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Ottobre/2018 - Immagini e Cultura
Cinema/Tv
"Mi cercarono l'anima a forza di botte"
di Fabio Paglialunga

Abbiamo titolato questa recensione riproponendo
un verso di Fabrizio De Andrè, parole che, negli anni,
sono diventate manifesto della tragedia che ha investito
Stefano Cucchi e la sua famiglia


Non è facile produrre, girare e interpretare un film di denuncia, specialmente in Italia. Soprattutto se il caso di cui si racconta non ha ancora esaurito il suo iter legale: nello specifico un fatto di cronaca così eclatante come quello della misteriosa morte del giovane Stefano Cucchi.
Ci hanno provato, e con grande successo, Lucky Red, che ha curato l’uscita nelle sale e Netflix, che si è occupato della distribuzione in streaming. Si è trattato di una operazione effettuata in rigorosa contemporanea, e che ha scatenato polemiche su ogni fronte, poiché alcuni cinema hanno rifiutato la pellicola e molte strutture (centri sociali su tutte) hanno proposto una visione totalmente gratuita.
Il film racconta gli ultimi sette giorni di vita di Stefano prima di morire in carcere nell’ottobre del 2009, per cause che riconducono a un violento pestaggio avvenuto proprio durante la sua permanenza in prigione e che ad oggi, grazie alla commovente tenacia della sorella Ilaria, che non ha mai rinunciato a lottare per ottenere giustizia, vede implicati cinque carabinieri, rinviati a giudizio dalla Procura di Roma.
Quella di Cucchi è una storia che ha avuto grande esposizione mediatica e che il regista Alessio Cremonini è riuscito ad esporre con una regia attenta e mai banale. Come dichiarato dal regista, il film nasce da un'idea ben precisa: quella di sottrarre Stefano dalla drammaticità delle immagini che vengono mostrate. Nessuno di noi sa di preciso cosa è successo in quelle stanze, ma Cremonini non è alla ricerca della verità, piuttosto ha l’obiettivo di farci immedesimare nel protagonista, abbandonato a sé stesso per sette lunghi giorni tra buio e silenzi assordanti.
Infatti la solennità donata dall’oscurità e dall’assenza di dialoghi per larghi tratti è valorizzata dalla recitazione appassionata e verace di tutti gli attori, dal protagonista fino a tutti i comprimari (tra cui spiccano Max Tortora e Jasmine Trinca). Alessandro Borghi da impareggiabile trasformista ci dona uno Stefano Cucchi credibile, riuscendo a farlo rivivere con una accuratezza fisica e caratteriale tale da far percepire quasi un’aura mistica. Come se attraverso il film, la vita di Stefano Cucchi riacquistasse quella dignità dovutagli ma tolta prematuramente da un circo mediatico che solo la lotta dei familiari è riuscito ad interrompere. Borghi è stato, per questo film, l'interprete perfetto, abbandonando sé stesso per incarnare la fragilità del protagonista. Le riprese sono durate due mesi, durante i quali l’attore romano si è immerso completamente nella storia arrivando a perdere 18 chili.
‘Sulla mia pelle’ è un film sulla solitudine e sull’attesa straziante, ricco seppur misurato, che non giustifica né accusa, semplicemente racconta con rispettosa attenzione la storia di Stefano, senza moralizzare e senza santificare. Allo stesso tempo però è di una tale profondità che si ha quasi la sensazione di percepire ogni singolo battito del suo cuore, ogni più piccolo e affannato respiro, fino alla fine. Questa profonda connessione col dolore di Stefano restituisce finalmente umanità a quella pelle martoriata, a quel corpo scarno e mostra il ragazzo di periferia per quello che realmente era, senza mai farne un martire.
Il regista e gli sceneggiatori infatti scelgono di non fare di Cucchi un santino, anzi, ne illustrano bene le debolezze e le discutibili abitudini di vita. Stefano acconsente alla propria odissea perché si immagina come un “pezzo di carne da posare in un angolo e dimenticare": e perciò minimizza e non denuncia, non si fa aiutare, non cerca di rendersi simpatico, alle autorità come al pubblico. Ma è proprio sull'anello debole della catena che si dovrebbe misurare la solidità di un sistema democratico, e giudici, agenti e personale medico dovrebbero comportarsi con professionalità a prescindere dalla stima che nutrono per i soggetti affidati alla loro tutela.
Non c’è una goccia di sangue in tutto il film, non c’è violenza mostrata come nelle quasi insopportabili scene di pestaggio di ‘Diaz’ di Daniele Vicari. Ma non è un film facile da vedere, anzi. Tanto dolente e angosciante quanto assolutamente necessario.

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