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Aprile-Maggio/2005 - Articoli e Inchieste
Iraq
Quel pericoloso “grilletto facile”
di Valter Vecellio

Ad onta della sfrenata tecnologia degli
eserciti (comprese le cosiddette “armi intelligenti”),
basta un nonnulla per provocare una tragedia, come
quella che ha portato alla morte di Calipari


Vai a capire perché lo chiamano, in codice, “blue on blue”; e in italiano “fuoco amico”. Ti ammazza come l’altro, quello “nemico”, ed è più pericoloso: perché è più insidioso, difficile da fronteggiare, arriva da dove meno te lo aspetti. Più pragmatici, gli esperti militari parlano di “amicidio”: morire, appunto, per mano “amica”.
Dicono che la guerra oggi è tecnologica, si combatte con armi “intelligenti”: capaci di individuare la capocchia di uno spillo attraverso le nuvole, e captare sussurri e battiti di ciglia. Poi basta un nulla, per provocare tragedie come quella in cui è rimasto vittima l’agente del Sismi Nicola Calipari; ucciso appunto da “fuoco amico”.
Seymour Hersh è un giornalista di vecchio pelo: 35 anni fa portò alla luce la strage perpetrata dai soldati americani nel villaggio vietnamita di My Lai; e lo scorso anno fece scoppiare con i suoi articoli lo scandalo delle torture nel carcere iracheno di Abu Ghraib. “Ciò che è successo agli italiani”, dice, “succede ogni giorno: il problema cronico degli americani, anche nel caso della collega Giuliana, è l’aprire il fuoco su innocenti ai posti di blocco. E’ il tipico errore, il modo più probabile di morire in quel paese”. Hersh aggiunge che manca un servizio di intelligence all’altezza di quanto sta accadendo in questa guerra: “Anche da questo nasce la paura. Non credo che i nostri soldati siano degli assassini. Sono dei giovani spaventati, terrorizzati da un’eventuale bomba. Uno stato d’animo che ha causato anche altre tragedie, in cui hanno perso la vita bambini”.
Quel che dice Hersh non giustifica, ma aiuta a capire il contesto.
Michael O’Hanlon è senior yellow alla Brookings Institution, uno dei più prestigiosi centri studi e analisi americani. Per certi versi, dice, “è comprensibile che un soldato americano di vent’anni, spaventato, che ha visto amici e iracheni innocenti morire per colpa di agguati e autobomba, possa reagire troppo affrettatamente in certe situazioni. Ma questo non può essere una scusa che giustifica la morte di persone innocenti. Dal punto di vista della pianificazione militare, è chiaro che necessitiamo di armi non letali migliori, in grado di bloccare le auto in questo tipo di situazioni. Dobbiamo studiare nuove possibilità, come ad esempio sparare solo alle ruote dei veicoli sospetti, almeno come prima mossa. Dobbiamo imparare da questa tragedia…”.
Andrea Margelletti presiede il Centro Studi Internazionali: non esclude che una parte di responsabilità sia da addebitare a comunicazioni a metà tra agenti della Cia e Pentagono. Lo scontro tra la “compagnia” e militari ha toccato livelli incandescenti: “Il Pentagono sta cercando di aumentare il proprio potenziale d’intelligence e cerca di reclutare agenti entrando nell’area della Cia. Dal 1991 esiste un discorso aperto. Il Pentagono sostiene che la Cia non fornisce informazioni sufficienti. Dopo la guerra l’Agenzia ha dato il via a un ‘direttorio affari militari’. Ma questo non è bastato. Il Pentagono di Rumsfeld cerca di avere una sezione autonoma”.
C’è chi non manca di ricordare che due anni fa il segretario alla Difesa americano in visita a Roma chiese che i referenti dei servizi di sicurezza italiani fossero la Dia del Pentagono e l’ufficio speciale del sottosegretario Douglas Feith. Picche, rispose allora il direttore del Sismi Nicolò Pollari: “Per noi l’interlocutore è sempre stato e rimarrà la Cia”, spiegò al ministro della Difesa italiano Antonio Martino. Ineccepibile, la posizione italiana. L’episodio però serve per dare un’idea di come e quanto siano diventati tortuosi i canali di trasmissione dentro gli apparati Usa; tortuosità che si riflette puntualmente anche in Iraq, dove tra Cia e l’intelligence militare Usa corre un pessimo sangue. “Normale” dunque che la Cia non sempre avvisi o trasmetta i “dettagli” di operazioni in corso alle controparti militari; “normale” che il Pentagono non prenda per buone le indicazioni della Cia; “normale” che queste indicazioni siano recepite tardi e male, facendo così saltare la catena di comando e di comunicazione fra i reparti operativi…
Lasciamo Baghdhad, andiamo a Troy, nello stato di New York, dove ha base la 42esima Divisione di Fanteria, conosciuta come “i soldati dell’arcobaleno”, dal simbolo della divisione. La 42esima fa parte della Guardia Nazionale dello Stato di New York; sull’autostrada per l’aeroporto di Baghdad c’erano uomini del “Fighting 69th”, il Primo battaglione-69mo Reggimento di fanteria, un’unità fondata nel 1851 dagli immigrati irlandesi. Combatterono valorosamente durante la guerra civile, e devono il loro nome, “Fighting 69th”, al generale sudista Robert Lee, ammirato per il loro coraggio; il motto del battaglione dice: “Gentili se accarezzati, feroci se provocati”. Sono arrivati in Iraq nell’ottobre scorso, i veterani li chiamano “i soldati della domenica”, alludendo al fatto che sono appunto arruolati (volontari) della Guardia Civile. Militari il cui addestramento è approssimativo, e comunque non adatto alle tattiche di guerriglia; e men che mai di svolgere, contemporaneamente, azione di polizia e controllo del territorio. La vicenda Sgrena-Calipari, insomma, fa emergere ancora una volta la piaga da una parte del “fuoco amico”; dall’altra del “fuoco facile”, di cui sempre più spesso si rendono protagonisti i militari americani in Iraq.
Nelle guerre in Afghanistan e in Iraq, il “friendly fire” ha colpito indiscriminatamente, uccidendo militari americani e soldati alleati, inviati di guerra e semplici civili. A volte sono vittime famose: in Afghanistan il “fuoco amico” fulmina l’ex campione di football Pat Tillman, “Basta sparare, sono amici”, sono state le sue ultime parole, gridate con tutto il fiato che aveva in gola alla sua pattuglia, caduta sotto il tiro di un elicottero che aveva scambiato i soldati americani per guerriglieri taliban. Un altro episodio clamoroso, nell’aprile del 2002: quattro militari canadesi centrati da una bomba sganciata da un F-16 americano.
Il 23 marzo 2003 in Iraq un tornado britannico abbattuto da una batteria di Patriot. Il giorno prima era stato colpito Terry Lloyd, inviato della tv inglese “Itn”; un mese dopo era toccato a un altro giornalista, Kamaran Muhamed, traduttore per la “Bbc”. L’8 aprile un carro armato americano spara contro l’hotel Palesatine; due le vittime: Tasras Protsyuk, della “Reuters” e José Couso, di “Telecinco”.
Fatalità, a volte. Spesso è il risultato di un addestramento non sufficientemente adeguato, e di una tendenza al “grilletto facile”. Inquietante un libro appena pubblicato negli Stati Uniti, “Generation Kill”. L’autore, Evan Wright, ha trascorso mesi con i militari americani in Iraq; descrive nei dettagli una generazione di soldati in gran parte provenienti da famiglie povere e disastrate, che giunti in Iraq si trasformano in killer spietati, e che si danno nomi di battaglia come “Iceman”, “Captain America”, “Devil Dog”. Uno di loro, dopo aver ucciso per sbaglio un bambino, è diventato per tutti, scherzosamente, “B.K.”: Baby killer”. E’ lo stesso ambiente carico di adrenalina, paura e spesso scarsa preparazione ritratto in “Gunner Palace”: un documentario realizzato da due reporter che hanno vissuto per mesi con un’unità militare accampata nell’ex palazzo di Uday Hussein, uno dei figli di Saddam. Il film racconta i soldati con le loro angosce, parolacce e atteggiamenti bizzarri, li mostra impauriti mentre pattugliano le strade d Baghdad; è in un simile ambiente che probabilmente sono maturate le reazioni che hanno spinto i militari americani ad aprire quel “fuoco amico” che ha ucciso Nicola Calipari.

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