, che potrebbe essere anche coinvolto, ma potrebbe non esserlo, e in questo caso bisogna rispettare il diritto alla privatezza, fin quando non ci sono elementi seri ripresi dalla magistratura non si possono lanciare messaggi. E soprattutto, il vero problema è quello di far fallire l’inchiesta, di non arrivare mai alla verità. C’è, per esempio, in questo caso della contessa, il ruolo di una persona che faceva parte dei servizi segreti. E’ stato indagato a fondo il rapporto tra la contessa Filo Della Torre e i servizi segreti, se ci potevano essere dei legami tra lei e i servizi segreti; sono tutte piste che non sono state mai approfondite.
Quindi i giornalisti, secondo te, hanno una posizione scomoda, a volte sbagliata perché si fanno latori di messaggi che poi sono controproducenti?
Sì, perché se amplificano un sospetto che non è un sospetto nei confronti di qualcuno, immediatamente orientano l’opinione pubblica in una direzione sbagliata.
Invece, il giornalismo d’inchiesta, quello vero, quello giusto, è il quarto potere, perché ha la funzione di controllare il potere: se il potere, in questo caso la magistratura, fa delle indagini in modo sbagliato il giornalismo deve essere quello che controlla, che denuncia ai cittadini, che racconta tutto, in una chiave critica e autonoma.
Questo è il grande dono di cui gode il giornalismo italiano.
Allora qual è il limite?
E’ nella professionalità del giornalista. Intanto egli non si deve affidare ad una sola fonte di prova e invece, spesso il giornalista si affida ad un sola fonte, che è la Procura.
Tutto quello che la Procura dice all’esterno deve essere oggetto di attenta verifica, perché la Procura è una parte con una funzione accusatoria, quindi bisognerebbe sentire per esempio i difensori, e nel contrasto non privilegiare una sola tesi, o almeno privilegiare la tesi più logica e verificarla. Questo manca un po’ nel giornalismo di questi ultimi anni.
Tornando all’omicidio della contessa, tutte le indagini erano indirizzate verso i domestici.
Si è caduti, secondo me, nel solito equivoco, quasi un po’ razzista. Poiché è stata colpita una persona ricca, non può che essere stato il domestico che vuole rapinarla, che vuole i gioielli. Invece la strategia di indagine doveva essere a 360 gradi, perché sin dall’inizio si poteva capire che la pista non era quella della rapina.
Si capiva fin dall’inizio che c’era un retroscena molto più complesso, aver ridotto l’attività di indagine alla tesi più ovvia, quella dei domestici infedeli, è stato un limite, le indagini dovevano essere fatte in modo ampio, ma anche tempestivo: non si può partire solo dai domestici, si deve partire da tutto.
E poi l’indagine deve partire da una strategia che deve essere chiara per l’inquirente, con le precauzioni necessarie per i luoghi. Bisogna passare al setaccio le vite delle persone legate al delitto e la scena del delitto, come ho già detto prima.
Invece l’indagine è durata due anni, poi è finita là?
Sì, in Italia le indagini durano a lungo. Questo tipo di delitti va affrontato in varie direzioni: nel movente, valutando le personalità, è un tipo di attività di indagine molto complessa, molto vasta, che trova i necessari supporti nelle indagini scientifiche. Oggi, a differenza di qualche anno fa, è molto avanzata la tecnica scientifica per le impronte, per le tracce di sangue.
Se c’è una strategia generale l’indagine della Polizia e della magistratura deve essere immediata. Quando passano alcuni mesi poi si trascina a lungo la cosa e diventa una telenovela senza fine.
Qualche volta si è scoperto in Italia qualche delitto a distanza di 30 anni, ma è stata un’occasionalità, come ad esempio il caso Carretta: si è scoperto perché Carretta ha confessato davanti alla televisione.
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