Il presidente della Commissione parlamentare, l’avvocato Carlo Taormina, ora privilegia la tesi dell’assassinio eseguito da terroristi islamici. L’indagine viene così dirottata dalla pista del traffico illegale di residui radioattivi
Fu uccisa il 20 marzo 1994, a Mogadiscio. Con lei perse la vita anche l’operatore, Miran Hrovatin. Il suo nome era Ilaria Alpi, inviata per il Tg3 in Somalia.
Da allora, molti altri giornalisti sono stati eliminati, rapiti, soppressi in zone di guerra o, come si dice oggi, in aree soggette a “missioni di pace”. Troppi nomi, tanti. Una tendenza che andata consolidandosi nell’ultimo decennio. Ormai una consuetudine che deve far riflettere.
Nel caso di Ilaria Alpi, però, ciò che colpisce è l’ingannevole quadro che per anni si è andato ricomponendo intorno alla sua morte. Uno scenario tuttora in movimento, a ben 11 anni di distanza dall’evento. Ricostruire la vicenda, adesso, significa rivolgere l’attenzione verso una così ampia mole di documentazione che appare improbo riproporre in questa sede: una Commissione parlamentare di inchiesta è stata costituita per fare luce sui mandanti dell’agguato. Al tempo stesso, comunque, il filo della matassa può essere ripreso da recenti articoli, pubblicati su alcuni settimanali, prova del fatto che il “caso Alpi” resta all’ordine del giorno soprattutto grazie al lavoro di altri giornalisti. In questo senso, è prezioso il contributo che Riccardo Bocca ha sostanziato con un’inchiesta corposa su l’Espresso. Nello scorso mese di gennaio, alcuni suoi articoli danno un colpo al già traballante dispositivo, di silenzio e omissioni, scattato immediatamente dopo l’esecuzione della giornalista e del suo operatore. Cosa indica, in sé, questo scossone? Un accostamento, anzi un nesso, ed è interessante ripercorrerlo riga per riga.
Il nesso dovrebbe unire le indagini sull’omicidio dei due giornalisti del Tg3 alle indagini svolte su un ingegnere italiano, Giorgio Comerio. Secondo attività investigativa, questo professionista sarebbe stato al centro di un vasto traffico di rifiuti radioattivi, con altri faccendieri, malavitosi, trafficanti d’armi. La vicenda proviene da Reggio Calabria ma, incredibilmente, sembra coinvolgere numerosi governi, europei e non, con l’ausilio di apparati dello Stato obbedienti a logiche estranee alle istituzioni.
E’ stata la Procura di Reggio Calabria a indagare su tale intreccio, negli anni ’90, e l’archiviazione ha rappresentato l’esito conclusivo delle indagini. I magistrati volevano dimostrare che numerose navi, caricate di scorie radioattive, venivano fatte affondare volutamente in mare. I rifiuti speciali erano trasportati dall’Europa all’Africa. In più, si usufruiva del Odm (Oceanic disposal management), un sistema che utilizzava siluri carichi di scorie da far perdere nei fondali.
Al termine dell’inchiesta nessuna incriminazione ma, nelle informative riservate della Procura di Reggio Calabria, il segno dello stretto nesso coi fatti somali.
Ebbene, non appena è riemersa la portata della suddetta inchiesta, la Commissione parlamentare d’inchiesta viene scossa. Improvvisamente, e con un precisione madornale, sono apparse da nulla foto satellitari che mostrerebbero lo scenario dell’agguato. Immagini che giungono, solo adesso, dalla profondità di quel 1994. Ma c’è di più e Domenico D’Amati, avvocato della famiglia Alpi, dice la sua: “Fornire falsi indizi su soggetti sospetti, per screditare l’indagine o inventarsi nuove piste per allungare i tempi. La riprova che gli interessi in ballo sono enormi, e ancora oggi c’è chi teme che vengano svelati”.
Ma è possibile ritenere la pista calabrese lo snodo della morte di Ilaria Alpi?
Settembre 1999. Francesco Gangemi, per poche settimane sindaco di Reggio Calabria nel 1992, cugino dell’omonimo Francesco condannato a 10 anni per camorra, direttore del mensile calabrese Il dibattito, mensile attualmente sequestrato con conseguente arresto del direttore, accusato di pressioni su magistrati dell’Antimafia di Reggio Calabria per conto di una lobby di potere che voleva influenzare inchieste su politici e mafiosi locali. Sei anni fa questa rivista pubblica un’inchiesta a puntate, intitolata “Chi ha ucciso Ilaria Alpi?”. La premessa è di Gangemi, che scrive: “Fin dai primi passi di questa mia lunga strada, che immagino irta di ostacoli e contraccolpi, voglio informare i nostri lettori e le autorità che eventuali rappresaglie che dovessi subire non sarebbero certo riconducibili alla ’ndrangheta o ad altre organizzazioni criminali, ma ai servizi segreti deviati e assoggettati a taluni magistrati inadempienti ai loro doveri d’ufficio e al governo, che rimane il fulcro delle operazioni sporche che stanno inginocchiando l’umanità intera a fronte di vantaggi di varia natura”.
In realtà Gangemi pubblica non pochi documenti segreti dell’inchiesta reggina: notizie, rivelazioni, illeciti, che indicano il sistema occulto volto allo smaltimento delle scorie nucleari, e ancora indizi sull’intera vicenda Alpi. Si vedano le dichiarazioni, del luglio 1995, del teste denominato Alfa-Alfa (Aldo Anghessa, ndr) che al sostituto procuratore di Reggio Calabria, Francesco Neri, e al capitano di corvetta, Natale De Grazia, consulente deceduto dopo in circostanze sospette, dice: “A partire dal 1987 è attiva in Italia una lobby affaristico-criminale che gestisce le seguenti attività: traffico di rifiuti tossico-nocivi e radioattivi, stupefacenti, armi, titoli di Stato falsificati e (...) materiali strategici nucleari (…). Si ha certezza che lo smaltimento può avvenire con tre distinte modalità: l’interramento in località del sud Italia in vecchie cave o di scariche, l’affondamento di navi normalmente in zone extraterritoriali o lo smaltimento presso paesi del Terzo mondo come (...) il Libano, la Somalia fino al 1992, la Nigeria e il Sahara ex spagnolo (...)”. In merito ai traffici, secondo Anghessa, “sono sicuramente gestiti a livello di vertice da soggetti iscritti a logge massoniche italiane ed estere (…). E’ opportuno far rilevare (…) che nell’occasione del sequestro di 29,5 chili di uranio effettuato a Zurigo furono fermati dalla polizia elvetica otto individui tra i quali due italiani. Uno di questi è Pietro Tanca, il quale ha affermato: ‘Io sono qui non per ritirare denaro (se ricordo bene 18 milioni di dollari), ma per verificare l’esistenza del denaro di competenza della parte politica italiana che copre l’operazione’. I nostri tentativi per capire quale fosse la parte politica cui si riferiva sono stati vani, anche per la proterva azione della Polizia elvetica, che anziché collaborare ha scientificamente ostacolato le indagini”. Su Tanca, Anghessa aggiunge che “appena rilasciato dalla Polizia elvetica e rientrato in Italia è stato arrestato su ordine di custodia cautelare emesso dal gip Felice Casson”.
Chi è Aldo Anghessa? E’ personaggio discusso. Ammette di essere protagonista di azioni di intelligence e, in quel momento, agli arresti domiciliari, è indagato per traffico di armi e materiale nucleare.
Anghessa dà nomi, particolari, indirizzi, e fa balenare l’operatività di una rete di coperture istituzionali a livello internazionale. A riguardo cita Guido Garelli, arrestato in un’inchiesta sui traffici nocivi, spesso citato nell’inchiesta Alpi. Garelli, per Anghessa è “riconducibile a un organo di informazione dello Stato (…) era uso chiamare numeri telefonici di basi militari italiane e aveva pass Nato per entrare e uscire in basi militari italiane”. Secondo Alfa-Alfa, ci sarebbe poi Elio Sacchetto, “tessera P2, arrestato nel 1988 assieme al Garelli”, e dunque Giorgio Comerio, titolare del sistema di affondamento delle scorie con missili, ma anche protagonista di indagini delicate come quella sul naufragio della nave Rigel o sullo spiaggiamento della motonave Rosso, dove la Capitaneria di porto trova copia del suo progetto Odm. Sul mensile che dirige, il profilo di Comerio viene così presentato da Gangemi: “La Procura di Reggio Calabria ha accertato l’esistenza di un brutto affare collegato allo scarico dei rifiuti in Somalia, proprio dove la giornalista Ilaria Alpi si era recata per cercare la verità che altri hanno insabbiato, uccidendola per la seconda volta. La ‘cosa’ girava sotto gli occhi consapevoli del governo somalo allora in carica, e a farla girare ci pensava il faccendiere Giorgio Comerio, considerato nell’ambiente della raffinata criminalità collegata ai servizi segreti e ai governi europei, e non solo europei, la mente eccelsa a disposizione dei primi ministri che avessero avuto interessi particolari nel traffico illecito a livello interplanetario”.
Affermazioni molto pesanti, anche se l’analisi che emerge dai carabinieri di Reggio Calabria non è certo una passeggiata. Secondo l’Arma “Comerio è al centro (...) di un’organizzazione mondiale dedita allo smaltimento illecito dei rifiuti radioattivi nell’ambito di uno scenario inquietante, ove si muovono soggetti senza scrupoli, compresi uomini di governo di tutte le latitudini che pur di trarne vantaggi economici non stanno esitando a mettere in pericolo l’incolumità dell’intera popolazione mondiale”. “Nella sua abitazione – affermano gli investigatori – è stata sequestrata una cartella gialla, tra le altre, contraddistinta dal numero 31 ed intestata alla ‘Somalia’. All’interno vi era custodita documentazione inerente al progetto Odm relativo ai siti marini somali. In particolare le cartine indicano due ampie zone di mare, di cui una a nord e l’altra al centro della suddetta nazione. La prima zona è indicata con sei punti di affondamento” il primo dei quali è situato “leggermente a sud rispetto allo specchio d’acqua antistante la città di Tohin”. Rilevamento chiave, che si somma alle dichiarazioni, del novembre scorso, da parte del maresciallo dei carabinieri Nicolò Moschitta, davanti la Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti: “Comerio era l’unico a inabissare lì rifiuti radioattivi”.
Esiste agli atti un fax di un membro dell’Autorità del servizio mondiale per i diritti umani di Bosso, Ali Islam Haji Yusuf, che si rivolge al dipartimento del nord-est somalo dell’Onu denunciando che “al largo della città di Tohin, del distretto di Alula, nella regione del Bari, due navi sconosciute stavano effettuando un’operazione insolita, vale a dire che mentre una scavava sui fondali del mare, l’altra seppelliva in dette buche dei container dal contenuto sconosciuto”. Per i carabinieri, questo lavoro “stava creando tensione fra la popolazione locale, che è ostile al seppellimento in mare di rifiuti tossici e radioattivi”. Da qui la richiesta di aiuto di Haji Yusuf, richiesta di cui sono rimasti sconosciuti gli sviluppi. Per l’Arma, però, è sicuro che il primo sito di affondamento indicato nella mappa di Comerio è “in prossimità della zona segnalata lo scorso novembre da Haji Yusuf (...). Evidentemente, Comerio è già operativo in dette acque. (…) Non deve meravigliare il fatto che al posto dei penetratori il Comerio stia utilizzando le trivelle, in quanto quest’ultima soluzione è stata sempre l’alternativa alla prima nell’ambito del progetto Odm”.
A casa di Comerio i magistrati trovano una cartella targata ‘Somalia’: comunicazioni fra il possessore e le autorità somale. Tra queste, una lettera inviata al mediatore Pietro Pagliariccio, alias Giampiero, in cui, su carta intestata dell’Odm, Comerio “lo informa – affermano gli inquirenti – che la sua società è disponibile a pagare 10 mila marchi tedeschi ad ogni lancio (di missili-penetratori, ndr) quale importo extra” rispetto “alle condizioni finanziarie indicate nel contratto per i dispositivi nel nord della Somalia, che è di 10 mila marchi tedeschi per ogni penetratore sull’importo complessivo di 5 milioni di marchi l’anno”. Comerio, affermano i carabinieri, “precisava che il pagamento extra sarebbe avvenuto a fronte del rilascio della licenza da parte del presidente ad interim Ali Mahdi Mohamed. I pagamenti dovevano avvenire attraverso una banca non indicata, presso cui la società avrebbe costituito un deposito di 500 mila marchi valido per un anno, dal quale verranno pagati 10 mila marchi già previsti per ogni penetratore entro i dieci giorni successivi alla posa in opera”.
L’accordo c’è. Un accordo a cui tiene molto il presidente ad interim, Ali Mahdi che il 17 giugno 1994 invia un fax, in lingua inglese e su carta intestata della Repubblica somala, al segretario e ministro plenipotenziario Abdullahi Ahmed Afrah. “Il presidente – dicono i carabinieri – gli comunica la titolarità della gestione degli accordi con la Odm, la cui validità sarà però sempre soggetta a ratifica da parte del governo o del presidente stesso”. Dall’accordo si deve passare solo alla fase operativa.
Ilaria Alpi si era avvicinata a tutto questo?
Se non del tutto vero, estremamente verosimile. Come ricorda Gangemi, riferendosi agli atti della magistratura di Reggio Calabria, “il fascicolo 18 con gli atti relativi alla Somalia contiene pure il certificato di morte della Alpi”. Inoltre, Fadouma Mohamed Mamud, figlia dell’ex sindaco di Mogadiscio, il 16 giugno del ’99 dichiara a verbale: “Ilaria mi aveva dichiarato che seguiva una certa pista, una pista abbastanza pericolosa (...) di cui non dovevo parlare con nessuno (...). Si interessava a certe cose orrende che venivano fatte sulle coste della Somalia, che venivano scaricate sulle nostre coste, sul mare dei rifiuti tossici”.
Inutile ricordare, a questo punto, che del materiale della giornalista del Tg3 è rimasto solo la parte meno interessante. Spariscono gli appunti (mancano ben tre block notes), spariscono fogli contenenti numeri telefonici.
Cosa accade nella Commissione parlamentare d’indagine a seguito di tali rivelazioni?
La deposizione del pm Neri “smentisce nettamente ipotesi di collegamento fra inchiesta su traffico di rifiuti e omicidio della giornalista”. Accade questo. Accade cioè che, in una nota, Enzo Fragalà, membro della Commissione, smentisce seccamente il nesso. “La commissione – afferma Fragalà – non consentirà ad alcuno di orientare, in alcun modo, la ricerca della verità con teoremi astrusi. Ai colleghi di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sta sicuramente a cuore la ricerca della verità sull’omicidio dei due colleghi. La deposizione del pm della Procura di Palmi, dottor Francesco Neri, ascoltato dalla Commissione parlamentare di inchiesta che indaga sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, fa definitivamente chiarezza sui tentativi di depistaggio attuati nei confronti della Commissione stessa e smentisce, oltre ogni ragionevole dubbio, l’ipotesi avanzata attraverso alcune inchieste giornalistiche, non supportate da prove, su presunte relazioni fra l’omicidio della giornalista del Tg3 e l’inchiesta, condotta a Palmi, sul traffico di rifiuti. Le nette parole del pm Neri a questo proposito debbono essere di monito a chi pensa di poter condizionare il lavoro della Commissione parlamentare utilizzandolo per fini propri o per supportare astrusi teoremi preconcetti. La Commissione andrà avanti, come sempre senza perdere di vista l’obiettivo finale che è quello di far luce sull’omicidio dei due operatori dell’informazione e non permetterà a chicchessia di orientare, in alcun modo, la ricerca della verità”.
Dunque, tutto falso. Falso quanto scritto da Riccardo Bocca su l’Espresso, e qui in parte riportato, falso quanto sostenuto dall’inchiesta della procura calabrese nelle sue parti di congiunzione con il nome di Ilaria Alpi.
Avverranno altre cose. Ad esempio la perquisizione subita da alcuni giornalisti, tra cui Maurizio Torrealta, collega del Tg3 di Ilaria Alpi, stabilita nell’ambito di accertamenti dalla Commissione parlamentare. Anche qui, il membro Fragalà ricorda, a chi ha protestato per l’iniziativa, che “assolutamente ineccepibili” sono da ritenere metodo e merito delle perquisizioni, decise “unanimemente” dall’ufficio di presidenza della Commissione. E mentre si parla di innumerevoli tentativi di depistaggio, si è in attesa di conoscere dove porterà la “al qaedizzazione” dell’omicidio di Ilaria Alpi e del suo operatore. Il presidente della Commissione, Carlo Taormina, sente di aver fiutato un’ottima pista.
Per adesso, dunque, non resta che ricordare quel 20 marzo 1994. Colpi a bruciapelo sulle teste pensanti dei due reporter. I loro corpi flosci come sacchi, in fondo ad un vano bagagli di un auto privata che, in un attimo, li conduce via da quel loro ultimo luogo terreno. Senza perché.
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