Nicolas Sarkozy, nuovo presidente dell’Unione per un Movimento popolare, si presenta come il paladino di una destra che respinge le tradizioni laiche e repubblicane del Paese, in nome di un pragmatismo fideista di stile “bushiano”. E punta a sostituire, nel 2007, Jacques Chirac all’Eliseo
Al Generale certamente non sarebbe piaciuto. Così come non piace, anche se non può dirlo in maniera troppo esplicita, al presidente Chirac, che di Charles de Gaulle e del suo “messaggio” è rimasto ormai uno degli ultimi eredi. Eppure, Nicolas Sarkozy, 50 anni appena compiuti, il 28 novembre scorso è stato eletto presidente dell’Union pour un Mouvement Populaire (Ump), il grande partito della destra francese nato nel 2002, proprio per iniziativa di Jacques Chirac, dalla fusione tra il gollista Rassemblement pour la République (Rpr), e una parte del Mouvement pour la Démocratie. Una carica di prestigio, e di potere, che secondo gli osservatori politici di ogni tendenza – e nelle intenzioni dello stesso Sarkozy – prelude alla sua candidatura alle elezioni presidenziali del 2007.
In realtà, quella che si è svolta al congresso dell’Ump, tenuto al Bourget, nella periferia nord di Parigi, più che un’elezione è stata un’incoronazione, anzi una consacrazione. Che nelle intenzioni dell’interessato dovrebbe portarlo molto più in alto. Da tutta la Francia sono arrivati 40mila militanti per i quali era stato approntato uno scenario da mega show televisivo, uno spettacolo (per alcuni entusiasmante, per altri preoccupante) del tutto inedito nelle abitudini della politica francese, di destra e di sinistra, tradizionalmente austera e sobria. E mai nella storia della République un congresso di partito aveva avuto tanta pubblicità. Ufficialmente l’operazione del Bourget è costata 5 milioni di euro (e nell’Ump si insinua che siano almeno 8), ma il punto non è questo. E non è nemmeno nel risultato “plebiscitario” dell’elezione: 85,1% dei 70.830 votanti, su 113.922 iscritti al movimento. Il punto è lui, l’eletto, l’incoronato, il consacrato.
Come il suo cognome lascia intuire, il nuovo presidente dell’Ump è di origini ungheresi. Il padre, Pal Nagy Bocsa y Sarkozy, era un aristocratico fuggito dall’Ungheria nel 1945, e divenuto cittadino francese dopo essersi arruolato nella Legione Straniera. La madre, una greca di origini ebraiche. La moglie è di origini ispano-russe. Un mix di nazionalità non insolito, e ininfluente, in un Paese che è sempre stato un polo di attrazione per chi vuole o deve cercare una nuova patria, e dove la cittadinanza francese è un valore assoluto. E del resto Sarkozy si è visto attribuire (non del tutto a torto) un soprannome che non ha nulla a che vedere con le sue variegate origini: “Sarkò l’américain”. Sarkò l’americano.
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Nicolas Sarkozy è nato a Parigi il 28 gennaio 1955. Studente in legge (di professione è avvocato), nel 1975 aderisce al Rassemblement du Peuple Français (Rpf), il partito fondato da Charles de Gaulle (che è già morto da cinque anni). Nel 1976 Jacques Chirac trasforma il Rpf in Rassemblement pour la République (Rpr), e l’anno seguente il giovane Sarkozy entra nel comitato centrale del movimento neogollista. Nello stesso periodo viene eletto consigliere comunale di Neuilly-sur-Seine, quartiere residenziale molto chic alla periferia di Parigi, e nel 1983 ne diventa sindaco: per riuscirci deve battere Charles Pasqua, un marsigliese sanguigno e combattivo, gollista dai tempi della Resistenza. Probabilmente nessuno ci pensa, ma sarà il primo segnale della tendenza di Sarkò a prendere di mira per scavalcarli i suoi padri politici. A ragion veduta. Il suo amico, e compagno di partito, Patrick de Balkany (anch’egli di origine ungherese) racconta che durante una passeggiata, nel 1974, gli aveva chiesto che cosa volesse fare da grande. La risposta era stata netta: “La sola cosa che mi interessa è diventare presidente della Repubblica”.
In attesa dell’Eliseo, nel 1985 Nicolas Sarkozy viene eletto consigliere generale dell’Ile-de-France, collocandosi così nel quadro delle istituzioni nazionali, e l’anno seguente entra nel gabinetto del ministero degli Interni: il ministro è proprio Charles Pasqua, che evidentemente non gli serba rancore. Nel 1984, al congresso di Nizza del Rpr si impone con un intervento, calorosamente applaudito, che sfora di un quarto d’ora i cinque minuti fissati dalla presidenza, e si fa notare da Jacques Chirac, che nel 1988 ne sostiene l’elezione alla Camera dei deputati. Grazie all’appoggio di Chirac la carriera di Sarkò nel Rpr si fa veloce. E quando nel 1993, a causa della sconfitta del Ps alle elezioni legislative il presidente, socialista, François Mitterrand nomina Eduard Balladur, di centro destra, primo ministro (è la “coabitazione” alla francese), Sarkozy diventa ministro del Bilancio. Nel 1995, alla scadenza del secondo mandato di Mitterrand (che morirà qualche mese dopo), Nicolas Sarkozy coglie l’occasione per cercare di mettere fuori gioco il leader del Rpr: dato che Eduard Balladur presenta la sua candidatura al primo turno delle elezioni presidenziali, contendendo uno dei due posti per il ballottaggio (l’altro si presume andrà al candidato socialista) a Jacques Chirac, Sarkò decide di sostenerlo. Grosso errore, perché è Chirac ad andare al ballottaggio, e ad essere eletto. Comunque, per Sarkozy si tratta solo di qualche anno di ostracismo, per tornare alla ribalta, dopo la seconda elezione di Chirac (votato anche dalla sinistra per sbarrare la strada all’estrema destra xenofoba di Le Pen), entrando nel governo di Jean Pierre Raffarin: prima come ministro degli Interni, e poi delle Finanze. Fino alla sua elezione alla testa dell’Ump, dato che Chirac gli ha vietato di cumulare le due cariche.
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Una caratteristica che quasi tutti individuano in Nicolas Sarkozy è di essere spinto da una solida ambizione personale, senza avere convinzioni precise. Mentre Jacques Chirac è un politico di destra che ha sempre dimostrato di non voler transigere (malgrado qualche sollecitazione interna al suo stesso partito) sui principi dell’antifascismo e della democrazia repubblicana, Sarkozy a questo proposito evita di pronunciarsi, e da ministro degli Interni non ha esitato a solleticare gli istinti xenofobi dell’elettorato di Le Pen. Se Chirac è un convinto sostenitore dell’Unione Europea, Sarkozy non nasconde di tenere in gran conto il “modello americano”. E, ignorando le posizioni critiche della Francia sulla guerra in Iraq, una settimana prima delle elezioni americane è volato a Washington per dichiarare pubblicamente a George W. Bush : “Il mondo vi ammira, il mondo vi rispetta”.
Va detto che il bilancio da uomo di governo di Sarkozy non viene giudicato esaltante, ma l’uomo sembra essere un abile venditore di se stesso. Alternando con disinvoltura banalità e dichiarazioni dirompenti. “Porterò sangue nuovo, idee nuove, e un po’ di gioia”, ha detto nel suo discorso di investitura al Bourget. E ancora: “Il mondo cambia, la Francia non deve restare immobile”. Ma ha anche attaccato la conquista delle 35 ore lavorative: “Non è sufficiente al benessere dell’uomo lavorare 35 ore piuttosto che 39”. E ha preso posizione contro la scuola pubblica: “A furia di facilitazioni, compromessi e lassismo, il 20 per cento degli allievi si ritrova ogni anno senza formazione, senza prospettive, senza futuro”. Affermazioni lanciate senza badare troppo alla loro fondatezza, ma facili da percepire. Nicolas Sarkozy non ha difficoltà a mettere in campo gli strumenti, primari e però spesso efficaci, del tribuno populista che strizza l’occhio al ricco mentre blandisce il diseredato.
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“La Repubblica, le religioni, la speranza” è il titolo del libro che Nicolas Sarkozy ha pubblicato alla vigilia della sua elezione alla presidenza dell’Ump. Una sorta di manifesto, nato da sei lunghe conversazioni tra l’autore e il domenicano Philippe Verdier. Nel libro Sarkozy presenta la sua visione dei rapporti tra religione e società, conferendo alla fede una valenza culturale che va al di là del credere o no nell’immanenza di una presenza divina. Lui, si dichiara “di cultura cattolica, di tradizione cattolica, di confessione cattolica”, anche se confessa che la sua partecipazione religiosa è piuttosto episodica. Però, aggiunge, nelle grandi festività va a messa con la famiglia, perché “questa pratica permette di radicarsi nella storia”. Ecco un altro aspetto nuovo del personaggio. Per i politici francesi, di sinistra o di destra (come Jacques Chirac), la fede, che ci sia o non ci sia, è un fatto strettamente privato. Il laicismo è una regola nazionale, codificato da una legge del 1905 che stabilisce il quadro giuridico dei rapporti fra Stato e culti religiosi. Ma, appunto, Sarkozy mette in questione proprio quella legge: “Si deve considerare quello che è stato scritto un secolo fa come scolpito nel marmo? Non credo”. E, sorprendentemente, afferma: “E’ il dispotismo che può fare a meno della fede, non la libertà”. La fede, dice Sarkozy. Ma non si sbilancia troppo nel precisare la definizione di questo termine, ben sapendo che se la maggioranza dei francesi sono cattolici, è ormai rilevante la componente musulmana, e resta importante quella ebraica. Anzi, Sarkò auspica che lo Stato promuova lo sviluppo di seminari e di scuole di formazione per gli imam, e che preti, imam e rabbini siano immessi nell’insegnamento universitario. Per quanto riguarda l’attualità, è contrario al divieto, fortemente difeso da Chirac, di esibire nelle scuole il velo islamico e altri simboli religiosi. E, venendo alla Costituzione dell’Ue, non si dovevano escludere “le radici cristiane dell’Europa”. Un’Europa nella quale Sarkò vorrebbe rompere l’asse franco-tedesco, filo conduttore della Quinta Repubblica, a conduzione gollista o socialista, sostituendolo con più stretti legami con gli Stati Uniti, e con i Paesi del vecchio continente in maggiore sintonia con Washington.
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Allora, questo uomo politico, pragmatico e indubbiamente astuto, un teo-con in salsa francese che ha buone probabilità di diventare il prossimo presidente della Repubblica, deve essere visto come ambasciatore della destra americana? Troppo semplice, rileva Alain Duhamel, un osservatore sperimentato degli eventi passati e presenti, giudicandolo, da sinistra, senza pregiudizi di parte. Nicolas Sarkozy, scrive Duhamel su Libération, “è il volto nuovo della famiglia politica francese di destra, la più tipica, la più originale, la meglio radicata nell’inconscio, nazionale, poiché celebra oggi il suo 200° anniversario”. Già, per una coincidenza forse voluta, l’elezione di Sarkozy è avvenuta esattamente due secoli dopo l’incoronazione imperiale di Napoleone Bonaparte. E poiché il bonapartismo ha sempre avuto la pretesa di essere interclassista, Sarkò cerca di recuperare, almeno in parte, classi medie e ceti popolari con il suo inno ai “valori forti”, “Lavoro, merito, famiglia, equità, rispetto, disciplina, audacia”. Difficile dire se Nicolas Sarkozy, per ambizioso che sia, voglia considerarsi davvero un nuovo Napoleone, anche se non sarebbe il primo. Certo è che, nel caso riuscisse davvero, mettendo fuori gioco Chirac, e altri possibili pretendenti, e beninteso battendo il candidato socialista, a insediarsi all’Eliseo, per la Francia, e per l’Europa, sarebbe un nuovo problema.
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