Dopo il voto in Iraq, che sembra essere un successo più per George W. Bush che per gli iracheni, la nuova strategia americana pone qualche interrogativo, e desta preoccupazione, anche tra i dirigenti Usa dei servizi segreti e militari, per quanto riguarda la minaccia del terrorismo islamico
La tragica conclusione del sequestro della giornalista Giuliana Sgrena, inviata del “manifesto”, con la sua liberazione, seguita dall’uccisione, da parte di militari americani, di Nicola Calipari, il funzionario del Sismi che la aveva liberata, e il ferimento della stessa giornalista e di un altro agente del servizio segreto italiano, ha posto drammatici interrogativi sulla “gestione” di quel conflitto. E sui suoi retroscena, non ultimo quello dell’informazione.
Giuliana Sgrena aveva appena incontrato, come era accaduto altre volte, delle famiglie di Falluja, la città sunnita ribelle assediata e bombardata dalle truppe americane. Lo stesso trattamento riservato, più tardi, a Ramadi. Un mese prima, il 5 gennaio, era stata sequestrata Florence Aubenas, giornalista del quotidiano francese “Libération”, anche lei impegnata in un’inchiesta su Falluja. E il 20 febbraio è stata assassinata la giornalista irachena Raida Al Wazan.
Alla fine di febbraio, gli ultimi inviati dei media italiani a Baghdad sono stati invitati dall’ambasciata ad andarsene in fretta. Nessun nesso con il rapimento della Sgrena, ha assicurato Gianfranco Fini, ministro degli Esteri, il che non ha proprio l’aria di essere vero. Ecco, non vi sono più giornalisti italiani in Iraq, nemmeno a Nassiriya, nei cui dintorni staziona il nostro contingente militare. Senza testimoni, sgraditi a tutti i protagonisti in campo, la guerra in Iraq prosegue il suo oscuro, labirintico corso.
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Le elezioni irachene sono state giudicate da quasi tutti negli ambienti politici nostrani, persino da molti che erano e restano contrari all’intervento armato e all’occupazione, come un segno importante dell’avvio di quel martoriato Paese alla libertà e alla democrazia. Un primo successo, dunque, per Bush e i suoi collaboratori, pur se i motivi dichiarati della guerra (mai dichiarata) erano altri: l’esistenza delle famigerate armi vietate, e di altrettanto famigerate centrali terroriste. Motivi, come tutti sanno, entrambi risultati falsi. Comunque, si è votato. O meglio, ha votato la maggioranza degli sciiti e dei curdi, cioè gli stessi i cui capi (politici, religiosi, tribali) avevano ottenuto dalle potenze occupanti che le elezioni avessero luogo senza altri indugi. I curdi perché avevano fornito il loro aiuto sul campo nella prima fase del conflitto, gli sciiti – dapprima, per alcuni mesi, impegnati in una rivolta della quale aveva fatto le spese anche il corpo di spedizione italiano – garantendo una sorta di pace armata nelle vaste zone da loro controllate. I sunniti non hanno votato.
Elezioni “libere”? A parte le percentuali di affluenza annunciate (scese dal 75% a un non verificabile 58,3%), e fatto salvo il “coraggio dei votanti”, al quale sembra tassativamente obbligatorio rendere omaggio, qualche dubbio è almeno lecito. Anzitutto a causa della mancanza, confermata dall’Onu, di un registro elettorale, o di un elenco nominativo completo degli elettori, circa 14 milioni. Sui 2 milioni di iracheni aventi diritto al voto e residenti all’estero (esiliati o emigrati), solo 280mila si sono iscritti nelle liste elettorali, e 265mila hanno effettivamente deposto la scheda nell’urna. Eppure lì non vi era alcuna minaccia di ritorsione terrorista. In secondo luogo, l’assenza di qualsiasi controllo internazionale (come è stato invece nelle elezioni in Ucraina, annullate e ripetute grazie anche agli osservatori europei e americani: e l’Ucraina non era né reduce da una guerra, né occupata militarmente); il voto è stato completamente gestito e “garantito” da una Commissione elettorale nominata dal governo Allawi (vale a dire, non è un segreto, dall’ambasciata Usa), della quale si conosce solo il nome del portavoce, e quelli dei candidati sono stati resi noti poche ore prima dell’apertura dei seggi.
I seggi, appunto: 5.500 in tutto il Paese. Giornalisti, fotografi e operatori tv hanno potuto visitarne cinque, sempre gli stessi. Sono le immagini e le descrizioni che sono state viste e lette di “lunghe file di elettori ansiosi di esprimere liberamente il loro desiderio di rinnovamento”, con l’aggiunta di qualche scena smaccatamente costruita in puro stile reality show. Qualcuno potrebbe rilevare che la propaganda sovietica in questo campo sapeva fare di meglio. Ma si sa, la fretta, e una guerra che non vuole mai finire, non permettono di badare troppo alle rifiniture. Il sociologo iracheno Adel Jabbar, già avversario di Saddam Hussein, esiliato da 24 anni in Italia, docente alla Ca’ Foscari di Venezia, collaboratore del Cem Mondialità dei missionari saveriani, intervistato da Luciana Maci, dell’agenzia Misna, che raccoglie il sistema informativo delle missioni cattoliche, ha riferito di aver ricevuto da amici e conoscenti iracheni segnalazioni di numerose “irregolarità”, quali persone che si presentavano con i documenti di altri elettori, e gruppi di votanti che entravano insieme nella cabina. Del resto si è appreso, con qualche giorno di anticipo, che a Nassiriya – dove i militari italiani restano trincerati alla lontana periferia della città nel complesso fortificato di Camp Mittica – le elezioni sarebbero state “garantite” (e presumibilmente controllate) dagli uomini di Moqtada Al Sadr, l’ayatollah che fino a qualche mese fa guidava la rivolta sciita nel sud, e sul cui capo pendeva una taglia sostanziosa. Alla fine di gennaio lo stesso Al Sadr ha fatto sfilare le sue milizie armate nel centro di Bassora, e le truppe britanniche, di stanza nella città, si sono ben guardate dall’intervenire.
Forse, sarebbe abbastanza esatto dire che se era necessario del coraggio per votare, come è stato ampiamente ripetuto, ne occorreva almeno altrettanto per non votare. “Non conosco elezioni valide che si siano tenute in condizioni di guerra o di occupazione militare – ha commentato Michail Gorbaciov, in un articolo pubblicato da “La Stampa” – E’esattamente in queste condizioni che si sono svolte le elezioni irachene… L’aver imposto queste elezioni, ben sapendo che esse avrebbero approfondito i solchi che dividono i curdi dai sunniti, e questi ultimi dagli sciiti, è stato un grave errore o una deliberata volontà di produrre disgregazione”. Il pessimismo e i dubbi del padre della perestroika potrebbero trovare riscontro in un’analisi più approfondita, che però manca, in larga misura per carenza di informazioni certe.
Ma in ogni modo, quelle schede – che abbiamo visto in fuggevoli immagini trasportate, sommariamente ammucchiate, da uomini in divisa -, hanno assunto un valore emblematico, sufficiente a decretare la vittoria dell’alleanza sciita patrocinata dal venerando ayatollah Ali Al Sistani, che, pur essendo la più alta autorità religiosa sciita irachena, non ha potuto votare essendo cittadino iraniano. Su 275 deputati, all’alleanza ne sono stati assegnati 140, la maggioranza assoluta, 75 ai curdi dei due partiti – un tempo antagonisti, e oggi uniti per la circostanza elettorale – guidati da Masud Barzani e da Jalal Talabani, 40 al partito del premier uscente Iyad Allawi, sciita “laico”, il rimanente a liste minori.
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Se dal “successo” delle elezioni ci si sposta sul fronte della lotta al terrorismo, i risultati sono tutt’altro che esaltanti. Ad affermarlo sono stati i massimi responsabili dei servizi segreti e delle Forze armate statunitensi, intervenendo, il 16 febbraio scorso, al Congresso. Come alcuni (perfino quel modesto diavolo di Belphagor) avevano previsto, l’intervento in Iraq e l’occupazione hanno costituito per Al Qaeda e altri gruppi terroristi un’occasione insperata dei validi strumenti di rilancio e di proselitismo. “Gli estremisti islamici stanno sfruttando il conflitto in Iraq per reclutare nuovi combattenti per la jihad, la guerra santa contro l’America – ha riferito Porter Goss, direttore della Cia (Central intelligence agency) –; i combattenti sopravvissuti lasceranno l’Iraq specializzati in atti di terrorismo urbano. Potenzialmente diventeranno i pilastri su cui costruire una rete di cellule terroriste su scala internazionale, con gruppi operativi in Arabia Saudita, Giordania e altri Paesi… Il conflitto in Iraq, che non è di per sé causa dell’estremismo, è diventato una causa per gli estremisti. Zarqawi e i terroristi giordani che si sono uniti ad Al Qaeda dopo l’intervento militare nel Golfo, sperano di poter trasformare l’Iraq in un rifugio sicuro da cui scagliare operazioni contro il mondo occidentale e i Paesi arabi moderati”. Di parere analogo è stato l’ammiraglio Lowell Jacoby, direttore della Dia (Defence intelligence agency), lo spionaggio militare, un organismo non ha sempre ottimi rapporti con i “cugini” della Cia. “La nostra politica in Medio Oriente fomenta il risentimento islamico – ha detto l’ammiraglio davanti alla Commissione servizi del Senato –. Una schiacciante maggioranza della popolazione in Marocco, Giordania e Arabia Saudita è convinta che la politica americana danneggi il mondo arabo. E ha aggiunto che in Iraq la ribellione è cresciuta nel corso dell’ultimo anno: il numero quotidiano degli attacchi riusciti è aumentato da 25 a 60, raggiungendo il record di 300 il giorno delle elezioni. E il generale Richard Myers, capo di Stato Maggiore dell’esercito, ha precisato che “gli estremisti legati ad Al Qaeda e a Zarqawi rappresentano una piccolissima percentuale di tutti i ribelli”. Quando è stato chiesto a Donald Rumsfeld, segretario alla Difesa, se era in grado di fornire una cifra sul numero dei ribelli, egli ha risposto che nessuna delle stime fatte sinora è attendibile, tanto che ha smesso di occuparsene. Si è limitato a ritenere esagerate le stime dei servizi di sicurezza iracheni, che parlano di 40mila combattenti a tempo pieno, e 200mila a tempo parziale.
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“Help me God!”, aveva esclamato George W. Bush a conclusione del giuramento per i suo secondo mandato presidenziale. “Dio mi aiuti!”. La frase è, diciamo così, di maniera. Il primo a pronunciarla fu George Washington, e dopo di lui tutti i suoi successori l’hanno ripetuta. Ma probabilmente per l’attuale inquilino della Casa Bianca si è trattato di un appello legato a un rapporto diretto, personale, fra lui e l’Altissimo. Una certezza (analoga al germanico “Gott mit Uns”, Dio con noi), del resto opportuna nel momento in cui il presidente ha dichiarato aperta la sua nuova campagna all’insegna della “guerra alle tirannie”. Dopo quella contro il terrorismo, che con l’invasione dell’Iraq ha raggiunto risultati opposti a quelli annunciati. “In questo inizio di secolo – ha detto Bush – l’America proclama la libertà in tutto il mondo, per tutti gli abitanti. Con forza rinnovata, provati, ma non stanchi, siamo pronti per le più grandi conquiste nella storia della libertà”. Dietro questa enunciazione di principio a largo raggio, non pochi hanno visto l’intenzione di proseguire la linea della “guerra preventiva”, prendendo ora di mira quei regimi che non rientrano negli schemi dell’amministrazione Bush. Schemi che il presidente identifica con “democrazia e libertà”, e sono di volta in volta codificati sul terreno dalla troika che oggi dirige la politica Usa: Dick Cheney (il primo vicepresidente nella storia americana a contare qualcosa, anzi, aggiunge qualcuno, a contare più del presidente), il segretario di Stato Condoleeza Rice (in netta ascesa di immagine, tanto da far ipotizzare una sua futura candidatura alla presidenza: donna e nera, sarebbe un colpo geniale per la destra repubblicana), e Donald Rumsfeld, il capo del Pentagono teso a dimostrare che si può essere “falchi” senza essere ottusi.
Era stato Rumsfeld, in un memorandum del 16 ottobre 2003, ad ammettere: “Non abbiamo un metro per stabilire se stiamo vincendo o perdendo la guerra globale al terrorismo”. Su questa scia, lo stesso Bush, il 30 agosto 2004, asseriva che “questa guerra non può essere vinta”. Vero, anzi ovvio. Il terrorismo non è uno “Stato canaglia” che si può attaccare e sconfiggere: il terrorismo è una tecnica, perversa, pericolosa, e sfuggente, da affrontare con i metodi dell’intelligence (e dell’intelligenza), delle indagini, cercando di svuotare, con la politica, i bacini di reclutamento delle centrali del terrore. In questo senso il conflitto in Afghanistan ha dato risultati mediocri (e d’altra parte di quel Paese si preferisce non parlare), e quello in Iraq è stato un autentico disastro. Venendo a incontrarsi con gli “amici” europei, prima la Rice e poi il presidente hanno cercato di presentare con toni pacati il nuovo progetto della lotta del bene contro il male: gli europei, si sa, diffidano delle crociate (forse perché le hanno già fatte in passato), e spesso sono più pronti alle mediazioni e agli accordi che alle maniere dure. Del resto, proprio con Saddam Hussein gli stessi europei (francesi, tedeschi, spagnoli, e anche italiani) avevano firmato cospicui accordi petroliferi, che poi sono stati annullati dall’attacco americano. Un’inezia, che tutti sembrano aver dimenticata.
Oggi è la volta dell’Iran, che però si trova nel mirino non per la sua, indubbia, carenza di democrazia, ma a causa delle sue ricerche (non si sa quanto avanzate, e in quale direzione) nel settore nucleare. Stabilito che la libertà dovrebbe essere un diritto di tutti (che si sia o no in buoni rapporti con il gigante Usa), e che è più che opportuno ostacolare la diffusione delle armi di distruzione di massa, a mescolare i due problemi, in un inedito gioco delle tre carte, si rischia, e molto, di perpetuare e aggravare i guai che si pretende di voler risolvere. Potremmo dire, per esemplificare, di andare di Iraq in Iraq.
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