Non si può transigere su nuovi ordinamenti che porterebbero a stravolgere le garanzie democratiche, favorendo uno strapotere dell’esecutivo sulle altre istituzioni
Le elezioni suppletive del 24 ottobre hanno fornito agli ottimisti (e agli amanti delle mediazioni) qualche incerta speranza che il governo Berlusconi ripensi e ritardi il percorso, ormai tristemente segnato, delle riforme costituzionali.
Purtroppo bisogna stare ai fatti e prendere atto del devastante processo di trasformazione della Carta costituzionale che è all’attenzione delle Camere. Per essere corretti, occorrerebbe non menzionare neppure il Parlamento, perché la maggioranza sta imponendo un suo rifacimento della Carta fondamentale senza alcun rispetto istituzionale per i diritti della minoranza. Si tratta di una procedura che appare illegittima perché l’art.138, che consente le modificazioni, non potrebbe autorizzare il cambiamento radicale della Costituzione: sono in discussione ben 43 articoli, poco meno di un terzo della Carta stessa.
Si può, quindi, sperare in qualche maquillage di convenienza o in una dilazione dei tempi (il doppio passaggio tra le Camere è previsto di tre mesi in tre mesi), ma senza eventi allo stato imprevedibili, al termine si passa a un referendum confermativo valido qualunque sia la partecipazione e che, se non riceve una maggioranza di “no” conferma il nuovo testo anche a nome dell’intero popolo italiano.
Non è, dunque, mai troppo presto per incominciare a parlarne. E per due buoni motivi: che il livello di “coscienza costituzionale” nel nostro paese non è tanto elevato e che il Presidente del Consiglio domina i mezzi di comunicazione e potrà propagandare demagogicamente il buono di alcune proposte (come la riduzione del numero dei parlamentari o la trasformazione di una delle due Camere), su cui peraltro è d’accordo anche l’opposizione, a cui toccherà contestare il modo di elezione della Corte costituzionale o la qualità del Senato federale che non sono i più popolari degli argomenti.
E’ dal 1983 che si tenta di rinnovare –ovviamente con l’intenzione di emendarla in meglio – la Costituzione, ma sia la Commissione Bozzi, sia la Commissione Iotti-De Mita si arenarono senza produrre risultati. Forse si poteva provvedere, a impedire il prolungamento all’infinito, anche artificioso, dei dibattiti d’aula e, di conseguenza, l’improduttività del lavoro parlamentare, attraverso leggi ordinarie che fissassero l’obbligo per i partiti di indicare la coalizione di appartenenza prima delle elezioni e di fissare la soglia del 5% per la legittimazione dei raggruppamenti minori. Invece al tempo del primo governo Berlusconi parve bene affidare le responsabilità di pensare norme emendative alla cosiddetta Commissione bicamerale. La sinistra si accinse al compito di mediare tra posizioni diverse – cosa giustamente democratica quando sono in gioco questioni riguardanti i diritti di tutti - con molta ingenuità e chi era più furbo si prese il gioco, che, anche se condizionato dai governi Prodi e D’Alema, rimase nelle mani di Berlusconi.
Nel 1994 era diffuso il timore per il rischio rappresentato da mediazioni al buio con una destra che, notoriamente, privilegiava interessi incompatibili con l’assetto democratico prefigurato nella Costituzione ed era notevole il fermento nella società civile e tra i giuristi delle nostre università. Si segnalò, in particolare, don Giuseppe Dossetti, che propose la formazione in tutte le città e anche nelle piccole frazioni di “Comitati in Difesa della Costituzione” per contrastare i pericoli di riforme azzardate.
Il monaco che era stato partigiano aveva capito più dei leaders politici. Infatti, rivolgendosi al sindaco di Bologna che lo aveva invitato alle cerimonie per il 25 aprile del 1994, giustificando l’assenza per ragioni di salute, commentava: “non posso non rilevare che attualmente i propositi delle destre (destre palesi ed occulte) non concernono soltanto il programma del futuro governo, ma mirerebbero ad una modificazione frettolosa e inconsulta del patto fondamentale del nostro popolo, nei suoi presupposti supremi in nessun modo modificabili” (lettera del 15 aprile). E successivamente caricava la dose: “non nascondo che le mie preoccupazioni in questo momento sono massime, e non credo di esagerare se intravedo una trappola tesa dal nuovo ordine di cose specialmente ai cattolici. Non posso dimenticare che anche l’altra volta, più di settant’anni fa, tutto è incominciato nello stesso modo: con defezioni minime, poi gradualmente crescenti, dei cattolici. Ho ancora presenti gli articoli e le cronache della Civiltà Cattolica dal ’20 al ’24, che, ancora, con un editoriale del suo direttore, il padre Rosa, cercava di scagionare dopo il delitto Matteotti la responsabilità del Regime, e preparava così all’acquiescenza al colpo di stato del 3 gennaio 1925” (lettera del 23 maggio).
La Bicamerale, tuttavia, paralizzò le iniziative che, spontaneamente, erano nate ovunque e i Comitati entrarono in crisi; oggi la dissolvenza sta sfociando nella ripresa e si riparte, ancora una volta, dalla società civile. Si sono collegati insieme tre coordinamenti: Astrid, Libertà e Giustizia, e i Comitati Dossetti. Sarebbe necessario che i partiti del centro-sinistra e i sindacati si affiancassero fattivamente, perché si impone un lungo lavoro di informazione che ha bisogno di tutti.
Sono disponibili, certamente, i docenti di diritto costituzionale che nella quasi totalità hanno firmato per esprimere allarme e dissenso; ma, per allargare l’interesse generale su temi che hanno sia complessità giuridica, sia grossa valenza politica, c’è bisogno di una campagna d’opinione generalizzata.
Della prima parte della Costituzione, quella dei principi, il Governo non prevede modifiche: i principi sono decorativi e si possono violare impunemente: la Repubblica italiana fondata sul lavoro oggi vive sulla precarietà e ha già sofferto lesioni ai diritti all’istruzione, alla salute, all’informazione.
Non si può, dunque, transigere neppure sugli ordinamenti: la nuova Carta ci farebbe trovare con un primo ministro dotato di poteri assoluti e con un Presidente della Repubblica degradato a notaio, con una devolution fatta di scuole, sanità e ordine pubblico diverse nelle diverse regioni, con un Senato federale poco regionale e molto governativo, con una Corte Costituzionale adeguata alla volontà del governo, senza più controlli e garanzie.
Se si aggiunge la riforma già in atto dell’ordine giudiziario, dominata da interessi che nulla hanno a che spartire con il bisogno di avere un autentico “servizio della giustizia” funzionale alle esigenze del paese, si comprende il rischio che corrono i cittadini tutti. E’ importante capirlo bene fin da ora.
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