Intervista a Stefano Dambruoso, il magistrato italiano in prima linea nella lotta contro il terrorismo islamico. Dambruoso parla dell’Italia e dell’attentato sventato a Strasburgo
Quale sviluppo può avere il terrorismo islamico in Europa e in particolare nel nostro Paese? Quali sono le strategie più importanti su cui si sta lavorando, ora che Al Quaeda torna a colpire? Abbiamo girato queste domande a uno dei massimi esperti di terrorismo islamico a livello mondiale, il magistrato di Milano Stefano Dambruoso che oggi è rappresentante dell’Onu per conto dell’Italia. Lavora a Vienna da dove continua a studiare un fenomeno in continua trasformazione. Lo incontriamo a Roma e cominciamo a parlare delle inchieste che sono state realizzate finora, a partire proprio da quelle di Milano che hanno permesso di sventare anche degli attentati che avrebbero avuto conseguenze tragiche, come quello alla Cattedrale di Strasburgo nel 2000. Un attentato dunque che era stato organizzato un anno prima dell’attentato alle Torri di New York.
Dambruoso ci tiene prima di tutto a ricordare la sua collaborazione con le Forze di polizia italiane. “Devo ringraziare in particolare Gianni De Gennaro, il capo della Polizia, che ha sempre fatto il massimo per far progredire le nostre inchieste. Un ricordo e un ringraziamento particolare anche a tutti i poliziotti che hanno lavorato con me a Milano”.
Dottor Dambruoso, nel suo libro “Milano-Baghdad”, (Mondadori, 2004), lei parla di alcune difficoltà di ordine burocratico nella conduzione delle indagini, difficoltà che ne ostacolerebbero perfino lo sviluppo. Ci può dire quali sono?
Ci sono molti intoppi burocratici in cui noi ci imbattiamo nel nostro lavoro. Si tratta di problemi legati a una procedura che è espressione di civiltà giuridica, ma nello stesso tempo, obiettivamente, consente a chi ha una volontà di compiere fatti particolarmente gravi come quelli terroristici di insinuarsi in queste maglie della legge, che sono a garanzia dei cittadini - pur criminali ma meno violenti - che invece utilizzano tutti gli strumenti processuali a loro garanzia per rendere più difficile l’emissione di una sentenza di condanna.
Voglio fare un esempio. Combattendo il terrorismo che ha una dimensione transnazionale noi magistrati dobbiamo raccogliere le prove all’estero. Ma questa raccolta di prove è legata a una procedura che si chiama commissione rogatoria che è particolarmente farraginosa e burocratizzata. E per quanto sia stata resa più celere dalle innovazioni legislative più recenti, è ancora troppo lenta rispetto ai movimenti che questi soggetti si possono permettere. Loro, con un documento falso, si possono muovere senza problemi nell’area Shenghen. Noi, invece, per seguirli, dobbiamo ancora rispettare una serie di procedure, le uniche che ci consentono di travalicare i nostri confini, cosa che mal si concilia con la transnazionalità del fenomeno criminale.
Per concentrarci sull’Italia, vorrei una spiegazione su alcune sue affermazioni pubblicate nel libro. Lei ha dichiarato per esempio che esiste una “zona grigia”, su cui bisognerebbe insistere in modo particolare nelle indagini. Vuole spiegare bene di che cosa si tratta? E come si lega la guerra in Iraq allo sviluppo del terrorismo a livello internazionale?
Io non collegherei necessariamente i due fenomeni, la guerra e il terrorismo. Sicuramente la guerra in Iraq è stato un elemento che ha fatto da catalizzatore, sia in quel paese, sia fuori dall’Iraq. E’ stata usata per esempio, per aumentare la diffusione a livello mediatico del messaggio terroristico. Il problema del terrorismo e del suo dilagare sarebbe però comunque rimasto anche a prescindere dall’Iraq. Osama Bin Laden e i suoi adepti -oramai meno organizzati rispetto a prima, ma pur sempre numerosi- li avremmo avuti sul territorio europeo e avrebbero rappresentato una minaccia seria.
Qual è dunque l’area grigia? E’ costituita da tutti quei soggetti che non hanno ancora fatto il passo da un fondamentalismo religioso che non è supporto ad azioni terroristiche verso una vera e propria azione terroristica.
In che modo succede questo eventuale passo è un fatto che si può solo tentare di indicare. Ci sono per esempio dei cattivi predicatori tra gli Imam. Sono una minoranza e bisogna sempre ribadire che la stragrande maggioranza degli Imam è assolutamente moderata e non esprime ideologie violente. Ma se ci sono dei cattivi predicatori non possiamo accettarli sic et simpliciter in nome della libertà di pensiero. Le moschee devono essere quindi dei luoghi trasparenti, almeno in questo periodo storico.
L’Italia può essere vista come un crocevia del terrorismo internazionale? E che cosa ci può dire su quello che è successo in Spagna?
Per quanto riguarda l’Italia, io direi prima di tutto che c’è stata una grande capacità di prevenzione da parte dell’intelligence, dei Carabinieri e della Polizia e anche da parte della magistratura che ha combinato tutte queste attività. E’ stata un’azione che ha saputo cogliere quei nuclei iniziali che concretamente volevano passare all’azione, diversamente da quello che hanno fatto fino ad oggi, ovvero si è colpita l’attività di mero supporto logistico.
Ma proprio la Spagna ci ha insegnato purtroppo che un leader diverso, una leadership diversa - e che magari non siamo in grado di cogliere immediatamente, può dare una caratterizzazione più aggressiva a un gruppo che già esiste (come è successo anche a Milano negli ultimi mesi).
Un salto di qualità di aggressività legato all’arrivo appunto di un nuovo leader nel gruppo è un fenomeno che non sempre si riesce a cogliere immediatamente. Può non essere monitorato in tempo e far sì che quell’aggressività si possa esprimere subito in qualche azione violenta, come è successo a Madrid. In quel caso in Spagna si è trattato di una cellula di recente costituzione con una leadership molto aggressiva. Il gruppo, una settimana dopo l’attentato è stato individuato, ma pur di non farsi catturare si è fatto esplodere in un appartamento di Madrid. E’ un fatto che secondo me è ancora più inquietante dell’attentato stesso.
Un Imam che è stato intervistato da un settimanale italiano ha polemizzato con la magistratura e le Forze di polizia italiane per i metodi utilizzati. Ha detto per esempio che si fa un uso improprio delle intercettazioni telefoniche. Durante una telefonata si possono anche usare frasi per scherzo o come modi di dire. Non possono essere prove, dice.
Io vorrei solo ricordare in proposito che la Polizia italiana, i Carabinieri, hanno affinato molto la loro capacità di selezionare questa massa di informazioni che arriva certamente anche dalle intercettazioni telefoniche, ma non solo da quelle. In ogni caso non si è mai condannato nessuno in Italia sulla base delle sole intercettazioni.
C’è sempre stata piuttosto un’attività sul campo fatta di prove, di riscontri oggettivi, di fatti legati a condotte che configuravano reati. E tutto questo grazie all’abilità di Polizia e Carabinieri che sono stati capaci di selezionare tra quella che può essere solo la mera espressione di un pensiero radicale, fondamentalista, e quello che invece rappresenta un inizio di un progetto criminale vero e proprio.
Le semplificazioni sono sempre rischiose, ma secondo lei è possibile tracciare un identikit del terrorista tipo. Nel libro di Burke, “La vera storia di Al Quaeda”, si ricostruisce una certa tipologia. Le sembra attendibile quella ricostruzione?
Il fenomeno viene ormai scandagliato con grande attenzione da tre anni, dopo l’11 settembre. C’è più conoscenza e si è prodotto molto, anche se voglio dire che il libro di Burke, il giornalista dell’Observer, è davvero una buona ricostruzione della storia di Al Quaeda. Burke d’altra parte è stato tanto tempo in quei paesi e ha soggiornato anche in Afghanistan. E’ quindi un libro serio e attendibile.
Rispetto al fenomeno bisogna spesso guardare a soggetti che non hanno ancora trovato una loro integrazione sul nostro territorio. Si tratta spesso di soggetti prevalentemente provenienti dal Maghreb che non avendo trovato un’occasione di vita migliore a casa loro sono stati facili prede di quei rari Imam che hanno fatto inizialmente un proselitismo religioso che poi si è trasformato in un vero e proprio reclutamento. Questa è la caratterizzazione più forte, ma è pure vero che esistono soggetti che hanno una scolarità più elevata e una loro integrazione più marcata. Sono soggetti che avrebbero avuto la possibilità di rimanere sul continente europeo anche con una dignità e qualità di vita elevata, ma che invece hanno ascoltato il messaggio fondamentalista che ha messo in crisi il loro mondo di valori e hanno fatto una scelta radicale, passando alla guerra santa, alla Jihad e alla vita del mujaidin. Quindi davvero si è incontrato di tutto in questi anni.
Nella mia esperienza prevale però l’elemento del soggetto che quasi senza alternative diventa facile preda di chi è capace di offrirne una.
Lei ha parlato di grande capacità delle Forze di polizia italiane e dell’intelligence. Ci può raccontare qualche caso specifico della lotta al terrorismo?
Guardi, l’Italia ha partecipato attivamente a prevenire un attentato, che è stato anche confessato dai soggetti arrestati, alla cattedrale di Strasburgo, nel dicembre del 2000. Eravamo quindi pochi mesi prima dell’attentato dell’11 settembre negli Usa. Al Quaeda era ancora molto forte e molto organizzata in Europa. Nel caso dell’attentato sventato a Strasburgo si è trattato di una grande indagine a livello europeo dove l’Italia e in particolare noi a Milano abbiamo svolto un ruolo molto importante nella prevenzione.
Successivamente all’11 settembre, a fine 2002, inizio 2003, più di un elemento di intelligence ci aveva indicato che era in atto la preparazione di un grosso attentato a Londra. Anche in questa azione di prevenzione, che ha portato a una cinquantina di arresti in chiave preventiva e soprattutto in Francia e in Inghilterra, l’Italia ha svolto un ruolo importante.
Quanto è stretto, se esiste, il legame tra criminalità organizzata e terrorismo?
In Italia, che è l’esperienza che ho monitorato meglio, posso dire che non ci sono rapporti così stretti tra il terrorismo internazionale islamico e la criminalità organizzata. Forse pecco di ottimismo, ma c’è da considerare un fatto essenziale: fra i terroristi e le organizzazioni criminali non c’è reciproca fiducia. In particolare non c’è fiducia da parte dei terroristi che vedono possibili inflitrati ovunque e quindi hanno una grossa chiusura verso l’esterno. Quindi, grazie a Dio, questa osmosi non c’è stata.
Si riscontra però un altro fenomeno che ci è stato indicato anche dai fatti di Madrid. Ci sono stati contatti per l’acquisto di esplosivo attraverso la cessione di un considerevole quantitativo di hashish. Per cui in questo caso si verifica che elementi della criminalità tradizionale come gli spacciatori di droga anche di medio livello hanno consentito l’acquisto di dinamite da parte di ricettatori anche di basso calibro. Si assiste dunque a un’apertura dei terroristi verso ambienti della criminalità diffusa, fenomeno questo che non si era mai verificato in passato, anche per ragioni religiose. I terroristi non lo accettavano e non commettevano questi reati legati alla droga.
E per gli investigatori è un elemento di stinguere molto bene tra il piccolo delinquente, un immigrato che vive di piccoli espedienti e chi fa queste cose per portar soldi e finanziamenti al terrorismo. Questa novità viene perfino utilizzata da molti che vengono arrestati con l’accusa di terrorismo.
Ci dicono: “guardate che vi state sbagliando, io non sono un terrorista, non sono un membro della cellula, ma sono un piccolo spacciatore, un piccolo ladruncolo, uno che fa documenti falsi”. Utilizzano dunque l’attività criminale comune come elemento di difesa e copertura.
Può dire ai nostri lettori quale è stato il suo successo professionale più importante?
Sicuramente per qualsiasi investigatore, dal punto di vista professionale, la migliore soddisfazione si ha quando si previene un attentato. Per me quello di Strasburgo è stato il fatto più considerevole.
Più legato ai giorni nostri è stata l’individuazione di una cellula che concretamente mandava soggetti in Iraq, nel Kurdistan iracheno solo qualche giorno prima dello scoppio della guerra, per organizzarli contro le forze alleate che sarebbero arrivate a momenti. Questo fatto mi ha impressionato molto. Perché abbiamo scoperto che Milano, Cremona, Parma, erano diventati luoghi così dentro la storia dei giorni nostri. Erano diventati posti in cui c’erano soggetti capaci si organizzare mujahidin. Disposti al martirio. E’ stata una scoperta, ripeto, che mi ha impressionato molto.
La situazione è ancora in questi termini e quali previsioni per il futuro prossimo si possono azzardare?
La prima cosa da fare, per quanto io possa consigliare, è avere un ottimismo di medio periodo. Il fenomeno del terrorismo internazionale è ancora abbastanza diffuso, la minaccia è seria e non possiamo prescinderne e fare finta che non ci sia. In ogni caso la capacità investigativa è molto aumentata, così come la qualità delle indagini si è dimostrata adeguata rispetto alla diffusione del fenomeno.
La sfera di cristallo, per il prossimo futuro, non la possediamo. Contro il singolo jiadista che decide di farsi saltare in aria difficilmente si può fare qualcosa. Ma io sono invece ottimista rispetto alla capacità delle Forze di polizia di individuare una cellula che con un minimo di organizzazione si muova sul nostro territorio per esprimere quel supporto logistico finora espresso da altre cellule.
E’ un fenomeno che ci dovrà preoccupare e occupare la nostra attenzione per i prossimi anni, ma abbiamo un obbligo morale, quello di continuare a vivere senza spaventarci, senza chiuderci in casa. Diversamente avrebbero già vinto loro.
Un’ultima considerazione, dottor Dambruoso. Spesso i discorsi sulla guerra e sul terrorismo si confondono e quasi si mescolano i due fenomeni. Lei prima ci ha invitato a tenere distinti i due fenomeni. Come si può spiegare la differenza tra la guerra e l’antiterrorismo?
Io direi che per l’investigatore l’attività di intelligence e della Polizia giudiziaria -che è quella che più ci interessa- ha caratteristiche così diverse e così avulse da un piano politico come quello legato alla scelta di entrare in guerra. Vedo due attività completamente diverse l’una dall’altra.
Io sono molto ottimista rispetto alla capacità di apportare seri colpi sia in chiave preventiva, sia in chiave repressiva con l’attività tradizionale di Polizia giudiziaria coordinata con l’attività di intelligence, nel rispetto dei diritti e delle garanzie dei soggetti. Diritti e garanzie che devono appartenere a tutti. Non possiamo abbassarci alla barbarie a cui questi soggetti vogliono ridurci.
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