L’operazione dello “sceicco nero” consiste essenzialmente nel dare un’etichetta unificante ai diversi gruppi del terrorismo islamico
“La battaglia di Tora Bora è durata diciotto giorni. Sul terreno, combattenti afgani e piccoli gruppi di forze speciali britanniche e statunitensi sono avanzati lungo le aride pendici sassose. Il 16 dicembre, i signori della guerra afgani incaricati dell’assalto al complesso di caverne si dichiarano ‘vincitori’. Pochi prigionieri laceri, soprattutto afgani troppo poveri o troppo stupidi per tentare la fuga, vengono fatti sfilare in parata davanti ai media internazionali. Bin Laden e il suo stato maggiore, l’alto comando talebano, e centinaia di altri guerriglieri di Al Qaeda, sono sgusciati attraverso le maglie della rete. Lasciata Tora Bora, passo qualche giorno a Jalalabad e poi entro in Pakistan. Arrivo a Londra in tempo per il festino di Natale in ufficio”. Era il dicembre 2001, e Jason Burke, caporeporter del settimanale britannico Observer, aveva assistito alla conclusione del primo tempo della “guerra al terrorismo”. In Afghanistan, paese di cui il giornalista – esperto di Medioriente e dintorni – seguiva le vicenda da quattro anni. Sempre sul campo, spesso rischiando la vita (come tanti altri giornalisti), ma soprattutto svolgendo un’indagine ragionata sui “dove”, “come” e “perché” del terrorismo islamico.
Da questa sua ricerca, sul filo di esperienze dirette e di incontri con testimoni di vario colore e estrazione, è nato un suo libro ( Jason Burke, “Al Qaeda. La vera storia”, Serie bianca Feltrinelli, pagg. 338, Euro 16) che, fra i numerosi dedicati all’argomento, può essere definito obiettivamente il migliore. Volutamente Burke mette in secondo piano l’aspetto del reportage di guerra (ne ha scritti molti, ricevendo anche vari premi), per privilegiare un’analisi documentata che possa condurre a un quadro per quanto possibile autentico. Che, a conclusione del lavoro, appare abbastanza lontano dagli stereotipi correnti, adottati per comodità o per interesse immediato. Fra le idee sbagliate che sull’argomento hanno preso piede, vi è in primo luogo quella che Osama bin Laden sia alla testa di un’organizzazione terroristica coerente e strutturata chiamata Al Qaeda, “fondata più di un decennio fa da un fanatico religioso saudita immensamente ricco, trasformata in una rete di incredibile potenza comprendente migliaia di uomini addestrati e motivati, in agguato e in attesa in ogni città, in ogni paese, in ogni continente, pronti a eseguire gli ordini del loro leader, Osama bin Laden, e a fare morti e feriti per la loro causa”. Una visione del problema certo preoccupante, ma anche confortante, perché ne consegue che basta eliminare il capo malefico e i suoi accoliti, e il problema è risolto. Ebbene, scrive Burke, “La buona notizia è che questa Al Qaeda non esiste.Quella cattiva è che la minaccia davanti alla quale si trova oggi il mondo è molto più pericolosa di quella che potrebbe rappresentare un singolo leader terrorista con un esercito, per quanto numeroso, di quadri fedelissimi. Il pericolo che ci minaccia, invece, è nuovo e differente, complesso e diversificato, dinamico e proteiforme, e profondamente difficile da caratterizzare”.
Del resto, Al Qaeda è un termine arabo che può indicare una base, una norma, un precetto, una massima, una formula, un metodo, un modello: l’espressione era di uso corrente, senza riferimento a bin Laden, negli anni Ottanta, fra i volontari musulmani che combattevano i sovietici in Afghanistan. Non tutti, una volta terminato il conflitto afgano, passeranno al terrorismo militante, e quelli che lo fanno spesso scelgono obiettivi diversi, all’interno dei loro paesi, dal Maghreb alla Palestina, dal Caucaso all’Estremo Oriente. L’operazione di Osama bin Laden consiste essenzialmente di dare all’etichetta di Al Qaeda un valore unificante all’insegna della jihad islamica. Questo, rileva Jason Burke nel suo libro, non significa che Al Qaeda sia la struttura organizzativa di tutti gli attentati del terrorismo islamico: lo stesso 11 settembre 2001 fu inizialmente ideato dalla “cellula di Amburgo” alla quale appartenevano tre dei quattro piloti suicidi, Mohammed Atta, Ziad Jarrah, Marwan Shehhi. Arrivati separatamente in Germania tra il 1992 e il 1996, “si sono conosciuti tramite amici comuni e reti sociali, in particolare quelle che fanno riferimento a una specifica moschea radicale, la al-Quds, nel centro di Amburgo, consacrandosi, indipendentemente da ogni contatto con bin Laden, alla violenza nel nome dell’Islam radicale. Atta, il più anziano, è stato il primo membro del gruppo ad arrivare in Germania. Corrispondono esattamente ai gruppi collegati alla rete, ma indipendenti, che si alleano con bin Laden durante gli anni Novanta per accedere alle risorse con cui mettere in atto piani che hanno sviluppato autonomamente”. Gli altri membri del commando che si divide sui quattro aerei, provengono dai campi di addestramento aperti nell’Afghanistan dominato dai talebani, dove si sono recati soprattutto per andare a combattere in Cecenia. I collaboratori di Osama bin Laden hanno proposto di partecipare a una spettacolare operazione suicida contro gli Stati Uniti, e loro hanno accettato. “questo gruppo corrisponde all’ampia massa di attivisti dell’islamismo radicale che nelle moschee, nelle scuole, nelle case e nei centri islamici si sono formati l’ambizione di combattere nella jihad dovunque riescano a trovarla”.
Nel retroterra di cui è composto il movimento radicale islamico attuale, Burke distingue due gruppi. “Il primo si può definire quello degli attivisti intellettuali. Sono uomini in grado di giustificare la propria attrazione per l’Islam radicale in termini relativamente sofisticati. Hanno molti elementi in comune, particolarmente per quanto riguarda la provenienza, con gli islamismi politici più moderati […] Sono uomini dotati di mezzi espressivi, intelligenti e relativamente mondani. Hanno aspirazioni e provano un risentimento profondo quando quelle aspirazioni vengono frustrate […] Il secondo gruppo di attivisti musulmani radicali è emerso alla fine degli anni Ottanta ed è diventato sempre più dominante nel corso degli anni Novanta. Sono meno istruiti, più violenti e seguono una forma popolarizzata, più svilita di Islam. Sono radicali in maniera più irriflessiva, bigotta e fanatica. Più che dai gruppi sociali dalle aspirazioni frustrate, provengono spesso dai margini della società, da quelli che hanno poche aspettative da veder deluse”.
Il libro di Jason Burke è in larga misura esauriente nella documentazione, e acutamente innovativo nell’analisi, ma certo non può fornire una formula “magica” per risolvere il problema. Contro il terrorismo si deve usare la forza, dice, ma lo strumento bellico, da usare “raramente e a malincuore”, rischia di creare nuovi nemici. Come, aggiungiamo noi, è accaduto in Iraq, dove l’intervento militare ha fatto nascere il terrorismo in un paese che ignorava questo fenomeno. “Ho cercato di spiegare la natura del moderno terrorismo islamico e di esaminarne in parte le cause prime. Tutte sono il risultato di processi storici, nessuna di queste è inevitabile, e su tutte si può intervenire con politiche attentamente studiate e messe correttamente in pratica […] Tutta la violenza terrorista, ‘islamica’ o di altra natura, è ingiustificabile, imperdonabile, vile e spregevole. Ma il semplice fatto di condannare non implica che non dobbiamo sforzarci di comprendere. Dobbiamo continuare a domandarci: Perché”.
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