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Gennaio/Febbraio/2005 - SOLO ON LINE SU POLIZIA E DEMOCRAZIA
Storia
La lirica tra amore e tirannia
di Ugo Rodorigo

Forse pochi conoscono l’opera lirica “Attila”, lavoro giovanile di Giuseppe Verdi, dove sono evidenziate, in palcoscenico, grandi masse umane. La trama dell’opera non si basa sui combattimenti dell’eroe, ma su romanticismo e malinconia.
Gli scontri tra gli eserciti, barbaro e romano, si risolvono in un’atmosfera romantica e triste tra due popoli di diversa cultura, con la supremazia dell’amore vero tra Attila e Adabella. Prevale l’uomo romantico sul feroce “flagello di Dio”.
Attila è un titolo quasi sconosciuto, ma i due protagonisti dell’opera sono da porre ai primi posti tra gli interpreti di una grande umanità tra quelli descritti dal genio di Giuseppe Verdi.
Una memorabile direzione del maetro Riccardo Muti, eseguita nel 1991 ed ora in dvd, ci consentirà di seguire il maestro nella sua evoluzione interpretativa musicale.
L’Attila di storica memoria, figlio di Munzuco e nipote del re Pugela, con l’uccisione del fratello Bleda divenne nel 445 unico signore del popolo Unno; fu il più grande sovrano delle genti barbariche stanziate tra il Mare del Nord e i confini della Cina.
Intorno alla sua figura, nel Medio Evo, si moltiplicarono molte leggende. La più creduta che correva su di lui era la sua discendenza divina venuto al mondo per conquistare il mondo. Attila, uomo piccolo e sproporzionato nell’aspetto, non sapeva leggere e scrivere, ma la sua acuta intelligenza, la sua vanità e la sua alterigia mietevano rispetto e amore tra i suoi sudditi. Costoro non erano più i barbari feroci che un secolo prima avevano invaso l’Europa spargendo terrore. Si erano ormai adattati alla necessità di una vita stabile. Abitavano case di legno, mangiavano carne, bevevano vino e non vestivano più con pelli di capre.
La corte di Attila aveva cominciato a modellarsi su quella di Ravenna dalla quale aveva avuto il permesso di stanziarsi nella Pannonia sud orientale. Attila trasformò il popolo Unno, prevalentemente nomade, in un esercito che conquistò un immenso impero dal Volga al Danubio.
Dopo una sconfitta subita in Francia, il re degli Unni giunse in Italia sotto le mura di Aquileia: la città resistette eroicamente ma poi cedette e venne completamente distrutta. Anche le popolazioni di Padova, Pavia e Milano riconobbero che il soprannome di “flagello di Dio” era quello che realmente si addiceva al feroce Attila.
Ormai la sua meta era prendere Roma. Si avvicinava così la fine dell’Impero di Occidente. Il papa Leone I si recò personalmente da Attila nel tentativo di salvare la città di San Pietro e di San Paolo. Il coraggio e la intensa fede impressionarono il re barbaro che, appena il papa fu partito, tolse il campo e tornò in Pannonia anche se i romani dovettero pagare una forte somma in oro.
Nel 453 d. C. morì soffocato da una emorragia o, più probabilmente, per veleno e il suo impero andò in pezzi.
Dalle cronache vicine ai tempi di Attila si conosce quanto egli fosse un barbaro violento e un sanguinario conquistatore. In realtà egli ebbe una mente organizzatrice e una notevole capacità politica. Fu lui a riunire le tribù sul Danubio e ad est del mar Nero. Molte delle sue spedizioni furono organizzate per tutelare il suo impero da eventuali azioni offensive ed infatti gli storici spiegano i fattori che spinsero Attila all’improvviso ritorno. Le truppe d’oriente si organizzavano per una spedizione in Pannonia, terra degli Unni, ed anche altri assalitori avrebbero potuto comparire da un momento all’altro. In realtà, quando decise il ritorno in patria, dopo l’intervento del papa, Attila meditava quel gesto già da alcuni giorni.
Scomparso Attila svanì il pericolo Unno. Ogni popolo riprese il suo programma di azione seguendo la propria strada verso il destino. Questo l’Attila storico.
Giuseppe Verdi riplasmò nella sua opera lirica questo personaggio tramutandolo in un uomo forse un po’ troppo tenero, ma capace di amare come tutti gli uomini. Fragile, con lo spirito posto in un corpo e in una mente non accettabili, ma innamorato, capace di soffrire per amore, una figura da meritare di stare ai primi posti nella galleria dei ritratti umani scaturiti dal genio verdiano.

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