Dagli accordi di Oslo del 1992 a oggi, ecco tutti i passaggi politici, culturali e religiosi di una questione che rimane uno dei più pericolosi focolai di guerra
La condanna di Israele dall’assemblea delle Nazioni Unite di qualche tempo fa per la costruzione del muro che ingloba de facto entro il territorio israeliano una fetta consistente di territori che si trovano al di là dei confini del 1967, prima della guerra dei sei giorni non cambia il quadro sostanziale sul campo. Non è la prima volta che l’Onu si esprime ingiungendo il ritiro delle truppe dello stato ebraico dai territori occupati. Non sarebbero nemmeno mancate le condanne da parte del Consiglio di Sicurezza delle azioni contrarie al diritto internazionale (distruzione di case dei Palestinesi, espulsioni dai territori, insediamenti di coloni sulle terre palestinesi, appropriazione delle risorse idriche, detenzione di circa ottomila palestinesi in una condizione giuridica non definita, ecc.) se non fosse che gli Stati Uniti hanno sempre regolarmente interposto il loro veto. La condanna di Israele questa volta è venuta – come si diceva – dall’Assemblea generale nella quale gli Usa non possono esercitare il veto. La maggioranza che ha votato la mozione è stata veramente schiacciante. Praticamente la totalità degli stati del mondo (esclusi gli Stati Uniti, Israele stesso e qualche microstato del Pacifico) hanno manifestato la loro condanna per una politica israeliana di aperta annessione che rende più difficile ogni progresso verso la regolarizzazione della situazione nell’area del Vicino Oriente e costituisce motivo di tensione e di radicalizzazione ideologica antioccidentale in tutto il mondo arabo, islamico e non solo.
Gli accordi di Oslo, il tentativo più serio ed organico fino ad oggi compiuto per risolvere la questione della Palestina, che nel 1992 avevano acceso vive speranze, sono oramai sepolti, nella stessa tomba ove giace il loro principale fautore israeliano, Izac Rabin, il primo ministro ucciso per questo, come si sa, da un fanatico suo concittadino. Un omicidio politico torbido, che ricorda abbastanza quelli di John e Robert Kennedy e Martin Luther King negli Stati Uniti. Oggi la popolazione palestinese è sottoposta alle più gravi sofferenze e limitazioni. Basta gettare uno sguardo sulla cartina degli insediamenti israeliani compiuti fino ad oggi – ed ancora in atto- dopo l’occupazione nei territori del ‘67 per rendersi conto che al di là di ogni ipocrisia diplomatica, l’azione di Israele è volta a porre le condizioni per l’annessione di tutta la Palestina storica. Ben quattrocentomila coloni sono insediati quasi in ogni parte dei territori, a volte, come nel caso della città di Hebron, nel cuore dello stesso abitato palestinese.
Numerosi esponenti politici, ed anche il partito del primo ministro Ariel Sharon, sostengono apertamente la necessità del “trasferimento” (ciò che in ogni altra parte del mondo si chiamerebbe “deportazione”) di Palestinesi in Transgiordania. Gli altri dovrebbero essere raggruppati in circoscrizioni territoriali dotate di una certa autonomia amministrativa, ma controllati all’esterno dall’esercito israeliano.
Una cosa simile non si vedeva dai tempi del regime dell’apartheid in Sudafrica, o se si vuole risalire più indietro, dai tempi delle guerre indiane e della colonizzazione del Far West.
Come si è potuti arrivare a questo? Alle origini di questa situazione c’è l’aspirazione suscitata tra gli Ebrei di un “ritorno” alla terra promessa dal movimento sionista, nato alla fine dell’Ottocento. A contribuire al successo del movimento fondato dall’ebreo austriaco Theodor Herzl – che nel 1896 pubblica un opuscolo intitolato “Lo stato degli Ebrei” - sono diversi fattori, come la pretesa natura “etnica” della religione ebraica, la lunga storia di discriminazioni e di persecuzioni delle minoranze ebraiche in Europa, il risveglio delle coscienze nazionali nell’Europa centro orientale nella ultima parte del secolo XIX, ecc.
L’esigenza della creazione di una “nazione ebraica” e di una terra su cui questa nazione avrebbe potuto sorgere era particolarmente sentita verso la fine dell’Ottocento nell’Est dell’Europa e della Russia, dove gli ebrei erano numerosi, avevano una cultura ed una lingua comune (lo yddisch), forte era il rinnovamento spirituale (in particolare ad opera dello Chassidismo) ed una lunga storia di persecuzioni subite. In Occidente nel corso dell’Ottocento si erano manifestate tendenze da parte degli intellettuali laici più avanzati all’assimilazione degli ebrei nelle nazioni in cui vivevano.
Per esempio Marx, che come è noto era di origini ebraiche, in un suo saggio del 1843 intitolato “La questione ebraica”, scriveva: “la emancipazione politica dell’ebreo, del cristiano, dell’uomo religioso in generale, è l’emancipazione dello Stato dal giudaismo, dal cristianesimo, dalla religione in generale”.
In alcuni paesi europei, come per esempio l’Impero d’Austria e quello Britannico, gli ebrei avevano già raggiunto livelli molto importanti di integrazione, entrando in certi casi anche a far parte della nobiltà. Ma lo spirito nazionalista che si diffuse in Europa nell’ultimo Ottocento e nel primo Novecento contribuì a far tornare di attualità il problema della posizione degli ebrei nelle società nazionali. Il cosmopolitismo ebraico era considerato dalle forze più conservatrici una minaccia per la unità e l’affermazione mondiale delle nazioni. Antichi pregiudizi religiosi, rancori sociali, diffidenze culturali, dicerie circolanti in ogni ambiente sugli Ebrei in questo nuovo contesto storico politico accentuavano le diffidenze.
Il caso del capitano dell’esercito francese Dreyfus, ebreo, prima condannato alla Cayenna, poi riconosciuto innocente dell’accusa di spionaggio a favore della Germania ebbe grandi e profonde ripercussioni in Francia, provocando una netta spaccatura nel paese.
In seguito, la potente finanza ebraica durante la prima guerra mondiale venne accusata di fare il doppio gioco, prestando denaro sia all’uno sia all’altro dei contendenti e lucrando da entrambi.
Circoli ebraici furono indicati come organizzatori di complotti antinazionali e di progetti di dominio sul mondo. Venivano addotte come prove di questa volontà ebraica di dominazione occulta documenti come i “Protocolli dei sette savi di Sion” che si sarebbero dimostrati in seguito falsi, creazione della Polizia segreta zarista per giustificare la persecuzione degli ebrei, che in Russia costituivano il nerbo degli intellettuali laici, anarchici, socialisti. Molti ebrei orientali e polacchi, in questo contesto, anche per sfuggire alla loro condizione atavica di miseria, decidevano di emigrare in America, dove si sarebbe formata la ancora oggi più grande e forte comunità ebraica del mondo.
Anche la rivoluzione d’Ottobre in Russia venne interpretata dai circoli più conservatori come effetto di un complotto di ebrei, in quanto numerosi erano tra i militanti bolscevichi quelli che provenivano dalla comunità ebraica, anche tra i dirigenti di primo piano (per esempio Lev Trotzskij). La teoria del complotto ebraico venne adottata dai nazionalisti tedeschi e da Hitler stesso dopo il 1918 per spiegare la sconfitta della Germania. Perché la Germania aveva perduto la guerra? Non occupava il suo esercito, vittorioso ad Est contro la Russia zarista ed ancora sostanzialmente non sconfitto all’Ovest, ampie fette di territorio francese? La colpa della sconfitta non era dei soldati tedeschi, ma dei circoli ebraico – massonico -comunisti che avevano agito nell’ombra per affamare e demoralizzare le truppe e far crollare il “fronte interno”.
Il nazismo aggiunse di suo una teorizzazione su basi biologiche pseudoscientifiche sulle differenze tra le razze e sulla “naturale malignità” degli ebrei. Sappiamo che poi questa ostilità nei confronti degli ebrei raggiunse il suo apice durante la seconda guerra mondiale, quando il regime nazista, nella Conferenza di Wannsee del 1942, elaborò il progetto di “soluzione finale”, che avrebbe dovuto attuare l’annientamento totale degli ebrei.
Già dalla fine dell’Ottocento famiglie ebraiche, seguendo il mito del “ritorno”, avevano lasciato i loro paesi d’origine ed erano emigrati in Palestina, comprando terre e case dagli abitanti arabi di questa terra, soprattutto a Gerusalemme. La Palestina era allora sotto il governo Turco Ottomano. La società palestinese era prevalentemente agricola e pastorale. La prima guerra mondiale ed il crollo dell’Impero Ottomano alleato degli Imperi Centrali della Germania e dell’Austria Ungheria portò ad un profondo mutamento di situazione anche in quella zona del mondo. La Palestina nel 1918 passò sotto il mandato britannico.
Gli inglesi durante la guerra avevano avuto l’interesse all’alleanza con gli Arabi in funzione antiturca (in particolare grazie alla attività nell’area del loro agente, il famoso Lawrence d’Arabia), ma anche ad accattivarsi la simpatia degli ebrei. La pressione sionista ottenne un successo notevole. La dichiarazione che prende il nome di lord Balfour del 1917 riconosceva agli ebrei il diritto di “avere in Palestina un focolare nazionale”.
Negli anni Venti e Trenta l’immigrazione di ebrei in Palestina continuò, ma ben maggiore era quella che nello stesso periodo aveva come meta l’America.
Le organizzazioni paramilitari ebraiche dell’Hagana’ e dell’Irgun agivano sul territorio palestinese. In particolare quest’ultima operava anche contro gli inglesi e mise in atto attentati sanguinosi, per esempio quello che nel 1946 contro l’hotel King David, Quartier Generale britannico, provocò un centinaio di morti. Nel 1948 le truppe inglesi avviarono il loro ritiro senza che la loro amministrazione avesse fatto qualcosa di serio per evitare lo scontro diretto tra ebrei e arabi, ma anzi, avendo contribuito a crearne in larga parte, con la sua ambiguità, le condizioni perché esso divampasse. La bandiera britannica non era stata ancora ammainata che già le milizie ebraiche si scontravano con gli arabi. Seguì nel 1948 la vittoria dei corpi paramilitari ebraici, la rotta degli eserciti dei paesi arabi intervenuti, la fuga o - come hanno ammesso negli ultimi anni i giovani storici “revisionisti” israeliani - la cacciata della maggior parte della popolazione palestinese dalle sue case, la proclamazione dello stato di Israele e l’inizio della tragedia del popolo palestinese. Alla antica, leggendaria figura dell’ebreo errante subentra una nuova figura, altrettanto dolente, quella del palestinese esule dalla propria terra.
Il motto del Sionismo era stato “una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Ma la Palestina non era una terra disabitata. Come constatava Asher Ginzburg, un ebreo russo che visitò la Palestina nel 1891. “Abbiamo l’abitudine di credere fuori di Israele che la terra di Israele sia oggi quasi vuota e deserta, arida, incolta, e che chiunque voglia comprare terreni possa farlo senza intralci. Ma la verità è completamente diversa…”.
All’inizio del secolo ventesimo la Palestina era abitata da arabi (600.000 musulmani, 70.000 cristiani e 80.000 ebrei), la maggior parte contadini. La terra era posseduta da grandi famiglie che costituivano il 10% della popolazione. L’economia era abbastanza viva, produceva agrumi, in particolare arance e cereali. Non a caso la regione di cui la Palestina fa parte si chiama della “mezzaluna fertile”.
Questo fatto non era ignoto ai dirigenti sionisti ed allo stesso Herzl, il quale nel 1895 raccomanda: “Dobbiamo espropriarli con gentilezza (i palestinesi). Il processo di espropriazione e di trasferimento dei poveri deve essere compiuto con prudenza e al tempo stesso con segretezza”. Alcuni dirigenti del movimento ebraico pensavano di fondare un loro stato in regioni remote del mondo ed effettivamente disabitate o poco abitate, come la Patagonia o l’Uganda. Il nuovo stato sovietico, pochi anni dopo la rivoluzione d’Ottobre, creò una regione autonoma ebraica nell’estremo oriente siberiano, ma il progetto di farne la patria degli ebrei non giunse mai a buon fine, sopratutto per la difficile situazione ambientale in cui i coloni ebrei che vi si erano insediati vennero a trovarsi.
A giocare a favore della scelta della Palestina come sede per il “popolo senza terra” erano in primo luogo i potenti richiami biblici; il tradizionale riferimento degli ebrei, anche nel saluto tra loro, alla città di Gerusalemme, la posizione strategica della Palestina, ben diversa da quelle delle remote alternative prospettate, insieme alla tendenza alla sottovalutazione della realtà della popolazione palestinese residente, considerata spesso “come se non esistesse”, o “non civile”, “selvaggia”. Ciò in base ad una concezione discriminatoria dei popoli non europei che giustificava il colonialismo (nell’epoca in cui esso era al suo apice). Tale concezione tende a ritornare anche oggi, con qualche ritocco formale (ora non si dice che i palestinesi sono incivili, si preferisce dire che “non sono democratici”).
Resta il fatto che questa scelta del Sionismo mondiale, mettendo in atto un tragico gioco dei “quattro cantoni”, ha dato la terra ad un popolo, ma ha privato di essa un altro. Ha creato una situazione in cui attualmente dai quattro a cinque milioni di persone sono in esilio dalla Palestina, e vivono sparsi in diversi paesi arabi, spesso in condizioni di povertà e marginalità. Ha fatto sì che almeno tre milioni di persone vivano nel territorio della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, strette nella morsa di una occupazione militare che dura oramai da quasi quarant’anni, senza disporre della libertà di movimento, spesso senza poter condurre le proprie attività economiche, soggette a rastrellamenti, a bombardamenti, alla distruzione delle loro case, all’esproprio dei loro campi, della loro acqua, a vantaggio degli insediamenti ebraici e per la costruzione del Muro, arrestate e detenute indefinitamente senza processo, costrette in un ambiente che autorevoli osservatori internazionali hanno definito “la più grande prigione a cielo aperto del mondo”. Che un altro milione di arabi che hanno continuato a risiedere entro i confini di Israele, oggi sono cittadini di questo stato, ma con alcune pesanti limitazioni, essendo Israele uno stato confessionale, che si ritiene sede naturale di tutti gli ebrei del mondo. Dopo la prima guerra del 1948, ce ne sono state altre tre, quella del 1956 in concomitanza con l’attacco anglofrancese contro l’Egitto in seguito alla nazionalizzazione operata da Nasser del canale di Suez. Quella del 1967, che portò alla occupazione di tutta la Palestina storica e della zona siriana delle alture di Golan. Quella del 1973, detta dello Jom Kippur, con le aggiunte della guerra nel sud del Libano contro le milizie degli Hezbolla e quella continua contro la Intifada palestinese e contro “il terrorismo”.
Riguardo al terrorismo palestinese, esso va condannato senza riserve non solo per ragioni morali, ma anche politiche. È vero che esso è stato usato – come si è detto – in passato anche dalle organizzazioni ebraiche, ma - per usare la celebre, cinica affermazione di Talleyrand - il terrorismo alla prova dei fatti risulta essere per la causa palestinese “peggio che un crimine, un errore”. E non vale la affermazione dello sceicco Jassim, capo di Hamas, ucciso l’anno passato da un missile israeliano, secondo il quale “se avessimo carri armati ed aerei come i Sionisti non dovremmo ricorrere al terrorismo e agli attentati suicidi”.
Il terrorismo non è una tattica militare al pari di altre. Non costituisce un’arma alternativa per i poveri. È non solo ripugnante, ma anche nella maggior parte dei casi controproducente. L’arma del terrorismo colpisce è vero il nemico, ma lo fa solo soffrire, non lo indebolisce veramente, né dal punto di vista militare né da quello politico.
Nella guerra moderna - a differenza per esempio di quella dell’età omerica quando i nemici si usava esaltarli - è essenziale che il nemico abbia l’aspetto peggiore possibile. I terroristi sono perciò nemici “ideali”: crudeli, malvagi, sono perfettamente adatti ad essere il bersaglio contro cui suscitare l’odio popolare e giustificare in base ad esso le guerre. La costruzione del Muro che Israele sta compiendo annettendosi illegalmente fette ulteriori di territorio palestinese, viene giustificata, anche contro la condanna dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con la necessità di combattere il terrorismo. A poco vale ricordare che il terrorismo palestinese è un effetto perverso della occupazione israeliana, non la sua causa.
L’Ebraismo è una religione, una delle grandi religioni dell’umanità, che ha espresso una spiritualità straordinaria. Noi europei siamo figli della Grecia classica, di Roma, ma non meno della grande creazione religiosa avvenuta in Palestina. Non si deve dimenticare che il Cristianesimo nasce dall’Ebraismo. Per quanto sia una religione che non si è impegnata nel proselitismo, a differenza del Cristianesimo e dell’Islam, non si può storicamente sostenere che essa si identifichi con un popolo, nel senso di una etnia definita. Anche perché nessun popolo di oggi può vantare seriamente una continuità etnica diretta con i suoi antenati di duemila anni fa.
Sappiamo inoltre che nel tempo ci sono state anche delle conversioni all’Ebraismo, di individui e di popoli che non hanno mai avuto niente a che fare con la Palestina biblica. Il popolo indoeuropeo dei Khazari, per esempio. Il loro impero, potentissimo nel VI secolo dell’era volgare, si estendeva dalle steppe del Caucaso al basso Volga. Verso la fine dell’ VIII secolo i Khazari si convertirono all’Ebraismo. In seguito parte di questo popolo si sparse in Russia e nell’Europa orientale. Molti degli ebrei dell’Europa orientale che i nazisti mandarono a morte convinti che fossero “semiti”, erano in realtà dei perfetti “ariani”.
I tentativi di definire in modo chiaro che cosa è dal punto di vista razziale il “popolo ebraico” sono stati tutti sostanzialmente vani. Un po’ come - da noi- quelli della Lega Nord di definire un “popolo padano”. Molti anni fa, durante una conversazione con Alessandro Bausani, uno dei maggiori orientalisti italiani, docente all’Università di Roma oggi scomparso, chiesi chi – secondo lui – potesse definirsi ebreo. Egli mi rispose testualmente: “Chi vuole esserlo”.
Credo dunque sia corretto considerare l’Ebraismo molto più da un punto di vista religioso- culturale che etnico. Inoltre, ha senso rivendicare il possesso di una terra sulla base di riferimenti religiosi, in questo caso biblici? Va detto anche che l’Ebraismo non si identifica necessariamente con il Sionismo. Può essere considerato anzi una sorta di traduzione nazionalistica “secolarizzata” dello spirito religioso ebraico. Albert Einstein, per esempio, che pure fu simpatizzante sionista, esprimeva i suoi dubbi affermando che “un ritorno ad una nazione nel senso politico del termine equivarrebbe a distogliere l’attenzione dallo spiritualismo della nostra comunità, spiritualismo al quale dobbiamo il genio dei nostri profeti”.
La filosofa ebrea Hanna Arendt manifestò la più netta opposizione al tentativo di “etnicizzare” l’Ebraismo, vedendo in esso una logica speculare a quella che aveva portato alle teorizzazione razziali dei nazisti.
A parte tutto ciò, non si può negare il diritto a persone che si sentono unite da vincoli di natura religiosa e culturale di mettersi insieme e fondare una nuova nazione. A condizione però che l’esercizio di questo loro diritto non vada a scapito di quello di altri popoli di vivere sulla loro terra. Che ci sia un vizio nell’origine nella creazione dello stato di Israele, che ci sia un sopruso commesso nei confronti di un popolo, quello palestinese, che abitava la Palestina da molti secoli prima che vi giungessero i coloni ebrei, lo ammettono oggi anche i più aperti intellettuali israeliani.
Vi è stato un originario errore di valutazione del Sionismo, in un tempo in cui in Europa imperava il colonialismo e i diritti dei popoli extraeuropei erano considerati trascurabili. In ogni caso Israele oramai esiste e non sarebbe meno ingiusta la cacciata della sua popolazione ebraica dalla terra su cui ormai vive da più di mezzo secolo di quanto fu la espulsione dei palestinesi nel 1948. Si tratta di prendere atto, da entrambe le parti, della situazione di fatto.
Recentemente in Svizzera si sono incontrate autorevoli personalità israeliane e palestinesi, tutte non investite di incarichi politici ufficiali. Le trattative tra di loro hanno portato alla definizione di un accordo di pace soddisfacente per tutti, che, se adottato dalle autorità politiche di entrambe le parti, potrebbe entrare in vigore anche domani.
Proprio in base allo stesso principio per il quale si condanna l’immane crimine commesso contro gli ebrei e altre minoranze dal nazismo è oggi necessario condannare senza riserve l’enorme sopruso che il governo israeliano sta commettendo contro il popolo palestinese prolungando indefinitamente l’occupazione dei territori, e quegli atti da esso compiuti che in ogni altra parte del mondo sono definiti “crimini di guerra”. Si è giusti non se si è contro un sopruso, ma contro tutti i soprusi, senza eccezione, chiunque ne sia l’autore. Nessuno, in nome delle grandi sofferenze ed ingiustizie precedentemente subite, è autorizzato ad infliggerne a sua volta ad altri.
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