La morte di Nicola Calipari, il protagonista della liberazione di Giuliana Sgrena, la giornalista del “manifesto” rapita a Baghdad, pone pesanti interrogativi su quello che accade in Iraq, dietro le quinte di una guerra giustificata da una catena di menzogne
E, per favore, non chiamiamolo più “uno 007”. Nicola Calipari non era un jamesbondconlicenzadiuccidere, né un Rambo, e nemmeno una “barba finta” pronta ad ogni subdolo complotto. Nicola Calipari era un poliziotto, un bravissimo poliziotto, dotato di grandi qualità professionali e umane, passato, dopo una carriera fatta di tanto lavoro, e di tanti successi, nel servizio segreto militare, nel Sismi. Un fatto insolito, poiché i funzionari della Polizia di Stato abitualmente, quando accade, sono trasferiti al servizio di informazioni civile, il Sisde. Ma nell’agosto 2002, il generale Nicolò Pollari, nominato l’anno prima direttore del Sismi, gli aveva chiesto di dirigere la sezione Operazioni internazionali del servizio, una struttura appena creata, e Calipari aveva accettato. Con qualche esitazione, dice chi lo conosceva, perché sapeva bene che il servizio militare in passato era stato oggetto di accuse molto pesanti, e molto motivate. Però, il passato, appunto, è il passato, e tutto cambia.
Nato a Reggio Calabria, 52 anni, sposato e padre di due figli, Nicola Calipari era entrato in Polizia nel settembre 1979, dopo la laurea in Giurisprudenza. Commissario in prova, era stato assegnato alla questura di Genova, addetto alla Squadra Mobile come direttore delle Volanti. Nel 1982 era stato trasferito a Cosenza, dove aveva diretto la Squadra Mobile, divenendo poi vice capo di Gabinetto della questura. Dopo un periodo passato in missione in Australia, con la National Crime Authority (allontanato anche perché si sapeva che le cosche della ’ndrangheta progettavano un attentato contro di lui), nel 1989 fu trasferito alla questura di Roma, dove, dopo vari incarichi, diresse il centro interprovinciale della Criminalpol. Nel 1999 era passato alla Direzione centrale per la Polizia Criminale, nel Servizio centrale Operativo, con la funzione di vice consigliere ministeriale, e poi alla Direzione centrale per la Polizia Stradale, Ferroviaria, di Frontiera e Postale. Nel marzo 2001 tornava alla questura di Roma come dirigente dell’Ufficio Stranieri, fino all’agosto 2002, quando si mise in “posizione fuori ruolo presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri”. La formula che indicava burocraticamente il passaggio al servizio segreto militare.
Un poliziotto con alle spalle una carriera prestigiosa, dunque, un funzionario che tutti, colleghi, giornalisti, membri di associazioni di vario tipo nel campo sociale, ricordano per la sua disponibilità, e la sua assoluta correttezza. Un uomo con la passione del suo lavoro. Fisicamente era tutt’altro che un gigante, di corporatura piuttosto esile, ma resistente, e quasi insensibile, alla fatica. Faceva l’agente segreto – termine che lo faceva sorridere – come aveva fatto il poliziotto: con discrezione, senza la minima prosopopea, attento ai fatti, e sempre alla difficile ricerca della verità in situazioni intricate e spesso ambigue.
Assumendo la direzione della nuova struttura del Sismi, Nicola Calipari aveva anzitutto riorganizzato la rete dei “residenti”, gli agenti distaccati presso le ambasciate italiane con la funzione di trasmettere regolarmente relazioni aggiornate sul Paese in cui si trovano, e tenere i contatti con informatori locali. In Afghanistan e in Iraq aveva creato due reti informative e operative, che seguiva sia da Roma, attraverso contatti quotidiani, sia recandosi personalmente sul posto. Come aveva fatto con i frequenti viaggi a Baghdad durante i rapimenti di cittadini italiani. Così, era riuscito a portare a buon fine la liberazione di Simona Pari e Simona Torretta, da lui accolte al momento del rilascio e portate in salvo, anche se tutta la visibilità era andata al commissario della Cri Scelli. Ma non aveva potuto salvare Enzo Baldoni, nonostante avesse attivato dei contatti apparentemente sicuri, e di questo non riusciva a consolarsi.
Le trattative seguite, e condotte direttamente da Calipari, lo portavano non solo in Iraq, ma in tutto il Medio Oriente, Beirut, Damasco, Doha, Abu Dhabi, Amman, Teheran, il Cairo, Kuwait City. Quando era a Roma, oltre al suo lavoro, si premurava di tenere i contatti con i familiari dei rapiti, rincuorandoli, e comunicando loro quello che poteva dire. “Non potrò mai dimenticare la sua discrezione, la sua gentilezza – ha scritto Valentino Parlato, fondatore del “manifesto”, che lo ha incontrato a Palazzo Chigi durante il sequestro di Giuliana Sgrena -. Era una persona che anche a me, consumato in tante esperienze, ispirava la massima fiducia: se Nicola diceva una cosa, io gli credevo, non avevo dubbi o sospetti. Nicola non diceva una cosa per nasconderne un’altra. E tutto questo si poteva vedere, con un occhio attento, sul suo volto, sulla modulazione del suo sorriso, anche sull’inclinazione dei baffi. E poi gli occhi erano eloquentissimi e discreti”.
Per la liberazione di Giuliana Sgrena, Nicola Calipari aveva seguito la linea già sperimentata dei contatti incrociati, della prudenza, dell’intelligenza nelle trattative, per arrivare alla fase finale, quando era andato a prenderla, in una strada di Baghdad, accompagnato solo da un suo stretto collaboratore, il capitano dei Carabinieri Andrea Carpani, proveniente dai Ros. La mattina del 4 marzo, i due avevano preso contatto con le autorità americane per segnalare la loro presenza a Baghdad, e ritirare i permessi “operativi”. E avevano noleggiato un’auto. Nel tardo pomeriggio, con la giornalista liberata, si erano diretti all’aeroporto, dove li attendeva l’aereo venuto da Roma: secondo una ricostruzione accreditata (ma non certissima, dato che si è parlato anche di un terzo agente), Carpani al volante, e Calipari seduto dietro, a confortare Giuliana, raccontandole tante cose accadute durante quel durissimo mese del sequestro. Sulla strada dell’aeroporto, superato il check point militare americano, che consente il passaggio solo alle auto accreditate, restavano per arrivare al terminal cinque chilometri, fiancheggiati dalla grande base militare Usa “Victory”. Un percorso sicuro. Meno di un chilometro prima dell’arrivo al terminal, un blindato americano appare sul ciglio della strada: raffiche di mitraglia, Nicola Calipari si getta su Giuliana Sgrena per proteggerla, e cade ferito mortalmente alla testa. La giornalista resta ferita, e, non gravemente, anche il capitano Carpani.
“Fuoco amico”, si dice in questi casi. Amico? In una zona ultraprotetta, contro un’auto civile con a bordo due agenti di un Paese “fedele alleato”, e un ostaggio appena liberato? Inevitabilmente, questo episodio tragico e assurdo, accaduto in una guerra nella quale i morti si accompagnano alle menzogne, suscita varie ipotesi, e nessuna confortante.
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