home | noi | pubblicita | abbonamenti | rubriche | mailing list | archivio | link utili | lavora con noi | contatti

Giovedí, 22/10/2020 - 14:48

 
Menu
home
noi
video
pubblicita
abbonamenti
rubriche
mailing list
archivio
link utili
lavora con noi
contatti
Accesso Utente
Login Password
LOGIN>>

REGISTRATI!

Visualizza tutti i commenti   Scrivi il tuo commento   Invia articolo ad un amico   Stampa questo articolo
<<precedente indice successivo>>
Gennaio/Febbraio/2005 - Articoli e Inchieste
Forze armate
La leva va in pensione
di Fabrizio Battistelli

Ecco che cosa è stato il soldato nella società italiana. Breve ricostruzione attraverso i romanzi: da Pratolini a Buzzati, da Umberto Eco a Tondelli, passando per Lawrence d’Arabia


Dopo centoquarantatre anni di travagliato servizio, il tempo è arrivato anche per lei: la naja (dal veneto naia=razza, genìa) va in pensione. Come quelle vecchie Panda che ancora fanno capolino a lato delle case dei contadini, la leva obbligatoria parte per l’ultimo viaggio. Non si è avuto il coraggio di scaricarla dallo sfasciacarrozze. Definendola non abolita ma soltanto sospesa, il legislatore si è limitato a parcheggiarla nel garage delle istituzioni ormai inutili.
Ne avrebbe da raccontare di cose, la naja. Mettiamo tra parentesi la situazione estrema, la guerra; sebbene sia quella per la quale, in ultima analisi, la leva obbligatoria è stata inventata e perfezionata dall’imperialismo democratico della rivoluzione francese e di Napoleone. Quindi prescindiamo, nel nostro Paese, dalle campagne contro il brigantaggio, la terza guerra d’indipendenza, Adua, il Carso e l’altopiano di Asiago, Caporetto e Vittorio Veneto, le spedizioni in Etiopia e in Spagna, la seconda guerra mondiale. Cioè gli scenari della solidarietà e del valore, commisti alla crudeltà e alla paura. Il tutto con la gente comune come protagonista: i contadini per soldati e gli studenti come ufficiali di complemento. Lontano, a distanza, la regìa di una classe politica alcune volte all’altezza, altre (sfortunatamente più numerose) no.
Per parlare di naja abbiamo bisogno di parlare dell’altra faccia del Giano militare: non di quella che sovrintende alla guerra bensì di quella che, nei lunghi anni di pace, nelle interminabili giornate in caserma e in piazza d’armi, almeno in principio vi si prepara. Con cadenze flemmatiche, procedure barocche, leggi imperscrutabili. Che, combinate tra loro, danno vita a risultati più spesso mancati che raggiunti, tassi di inefficienza ineguagliati da ogni altra organizzazione, colossali sprechi e dissipazioni di risorse. Innanzitutto di tempo: le attese infinite sono il ricordo più frequente tra i congedati. Nel Deserto dei Tartari, il capolavoro di Buzzati, l’attesa assurge a metafora stessa della condizione militare. Contemporaneamente, in modo paradossale, da questo connubio di fattori irrazionali per eccesso di razionalizzazione e di comportamenti che per eccesso di formalizzazione diventano informali fino alla devianza, scaturiscono formidabili conseguenze inattese, non soltanto negative.
Innanzitutto il rito di passaggio. Con la naja si lasciano i pantaloni corti e si indossa la toga virile, si fa l’ingresso nel gruppo degli uomini, tali per età ed esperienza; e, naturalmente, per prestanza fisica e validità sessuale. Essere riformati è un’onta, dato che, come recita il proverbio piemontese, “i bei fioei va fa ‘l soldà, i macacu i resta a ca’”. O anche: “chi non è buono per il re, non è buono neanche per la regina”. La prova è dura, ma organizza tutto lo Stato: l’individuo non deve fare nulla, soltanto obbedire. “Nei tempi di pace – osserva Vasco Pratolini in Metello descrivendo un servizio militare di fine Ottocento molto vicino a quello che è possibile prestare nel 1955, anno di pubblicazione del romanzo – si fa il soldato come da ragazzi si fa una malattia […] la nostra vita si ferma, vegeta, il nostro corpo suda e ingrassa, la ‘sboba’ lo nutre. Il nostro cervello si prende una lunga vacanza”. Per limitati che fossero, nel mondo civile i pensieri dei giovani abbracciavano aspetti diversi della vita e approdavano a conclusioni di un qualche tipo. “Ora, la prima regola che ci viene imposta è di non avere un’opinione, un punto di vista, un’iniziativa personale. Trascorre questo giorno sterminato, fatto di tre anni, di millenovantacinque albe e tramontar del sole, tra una sveglia, un rancio, un’adunata, una marcia, un’ispezione. […] le amicizie, che si fanno tra commilitoni, sembra non debbano mai finire: siamo in realtà tanti condannati che contano ‘meno cento, meno novantanove, meno novantotto’ i giorni che li separano dalla libertà”. La conclusione è ambivalente: “hai servito la patria, ti sei affezionato a un tenente o un capitano: questo ti resta; non sei scontento, è la tua laurea di uomo; è una costumanza ed è un dovere che non ti dispiace di aver rispettati, scuoti la testa e sorridi. Ora, a tu per tu con la vita di prima, scopri di dover ricominciare tutto daccapo” (Pratolini, 1971, pp. 65-67).
Nei suoi rapporti con l’esterno, per circa un secolo l’istituzione militare italiana ha funzionato come un apparato di classe mirabilmente capace – nelle parole del grande elitista Gaetano Mosca (1968: p. 242) – di raccogliere e disciplinare le “masse brute”, trasformandole in “strumento obbediente di quelle altre classi sociali che possiedono l’intelligenza, la ricchezza e per esse il potere”.
All’interno, invece, essa è un’istituzione caratterizzata da un peculiare e aspro egualitarismo. Prudentemente il giovane borghese evita di entrarvi. Il borghese opportunista, facendosi esonerare con trucchi, cavilli e corruzione o anche, legalmente, ricorrendo al rimpiazzo, cioè alla pratica, vigente per tutto l’Ottocento, di pagare lo Stato facendosi sostituire da un altro. Il borghese “civico”, invece, affrontando il servizio militare nelle forme protette della Scuola allievi ufficiali. E tuttavia anche lì il cittadino di leva è destinato ad assaporare, sia pure pro tempore, la spartana condizione del subordinato, raffigurata nell’affidamento delle armi incruente ma formative della ramazza e dello scopettone. Icastica, nell’occasione, la consegna del sergente maggiore: “A dotto’, pulite ‘sto cesso”.
Nella maggioranza degli altri casi (quelli che coinvolgono i ceti popolari, cui è destinata la semplice condizione del marmittone) guai a chi entra nella naja pensando di imporvi le sue regole e i suoi atteggiamenti. Il malcapitato rischia, se non possiede concrete doti umane e relazionali, di uscire duramente ridimensionato dal gruppo dei commilitoni. Impara subito, ad esempio, che mai e poi mai è il caso di invocare il titolo di studio; l’effetto è automaticamente controproducente. Neppure un connotato oggettivo come l’età è di per sé idoneo a guadagnarsi il rispetto dei commilitoni. Le storie di naja, anzi, sono piene di persecuzioni del gruppo nei confronti non soltanto del figlio di papà, del lecchino, dell’imboscato e delle altre tipologie di individui che tentano di eludere le norme del gruppo, ma anche del soldato di età maggiore degli altri, vittima privilegiata di inquadrate (ordini e rimproveri), così come di gavettoni e sbrandamenti (i feroci “scherzi” della naja) da parte di commilitoni di 6 o 7 anni più giovani di lui. Con impeccabile egualitarismo, infatti, nella naja l’anzianità dei coscritti (nonni a un estremo, all’altro spine, burbe, scimmie, cioè reclute) non viene misurata sull’età individuale e neppure sulla carriera maturata all’interno dell’istituzione militare, bensì sui giorni all’alba, cioè sul tempo mancante all’agognato e mitico giorno del congedo. Questo particolare conteggio di giorni che vengono cancellati quotidianamente sulla stecca (analogamente a quanto accade in altre istituzioni totali, a cominciare dal carcere) permette di escludere dall’anzianità dei soldati di leva i quadri di comando, ufficiali e sottufficiali, i quali, indipendentemente dagli anni trascorsi in servizio, sono “firme”, ovvero persone ”senza alba”, dunque un genus altro e irriducibilmente diverso dalla naja (Battistelli, 2000).
Refrattario ai mutamenti, il senso di sospensione e di “eterno ritorno” situato da Pratolini a fine Ottocento lo si ritrova un secolo dopo nelle pagine di Filologia dell’anfibio. Diario militare, del filologo e romanziere Michele Mari. Con acutezza e humor l’autore penetra nell’“enorme, flagrante demenza” della naja, nei suoi riti, nei suoi manierismi, nel suo linguaggio, contemporaneamente iperbolico e prosaico (un’esilarante parodia del gergo militare era già in Stelle e stellette, breve fiction “fantascientifica” di Umberto Eco.
Per tornare alle conseguenze inattese, o comunque non primarie, del servizio militare, quella più significativa è rappresentata dal grande, prolungato e intenso rimescolamento tra esseri umani. Innanzitutto in termini di ambienti sociali, in un ventaglio che va dai ceti medi professionali al sottoproletariato incensurato (o con precedenti penali non troppo gravi), passando per giovani di estrazione artigiana e operaia di grandi città e di piccoli centri, oltre che contadina. Secondariamente (ma non per importanza) in termini geografici. La vera naja si fa lontano. Il giovane siciliano, pugliese, napoletano deve andare al Nord e scoprire la nebbia, il giovane piemontese, ligure, veneto non può non prestare servizio in Puglia (se è un marinaio) o in Sardegna (se è un soldato o un aviere). Nelle stazioni ferroviarie di tutta Italia, la domenica sera, il colpo d’occhio è superbo: centinaia e centinaia di ragazzi con le divise bianche, blu e verde oliva si affollavano davanti ai treni trascinando zaini e sacchi enormi. All’osservatore incuriosito suggeriscono l’impressione non fallace che la principale attività del servizio militare sia viaggiare da un capo all’altro della Penisola. Risultato non primario, ma neppure inaspettato, di tutto questo andirivieni è, bene o male, la conoscenza di posti diversi da casa propria che – tra il 1861 e il 1970 – chi non proviene da una famiglia benestante difficilmente avrebbe occasione di realizzare. Il ragazzo di campagna viene mandato in città, il meridionale si ritrova nel Settentrione. Per alcuni è l’inizio di una mobilità geografica e sociale innescata su basi casuali e anzi coercitive che, però, può assumere le forme di un’opportunità di vita. Questo è ciò che accade al protagonista di Padre padrone, il romanzo di Gavino Ledda. Il ragazzo brillante che nella Sardegna arcaica e autoritaria dei pastori il padre aveva ritirato brutalmente dalla scuola, scopre durante il servizio militare nuovi luoghi e nuovi rapporti e l’occasione per tornare a studiare.
Ma anche per il soldato che non si sposta dalla sua regione, o che non ha bisogno di farlo da militare, il servizio di leva è un viaggio in plaghe sconosciute. Nell’epoca d’oro della naja (fino agli anni Ottanta; poi sempre meno studenti e sempre meno settentrionali accettano di fare il militare) la caserma è uno spaccato della geografia nazionale. Tutte le culture locali sono rappresentate e lo sono tutti i dialetti regionali, nelle infinite varianti e sfumature che il Paese moltiplica provincia per provincia, comune per comune, villaggio per villaggio. Dalla caserma di Codroipo (Udine), di Foligno (Perugia), di Napoli e da mille altre, prima le lettere e le cartoline, poi le chiamate (in fila con i gettoni davanti al telefono dello spaccio) si diramano verso i quattro punti cardinali del Paese. Marciano nel flusso opposto, provenienti dalle licenze a casa e dai pacchi delle mamme, robusti assortimenti di delicatezze alimentari. Venendo scartati sprigionano le fragranze e i sapori dei Nord, dei Centri, dei Sud, e rapidamente sono sacrificati in pantagruelici riti di scambio sociale e di compensazione psicologica. Crassa materialità ed elaborata simbologia si intrecciano anche in quelli che Enrico Pozzi (1971) ha definito “i potlach verbali” a base di mirabolanti avventure sessuali narrate, sulla base della reciprocità, a scettici ma pazienti ascoltatori in un habitat irrimediabilmente monogenere (maschile). L’ancoraggio all’eterosessualità è assicurato dall’esile filo comunicativo mantenuto con le fidanzate a casa e, sul campo, da iperboliche immagini di nudi femminili squadernate sugli armadietti. Un precario equilibrio tra repressione e vitalità che emerge dalle gesta del gruppo di ragazzi di leva descritti in Pao Pao, il romanzo di Pier Vittorio Tondelli.
Tutti, eterosessuali e omosessuali, scapoli e ammogliati (sembra incredibile, ma fino a una generazione fa tra i coscritti ci sono anche uomini sposati), fidanzati e no, tutti indistintamente riemergono la sera dalla doccia scozzese degli occasionali stress motorii alternati a infinite ore di ozio e di noia. Eccoli allora aggredire con entusiasmo vecchi ping pong dagli angoli sbrecciati, famigerate pizzerie per militari e cinema di quart’ordine finchè, ristoratrici, li accolgono brande a castello dalle lenzuola che tagliano la pelle e coperte di lana marrone refrattarie alla lavanderia. Non si può non diventare amici, in un ambiente siffatto. “Falli mangiare, dormire e pisciare insieme – commenta il feroce sergente istruttore dell’Aviere Ross, il romanzo-autobiografico di Lawrence d’Arabia – e ti trovi bell’e fatta la squadra da mandare al fronte!”.
La “forgia” (titolo originale del libro del colonnello britannico, recluta a quarant’anni sotto mentite spoglie) ha fatto il suo lavoro: il bunch of friends, il pugno di amici è nato, e ora è pronto a farsi sbranare sul campo di battaglia, con un’abnegazione inimmaginabile in qualsiasi altro ambito della vita sociale. A mantenere il soldato nell’indicibile stress della battaglia non è l’ideologia (patriottica, politica o di qualunque altra natura) bensì, come scoprirà Samuel Stouffer (1949-1950) dirigendo le 240 inchieste sociologiche di The American Soldier, che dal 1941 al 1945 avranno per oggetto i soldati americani – è il gruppo dei pari, formato da tutti coloro, commilitoni e ufficiali fino al livello di compagnia, che al fronte condividono le stesse condizioni di vita e la stessa sorte. E’ il gruppo che, nella situazione di massimo rischio, garantisce a ogni componente la sicurezza possibile, che gratifica i comportamenti altruistici e punisce quelli egoistici, che, nel freddo e nella paura, offre calore e affetto.
Oggi tutto ciò è alle nostre spalle. Non i meccanismi del gruppo, che continueranno a funzionare quale che sia la composizione umana dei reparti; ma certo le problematiche poste da un servizio militare composto tutto da volontari saranno diverse da quelle proprie della leva obbligatoria. Non per questo saranno banali e da sottovalutare: gli strumenti della rappresentanza andranno radicalmente rafforzati e nuove forme di tutela andranno introdotte per giovani, uomini e donne, che si troveranno a costituire la base della piramide organizzativa. Privi anche di quell’umile strato di coscritti che in questo decennio di transizione aveva attenuato nei volontari la sensazione di non essere proprio l’ultima ruota del carro. Qualcosa andrà ideato affinché quelle “iniezioni forzose di società civile” cui la leva sottoponeva costantemente l’istituzione militare siano sostituite da forme di dialogo e di interscambio che prevengano il più grave dei rischi che possa incombere su un’istituzione: l’autoreferenzialità e la chiusura verso il proprio ambiente di appartenenza.

<<precedente indice successivo>>
 
<< indietro

Ricerca articoli
search..>>
VAI>>
 
COLLABORATORI
 
 
SIULP
 
SILP
 
SILP
 
SILP
 
SILP
 
 
Cittadino Lex
 
Scrivi il tuo libro: Noi ti pubblichiamo!
 
 
 
 
 

 

 

 

Sito ottimizzato per browser Internet Explorer 4.0 o superiore

chi siamo | contatti | copyright | credits | privacy policy

PoliziaeDemocrazia.it é una pubblicazione di DDE Editrice P.IVA 01989701006 - dati societari