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Aprile-Maggio/2005 - Articoli e Inchieste
Iraq
Mercenario il "fuoco amico"?
di Gianni Cirone

Secondo una radio di Washington, ad aprire
il fuoco, il 4 marzo, contro l’auto di Nicola Calipari sarebbero stati
dei contractors di un’unità privata ingaggiata da
John D. Negroponte per la sua sicurezza.
Altre ipotesi su un rapimento di italiani (agenti
del Sismi?) nel 2003, e sul numero
delle persone coinvolte nella sparatoria
prima dell’arrivo all’aeroporto


Sulla morte di Nicola Calipari la novità c’è. Una novità importante, preziosa, sensibile, al punto da esigere al più presto un chiarimento ufficiale nel merito.
Secondo la versione del governo statunitense, versione sostanzialmente accolta dal governo italiano, il 4 marzo 2005 l’agente del Sismi Nicola Calipari viene ucciso a Baghdad da “fuoco amico”. Il supposto incidente, dunque, si può chiudere qui. Robert Maginnis, analista militare Usa, interpellato da un quotidiano, afferma: “Il servizio segreto italiano sembra aver considerato questa vicenda un film di James Bond a Baghdad”. Roba da cinema, dunque. Inutile tentare di capire: Calipari ha perso la vita a causa di “fuoco amico”.
Fuoco amico. Ma quanto “amico”?
Vista l’esiguità dei dati, il rebus appare di stretta competenza semiologica. Mentre la vicenda della liberazione della giornalista Giuliana Sgrena, rapita da un non ben definito “gruppo terroristico islamico” in Iraq, è già oggetto di sceneggiatura per una qualche fiction da trasmettere on tv al primo anniversario utile, ciò che oggi appare spiegabile del sacrificio di Calipari sembra sempre più chiuso nel cuore di troppe scatole cinesi. Apri che ti riapri, però, il contenuto in esse occultato fuoriesce, magari traboccando alla rinfusa, contaminandosi a volte, ma sempre mostrando profili percepibili, la cui ambiguità va solo ricomposta, messa in ordine; ed è stupefacente, allora, quanto lo scenario si carichi di prospettiva.
Il 4 marzo Calipari giunge “al dunque” della propria missione. E’ a Baghdad da diverse ore, e sta per entrare in quel cono d’ombra da cui uscirà, solo parzialmente, dopo aver fatto sedere sul sedile posteriore dell’auto che ha noleggiato l’ostaggio liberato. Fatte le debite proporzioni, secondo la logica del fuso orario che si divarica tra Usa ed Iraq, in quelle stesse ore il presidente statunitense George W. Bush è in visita. Si reca a Langley, presso il quartiere generale della Cia. Bush, affermano alcune note stampa, è lì per tentare di rassicurare Peter Goss, il direttore di quella che è The Agency, ovvero l’agenzia per antonomasia. Goss ed i suoi sottoposti sono nervosi, e tanto. Temono per la loro posizione, e la ragione è una: l’ambasciatore in Iraq, John D. Negroponte, è stato da poco designato alla nuova carica di Direttore nazionale dei Servizi segreti, e coordinerà le attività della Cia come delle altre 14 agenzie. Il New York Times snocciola per intero la natura della visita. La Cia non attraversa un momento facile, l’insediamento di Negroponte non è per nulla gradito, pesano le continue critiche sul lavoro svolto prima della guerra in Iraq, incombe preoccupazione per le indagini sugli abusi nelle carceri militari, inchieste in cui sono coinvolti alcuni ufficiali dell’agenzia. Bush spiega che “le riforme” del nuovo direttore Negroponte “aiuteranno di fatto la Cia a svolgere meglio il suo lavoro”. Secondo gli analisti del Los Angeles Times, la visita del presidente statunitense al quel quartier generale è un evento del tutto inusuale. Di lì a poche ore Calipari viene assassinato a Baghdad.
Subito (troppo “subito”), dopo l’agguato mortale e le prime veline statunitensi di maniera, emerge una precisa indicazione. Si parla di quel posto di blocco come di una ‘necessità volante’, quasi decontestualizzata dall’ufficialità della scacchiera dei check point, per l’imminente passaggio di un alto funzionario d’ambasciata. E’ il Washington Post a rivelarlo. E’ questione di tempo, e la classica fonte anonima della Casa Bianca rende noto, attraverso la Cnn, che quel check point sarebbe stato allestito in vista del passaggio del convoglio dell’ambasciatore Negroponte che, sempre a dare credito alla fonte anonima, sarebbe passato poco dopo l’aggressione all’auto di Calipari. Si precisa, inoltre, che quei soldati che hanno sparato nulla sapessero dell’imminente transito degli italiani.
Da questo momento, la storia prende una piega che porta vicino e lontano. Sì, vicino al verosimile; lontano dalla verità. “Personalmente - confessa il generale George Casey, comandante della Forza multinazionale in Iraq - non sapevo niente di ciò che stavano facendo gli italiani”. Ha ragione. Come lui stesso ammette, non ha ricevuto informazioni “neppure in via preliminare” a conferma di ‘un’operazione Sgrena’. Che Casey fornisca una versione credibile lo prova una relazione interna del Pentagono. Ne parla il Washington Times (che secondo gli ambienti giornalistici avrebbe buone entrature negli apparati militari), secondo cui gli uomini del Sismi non avevano preso gli accordi indispensabili per trasferire in sicurezza la Sgrena all’aeroporto. “In sicurezza”, “all’aeroporto”: da tenere a mente. Ache se su questi elementi è ancora tutto da verificare e non si possono che fare illazioni.
In ogni caso, secondo questo scenario, che potrebbe apparire verosimile, l’auto degli italiani si sarebbe andata a infilare dritta, dritta, in bocca ad un manipolo di soldati con i nervi a fior di pelle, proprio perché in attesa di veder invece apparire il convoglio dell’ambasciatore Negroponte, ormai ministro della Sicurezza interna degli Usa. A ciò, segue un abbecedario inconsueto in cui gli statunitensi spiegano le regole di ingaggio dei propri militari ai check point. Addirittura il Centcom, ovvero il Comando centrale Usa, pubblica in Internet le voci dei propri soldati. Essi descrivono come vengono gestiti i posti di blocco a Baghdad, ed elencano non poche modalità di segnalazione, dall’uso di luci di avvertimento all’esplosione di colpi preliminari. Anche questa rivelazione, secondo alcuni analisti, stupisce: il Centcom ha sempre voluto mantenere riservate le regole d’ingaggio ai check point. Perché accade tutto questo?
E’ presto per dirlo, ma quella che potrebbe essere la novità sulla morte di Calipari, finirebbe per chiarire almeno un paio di cose. La novità? Eccola, secondo una radio di Washington, la Wtop, ha rivelato che la taskforce che ha ucciso Nicola Calipari altro non sarebbe stata che un’unità privata, di “security”, che sarebbe stata ingaggiata da John D. Negroponte. Come dire… contractors. L’emittente statunitense ha anche rivelato il nome della società responsabile di tali contractors: la Blackwater Security, una società niente affatto secondaria, visto che se ne è parlato in molte occasioni e da varie fonti, e che ad essa l’ultimo numero di Popular Mechanics (Aprile 2005) dedica un lungo servizio intitolato “Running the Gauntlet”, cioè la zona calda tra la Zona Verde e l’aeroporto di Baghdad. Non ci risulta che il Pentagono abbia smentito la notizia.
Al momento noi non abbiamo elementi ulteriori per parlare del ruolo delle società di contractors in Iraq, e soprattutto relativamente alla vicenda Calipari. Ma se questa notizia della radio di Washington fosse confermata diventerebbe una novità rilevante che si va ad aggiungere ad una serie di questioni, coerenti tra loro, che iniziano ad apparire definite, a partire dall’aprile del 2004. Allora, in Iraq, si verificò un sequestro di italiani, risolto positivamente, ma rimasto segreto, con tanto di pagamento di un riscatto.
Ad essere rapiti erano stati due uomini del Sismi. Nell’ottimo libro, fresco di stampa, intitolato “Iraq. La guerra senza volto” (Selene edizioni), di Paolo Cucchiarelli e Vincenzo Mulè, i due autori riportano la testimonianza di una fonte interna ai nostri servizi, che racconta: “Noi pagammo prontacassa”. In questo modo i due agenti furono “ritrovati” e portati al sicuro. Gli autori del libro ricordano: “Due persone vennero effettivamente sequestrate il 9 (aprile, ndr), e comunque durante il primo weekend di aprile, e si trattava di due del Sismi. La trattativa, rapidissima, venne condotta prontacassa, con in mano la valigia di dollari e i due, dopo circa dodici ore, vennero liberati”.
A questo proposito, è illuminante un lancio dell’agenzia Ansa del 7 marzo 2005, in occasione dei funerali di Calipari, in cui si parla così di “Corsaro”, il maggiore che era in macchina con lo stesso Calipari: “Una volta è stato ucciso un suo collaboratore iracheno”, e lo stesso maggiore era stato “costretto per ore a stare sdraiato bocconi sul freddo pavimento di una moschea”. Il primo lancio della agenzia Reuters sugli italiani rapiti il 9 aprile riportava la testimonianza di un fotografo che li aveva visti di persona, proprio all’interno di una moschea.
Tornando all’omicidio di Calipari, nel corso delle varie ricostruzioni giornalistiche che sono state fatte, è emersa anche la questione del numero di soggetti coinvolti. Alcuni giornali hanno scritto che sull’auto che portava Giuliana Sgrena all’aeroporto ci sarebbe stata una quarta persona. Si è parlato anche di una quinta persona che avrebbe fatto parte del gruppo. Si parla, cioè, di un italiano, uomo del Sismi, ed un iracheno che è stato indicato come un collaboratore del servizio. E’ cresciuta, in certi ambienti, l’ipotesi che, per la liberazione di Sgrena, alla contropartita economica si sarebbe aggiunta anche una contropartita politica. Ovvero l’“esfiltrazione” dal territorio di un iracheno, per essere più precisi un leader sunnita. E’ avvenuto questo scambio? Chi era l’iracheno? Un collaboratore del Sismi, o un leader da “esfiltrare”? E, ovviamente, legate a queste domande ne potrebbe emergere anche un’altra: era lui l’obbiettivo da fermare? Del resto, è stato lo stesso Presidente del Consiglio italiano che, nella sua conferenza stampa, a caldo, attorno alle 21 di quel tragico venerdì 4 marzo, affermò che “la signora Sgrena” è stata consegnata “a tre nostri funzionari”, citando la “macchina su cui c’erano i tre nostri funzionari”. Ergo, sull’auto attaccata dagli statunitensi, secondo la prima ricostruzione di Palazzo Chigi, ci sarebbe stata una quarta persona, oltre a Sgrena, Calipari e al maggiore “Corsaro”.
Ulteriore questione. La reazione statunitense alla liberazione della giornalista Sgrena è da considerarsi inedita? No. Gli Usa sono intervenuti pesantemente in ogni sequestro di italiani, intromettendosi durante le fasi finali della liberazione. Il blitz che ha liberato Umberto Cupertino, Salvatore Stefio, Maurizio Agliana, ha sottratto i tre ostaggi al commissario straordinario della Cri, Maurizio Scelli. Un bombardamento aereo, nell’area del rilascio delle due Simone, ha spinto il nostro governo a chiedere pubblicamente di interrompere un tale intervento. Infine, l’omicidio Calipari.
Urge dunque una conferma sulla natura del check point che ha tolto la vita a Nicola Calipari. Da qui, a ritroso, si potrebbe ricostruire una quadro ben diverso che, dall’omicidio del free lance, Enzo Baldoni, condurrebbe verso ben altri lidi la vicenda degli italiani rapiti in Iraq, almeno dopo la prigionia di Umberto Cupertino, Salvatore Stefio, Maurizio Agliana, Fabrizio Quattrocchi.

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Le risposte attese della Toyota

L’assassinio di Nicola Calipari e il ferimento del suo collega del Sismi come dell’ostaggio liberato, la giornalista Giuliana Sgrena, sono fatti che attendono molte risposte. Tanto per iniziare, dalla Commissione d’inchiesta mista Usa-Italia, un gruppo formatosi dopo gli esiti di un’indagine preliminare, svolta dal generale William Webster, comandante della Terza divisione di fanteria, vertice del controllo delle operazioni militari a Baghdad. L’8 marzo scorso, però, viene annunciato un supplemento d’indagine. La commissione, che dovrà a breve giungere al termine del proprio lavoro, è guidata dal generale Peter Vangjel, comandante del 18° Corpo aviotrasportato nella base delle forze d’elite statunitense a Fort Bragg. Per parte italiana, agli accertamenti partecipano il diplomatico Cesare Ragaglini ed un generale del Sismi. Quali saranno gli esiti di questa inchiesta? Dalle primissime versioni, fornite dai governi statunitense e italiano, saltano all’occhio molte divergenze.
Uno: la velocità dell’auto. Le prime testimonianze, fornite dalla pattuglia Usa che ha intercettato l’auto con gli italiani a bordo, indicano che il mezzo viaggiava a “velocità sostenuta”. Per i due superstiti italiani, invece, la Toyota non superava i 40 km orari. Due: la successione di avvertimenti che gli statunitensi avrebbero attuato prima di aprire il fuoco contro l’auto. Il comando Usa ha detto che la pattuglia, prima di sparare, ha intimato l’alt con segnali luminosi e dopo con gli stessi militari che hanno agitato le braccia. I due feriti, invece, hanno detto ai magistrati italiani che tra il segnale luminoso e gli spari sono trascorsi solo pochi istanti. Tre: la natura dell’informazione, trasmessa da Nicola Calipari, alla catena di comando Usa.
Intanto, si sono allungati i tempi per l’arrivo in Italia della Toyota, acquistata dalle autorità italiane. I lavori della suddetta Commissione hanno sinora reso vana la richiesta dei magistrati romani che indagano sulla vicenda. Alla consegna all’Autorità giudiziaria della vettura è subordinata anche la missione in Iraq di due esperti, uno del Ris l’altro della Polizia Scientifica, incaricati di esaminare la Toyota. L’ambasciata Usa di Baghdad ha già chiesto alla procura di Roma di soprassedere, per il momento, all’invio di esperti per evitare sovrapposizioni al lavoro della Commissione mista.
Nell’eventualità che la Toyota, attualmente custodita in una base militare Usa, non dovesse più essere messa a disposizione dei pm romani, i due rappresentanti di Ris e Polizia Scientifica, una volta conclusa l’attività della Commissione, dovrebbero partire alla volta di Baghdad. Viceversa, in caso di invio in Italia del veicolo, la missione verrebbe annullata. Lo studio del veicolo dovrebbe permettere una ricostruzione attendibile dei fatti e, in particolare, il numero dei colpi sparati e le traiettorie dei proiettili. Un possibilità che ora dopo ora, però, rischia di apparire sempre più annacquata. G. C.


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