Quattordici anni addietro una ragazza veniva uccisa in un ufficio nei pressi di piazza Mazzini a Roma. Oggi sembra rispuntare una nuova pista che potrebbe dare una svolta alle indagini
I fatti – La sera del 7 agosto 1990 Simonetta Cesaroni, una ragazza romana di 21 anni, non rientra a casa ed i genitori, allarmati dall’insolito ritardo, iniziano delle ricerche che li condurranno fino all’ufficio in cui lavorava due pomeriggi a settimana. L’ufficio era in via Carlo Poma 2, a Roma, in zona Prati, in un condominio ormai quasi deserto in una città svuotata per le vacanze. Davanti ai loro occhi è apparsa la tragica immagine della figlia, seminuda, distesa sul pavimento di una stanza in cui di solito lavorava il suo capo, ormai cadavere da diverse ore. Nella stanza di lei tutto è lasciato nel solito ordine, compresi l’aria condizionata ed il computer accesi e funzionanti. Sul suo corpo erano evidenti i segni di numerose ferite, concentrate prevalentemente al viso, sui seni e sulla zona pubica. Per Simonetta doveva essere il suo ultimo giorno di lavoro in quell’ufficio, sede dell’Associazione Italiana Alberghi della Gioventù, poiché quello era solo un impegno a tempo per il solo fine di inserire dati in un computer. Vi si recava il martedì ed il giovedì pomeriggio, dalle 15.30 in poi. Sulla porta non ci sono segni di scassinamento e dalla stanza mancano dei vestiti della ragazza, nonché alcuni oggetti della sua borsetta. A distanza di 14 anni è possibile sottolineare che nessuna delle indagini, che sono state condotte da più investigatori, sia giunta a dei risultati concreti. La stampa e la cronaca più volte si sono occupate del caso e dai resoconti che è stato possibile leggere si evince che la mancanza di risultati è prevalentemente dovuta alla scarsa qualità delle indagini svolte in passato ed alle molte lacune che sono state disseminate nello svolgimento dei vari accertamenti. Un assassinio tuttavia non va mai in prescrizione, l’inchiesta non è mai stata né chiusa né archiviata, per cui possiamo dire che se finora la partita è stata vinta dall’omicida attualmente ci sono ottime probabilità che gli investigatori possano pareggiare il conto ed arrivare ad assicurare alla giustizia l’autore di questo terribile delitto.
Il modus operandi – Alla luce dei dati emersi dal sopralluogo sulla scena del delitto e dall’indagine autoptica effettuata sul corpo della ragazza è stato possibile dedurre che la ragazza ha cercato di lottare, di scappare, di divincolarsi dal suo aggressore, ma è stata tramortita da un forte schiaffo sull’orecchio destro, quindi distesa a terra e spogliata della maglia e del reggiseno. L’aggressore, nel proseguire suo attacco sessuale, l’ha morsa sul seno sinistro procurando alla ragazza un dolore che l’ha rianimata. Tuttavia l’aggressore ormai le era completamente sopra e la teneva ferma con i ginocchi piantati sui suoi fianchi. Per bloccarne la nuova reazione l’aggressore ha cercato di tramortirla di nuovo facendole battere la testa sul pavimento, ma ha talmente ecceduto nella forza che da questi colpi alla ragazza ne è derivata una frattura della base cranica anteriore, nella parte frontale, per cui ha immediatamente cessato di vivere. L’aggressore, resosi conto della morte della ragazza, ha apparentemente messo fine ad ogni ulteriore attacco sessuale al punto che sulla parte genitale della ragazza non sono state evidenziate lesioni, traumi o altri segni di violenza di tipo sessuale. L’aggressore tuttavia non è scappato, non ha precipitosamente abbandonato l’ufficio. E’ rimasto sulla scena del delitto, prima ha spogliato la ragazza lasciandole solo il reggiseno (comunque tirato su) e le calzette bianche, poi ha preso un oggetto appuntito e dalla lunga lama, presente in ufficio, forse un tagliacarte, ed ha iniziato a colpire più volte, sistematicamente, il corpo della ragazza. Alla fine è stato possibile contare 29 lesioni d’arma bianca, profonde ciascuna oltre 10 centimetri, localizzate sul viso, sul torace, sul ventre e sulla zona pubica. Che queste lesioni siano state inferte post-mortem è possibile dedurlo dalla scarsità di sangue che ne uscito al confronto della profondità delle ferite stesse e dei vasi grossi vasi arteriosi che sono stati lesionati. Ferite che, se inferte in un corpo vivo nella zona toracica cardiaca e nella zona carotidea, avrebbero generato molti e copiosi schizzi di sangue, proiettati anche a diversi metri di distanza, e trasformato l’ufficio in una rossa sala di mattanza, come il retrobottega di una macelleria. Dopo aver infierito sul corpo della ragazza l’autore è rimasto ancora sulla scena per cercare di ripulire le tracce di sangue, usando degli stracci presenti in ufficio che poi ha cercato di lavare nelle fontane e nei lavatoi posti all’ultimo piano del palazzo. Prima di uscire ha sistemato il corpo della ragazza, divaricandole braccia e gambe, ne ha prelevato dei vestiti e degli oggetti personali dalla borsetta, ha sistemato in ordine le scarpe di lei, quindi è uscito chiudendo a chiave la serratura dell’appartamento con 4 mandate. Nella stanza l’autore ha lasciato un foglio con scarabocchiato un pupazzo e la scritta “ce dead ok”.
Gli scenari di un movente – In ogni omicidio i moventi causali possono essere raggruppati in cinque tipologie generali: l’interesse personale (prevalentemente di tipo economico), la vendetta, la rabbia (o l’impulsività), il piacere ed infine il caso in cui l’omicidio rappresenta l’evoluzione di un altro delitto. Chi uccide per un qualche interesse personale, per vendetta o per il piacere di uccidere (come fanno ad esempio i serial killer) in genere premedita il proprio atto, effettua delle scelte razionali sui modi, sui luoghi e sui tempi, quindi sceglie, si procura e porta con sè l’arma con cui ucciderà la sua vittima. Nel caso di Simonetta Cesaroni non emerge nell’autore una diretta ed immediata volontà di uccidere e la stessa arma del delitto è rimediata direttamente nell’ufficio stesso. Possiamo dedurre quindi che l’autore non è entrato in quell’ufficio con l’intento di uccidere e se alla fine questo è avvenuto lo si deve ad eventi o situazioni che sono accadute in quelle circostanze, nella stretta e diretta interazione tra l’autore e la vittima. Il possibile movente quindi si restringe all’ipotesi dell’atto impulsivo oppure all’ipotesi che l’omicidio rappresenti l’evoluzione, imprevista e non premeditata, di un altro tipo di delitto. Il modus operandi dell’omicida tuttavia non lascia spazio per suggestioni di impulsività, anzi ci lascia intendere che l’autore sia una persona fredda, molto lucida e che non si lasci facilmente prendere dal panico, dalla paura o dalla fretta neanche di fronte alla morte improvvisa. Quindi non ci resta altro da pensare se non che l’omicidio di Simonetta sia un evento non voluto, non premeditato, non cercato, ma solo il frutto della degenerazione di un altro tipo di condotta delittuosa. Fatte queste considerazioni, a quali tipi di scenari possiamo far riferimento?
In un primo scenario abbiamo una persona che conosce molto bene il palazzo, l’ufficio, la ragazza e le sue abitudini. Una persona che possiede le chiavi dell’ufficio o che in qualche modo abbia titolo per entrare e quindi farsi aprire dalla ragazza in un momento in cui l’ufficio era comunque chiuso e non riceveva il pubblico. L’uomo entra, cerca un contatto ravvicinato con la ragazza, di tipo sessuale, la ragazza lo respinge, lui insiste e lei cerca di scappare per l’appartamento. Ne nasce una colluttazione in cui la ragazza ha subito la peggio e nel secondo attacco fisico la ragazza soccombe e muore. L’autore non si impressiona per la morte della ragazza, non ne riceve forti emozioni, rimane lucido e freddo. Con studiata progressione di comportamenti mette in atto sul corpo di lei degli atti post-mortem, con un oggetto tipo arma bianca, entrando per 29 volte nella sua carne, sia nella zona pubica che nel petto e nel viso. I 29 colpi non vengono inferti in modo continuo, ci sono delle soste che possono servire o per riprendere le forze o per pensare dove colpire (ad esempio i colpi sul ventre sono simmetrici). Alla fine, soddisfatto della propria azione, sente di avere ancora il tempo per cancellare le sue tracce e per ripulire la scena del sangue della ragazza, approfittando degli stracci dell’ufficio e dei lavatoi del palazzo.
In un secondo scenario abbiamo una persona che entra nell’ufficio per motivi personali o del proprio ufficio. Pensa di non trovare nessuno, scopre invece con sorpresa la ragazza ed al tempo stesso anche la ragazza è sorpresa di quell’ingresso poiché pensa che nessuno la disturberà. La sorpresa e la paura di entrambi genera un conflitto per cui la ragazza cerca di scappare, pensando magari ad un ladro o un aggressore, mentre l’altro cerca di bloccarla per non farsi scoprire e fare in modo che la ragazza possa rappresentare uno scomodo testimone. Ne scaturisce una colluttazione, la ragazza ha la peggio e muore per il trauma cranico. L’autore, esperto di atti criminali, temendo che si possa arrivare facilmente a lui, cerca di inquinare la scena introducendo atti di tipo sessuale e di pseudo-pazzia, infierendo sul corpo di lei come farebbe un malato, un pazzo, un maniaco. Dopo aver organizzato a sufficienza la scena del delitto in modo da richiamare un prevalente significato psicopatologico o sessuale, abbandona senza fretta l’ufficio.
Il profilo dell’autore – Il modo con cui è stata trattata e controllata la ragazza, le lesioni che l’hanno uccisa e la scarsa resistenza che lei ha potuto mettere in atto fanno pensare ad una persona molto forte: l’ha tramortita con uno schiaffo, immobilizzata con le ginocchia e fracassato la base cranica sbattendole il capo sul pavimento. Pur non essendo entrato per uccidere si è trovato, per il suo eccesso offensivo, di fronte alla morte imprevista della ragazza. Non ne è rimasto turbato, è rimasto freddo, non ha perso il controllo dei nervi ed ha messo in piedi, dalla morte in poi, una serie prolungata di azioni, offensive e difensive, che hanno richiesto molto tempo. Alla fine non è ben chiaro se ha abbandonato la scena del delitto perché il suo “lavoro” di ripulitura ed occultamento sia terminato oppure perché si era fatto molto tardi e temeva che arrivasse qualcuno a cercare la ragazza. In ogni caso non è uscito precipitosamente, ha scelto degli oggetti, ha chiuso la porta a chiave e si è recato sul lavatoio a lavare gli stracci con cui aveva pulito il sangue. Tutto questo depone per una perfetta conoscenza della scena del delitto, delle abitudini della ragazza, dell’ufficio e dello stabile in cui avviene il delitto..
Si tratta sicuramente di una persona “matura”, non certo di un giovane ai primi assalti offensivi, fisicamente ben messo e quindi abbastanza forte, con sicuramente una storia di molestie o violenze sessuali alle spalle. Possiamo aggiungere che si tratta di una persona che ha familiarità con la morte, con la violenza e con la sopraffazione. Sicuramente di bassa cultura o scolarizzazione, con piccoli precedenti penali, quanto basta per conoscere alcuni elementi investigativi e giudiziari.
Gli indagati – Tre giorni dopo il delitto viene arrestato Pietro Vanacore, il portiere dello stabile, ritenuto reticente dagli inquirenti. È l’ultima persona ad aver visto Simonetta viva. Si è contraddetto durante gli interrogatori circa alcuni vasi che avrebbe annaffiato la sera del delitto. Sui suoi calzoni vengono trovate due piccole macchie di sangue, successivamente tipizzate come suo sangue. Possiede inoltre le chiavi dell’ufficio dove lavora Simonetta. L’ipotesi iniziale è che il Vanacore abbia tentato di violentare la ragazza e poi l’abbia uccisa. Le perizie scientifiche di allora non confermano questa tesi e dopo venti giorni viene rimesso in libertà.
Un certo Roland Voller tira in ballo un giovane, Federico Valle. Il tedesco rivela alla polizia che il Valle era in via Poma all’ora del delitto e che quella sera sarebbe tornato a casa con un braccio sanguinante per una ferita. Il sospetto è che abbia ucciso Simonetta perché la ragazza era l’amante del padre Raniero. Valle sarebbe l’assassino e Vanacore il favoreggiatore che pulisce l’appartamento dopo il delitto e si impossessa degli indumenti di lei per simulare una rapina. Ma il sangue di Federico Valle non corrisponde a quello trovato sulla porta e non si riescono a trovare ulteriori indizi che possano ricollegarsi a lui. Altre persone entrano nel gruppo degli indagati ma vi restano poco tempo in quanto emergono quasi subito degli elementi che contrastano con i fatti e gli eventi accaduti sulla scena del delitto.
Il giallo di Renata Moscatelli
Sei anni prima dell’uccisione della povera Simonetta, nello stesso condominio di via Poma 2, venne trovato il corpo senza vita di un’anziana donna, soffocata con un cuscino.
A scoprire il cadavere fu sua sorella, Adriana Moscatelli: entrò in casa con l’aiuto del fabbro visto che Renata non veniva ad aprire.
Un omicidio, anche quello, che rimase irrisolto: l’assassino non portò via nulla e non lasciò segni che potessero far pensare ad un maniaco.
|