La piovra della criminalità organizzata si estende, tra violenza e apparente “perbenismo”, in molti settori ell’economia; usufruendo sempre più dei sistemi finanziari offerti dalle zone “off-shore” sparse in tutto il mondo.
Un fatto nuovo, e positivo: la Mafia diventa materia di studio all’Università
Quanto guadagnano le mafie? Se lo chiede un’inchiesta di Anna Petrozzi e Monica Centofante pubblicata nel numero di settembre di “Antimafia”, e la risposta è allarmante. Secondo i dati riferiti da “Economy”, autorevole giornale economico (edito da Mondatori), il fatturato annuo della Mafia in Italia è di circa 85 miliardi di euro, con un capitale che raggiunge i mille miliardi di euro. Il 7% del Prodotto interno lordo (Pil) del nostro Paese, come sottolinea il sostituto procuratore della Dna Antonio Laudati, in un’intervista che accompagna l’inchiesta. Stando a queste cifre, la Mafia sarebbe la prima azienda italiana. Eppure, tra guerra, terrorismo, crisi economiche, di Mafia si parla sempre meno, quasi ridotta a sporadici episodi di cronaca o scandalistici, un fatto di sangue, un personaggio più o meno illustre sospettato di collusione. Cose da non prestarvi troppa attenzione, con i tempi che corrono.
Invece si deve rilevare che Cosa nostra non ha mai smesso di andare avanti, di estendersi, di affinare i propri strumenti, adattandosi perfettamente ai tempi. Soprattutto negli ultimi trent’anni. Dalla prima alleanza con la Mafia turca, fornitrice della morfina base, proveniente dalle coltivazione di oppio orientale, e con il famigerato cartello colombiano di Medellin, che metteva a disposizione la sua fortissima produzione di cocaina. Era stato l’inizio di una Mafia International, vera multinazionale del crimine organizzato, i “tempi d’oro”, come li definiscono Petrozzi e Centofante, “gli anni in cui l’eroina e la cocaina viaggiavano in tutto il mondo, dalla Sicilia agli Stati Uniti, dalla Colombia all’Europa, lungo canali paralleli e altrettanto dorati percorsi dal denaro guadagnato e riciclato in Inghilterra e Svizzera”. Giovanni Falcone, di concerto con un pool di giudici americani, mise a punto l’operazione detta Pizza Connection, che portò a 160 arresti, e alla scoperta della gigantesca filiera del narcotraffico. E’ nota la storia della lotta accanita condotta da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, il pool antimafia di Palermo, e altri magistrati in Italia e all’estero, contro la base finanziaria della criminalità organizzata. E’ noto anche quello che accadde in seguito. Meno avvertito, probabilmente, il successivo rallentamento da parte delle istituzioni in questa lotta che colpiva interessi enormi e spesso oscuri.
Così, come la mitica Fenice, la Mafia è risorta dal fuoco delle indagini giudiziarie (spesso confortata dal discredito che si è tentato di gettare sui giudici “persecutori”), e oggi entra, viva e vegeta, nel terzo millennio della globalizzazione, ben decisa a continuare i propri affari, e ad estenderli. Del resto, a questa espansione i nuovi tempi si prestano ancora meglio di quelli passati.
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Il riciclaggio è l’anima degli affari mafiosi. E’ attraverso il riciclaggio che il denaro “sporco” diviene miracolosamente “pulito”, e può essere tranquillamente investito, inserendosi in attività lecite, alla luce del sole, grazie alle elevate disponibilità finanziarie che consentono di sviluppare un costante potere di corruzione, anche all’interno delle istituzioni. Nel libro di Donato Masciandaro e Alessandro Pansa “La farina del diavolo” (Baldini e Castoldi), il riciclaggio è “un’operazione cruciale per la sopravvivenza e la crescita per l’economia della corruzione in quanto mercato illegale, e funge quale moltiplicatore del peso economico, quindi sociale e politico, di qualunque organizzazione o soggetto criminale o illegale”. Di fatto, per la Mafia si è posto il problema di rimettere in sesto un patrimonio duramente colpito negli ultimi anni da sequestri e confische. Di qui l’esigenza di intensificare le attività imprenditoriali, adeguandosi alla “politica del fare” decantata dall’imperante dottrina liberista. E questo viene realizzato con oculati interventi in diversi settori. “Un primo tipo – scrivono Anna Petrozzi e Monica Centofante – sono le attività cosiddette strumentali, strutturate sia come copertura di traffici illegale, sia come fornitrici di beni e servizi necessari ai vari affari. Rispettivamente si pensi, per esempio, ai negozi e ad attività commerciali nel campo della ristorazione, nel primo caso, e a imprese di export-import, nel secondo. L’investimento legale ha quindi anche valore strategico, e può non essere finalizzato solo alla massimizzazione del profitto. Uno dei principali cavalli di battaglia della Mafia contemporanea è la speculazione immobiliare e la partecipazione alla realizzazione, tramite la vincita di appalti pilotati, di opere pubbliche. In questo caso, al guadagno, piuttosto evidente, va ad aggiungersi anche lo strutturarsi di quella preziosa rete di relazioni che coinvolge politici, amministratori, e imprenditori legali. Differente e ancora più complicato il discorso dell’investimento finanziario. Vale a dire quando il criminale si rivolge al sistema bancario o a società finanziarie. Una strategia che si è andata raffinando sempre più nel corso degli anni, grazie anche alle tecnologie proposte dalla new economy, e ai vantaggi offerti dai Paesi off-shore, ai quali comunque nessuno, nemmeno le imprese non direttamente criminali, si sente di rinunciare. Tanto che, secondo i dati del sistema del Tesoro americano, il 70% delle transazioni finanziarie che avvengono nel mondo passa per i cosiddetti paradisi fiscali”.
I metodi di “lavaggio” sono di vario tipo, e spesso richiedono la cooperazione di intermediari, più o meno consapevoli del ruolo che svolgono. Ma a questo proposito il discorso si allarga. Stando agli studi di Giorgio Rodano e Giacomelli, alcune attività economiche “traggono origine o alimento dall’investimento di capitali di origine illecita nell’economia legale”, e, si aggiunge, “sembra che spesso l’infiltrazione dei capitali criminali non venga contrastata dagli operatori economici, ma sia addirittura apprezzata e sollecitata”. Insomma, “una volta costretti a ‘urlare con i lupi’, gli imprenditori legali non si sono certo tirati indietro. Il nuovo modo di fare profitti si è diffuso, le conseguenze, però, non le hanno pagate le imprese, ma il sistema economico complessivo”.
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I paesi off-shore sono al centro delle operazioni di riciclaggio in grande stile, grazie a legislazioni che garantiscono la massima discrezione a qualsiasi operazione finanziaria, e rendono facile la costituzione di società di comodo. Li chiamano “paradisi fiscali” perché privilegiati da chi evade le tasse, ma in realtà sono utilizzati per attività “occulte” di vario genere, e in particolare dalle Mafie. Non è una novità che per combattere efficacemente una criminalità organizzata “globalizzata”, per colpirla a fondo nei suoi interessi, occorre una legislazione uniforme. Come minimo a livello europeo. Però, se un’effettiva collaborazione esiste tra alcuni magistrati e investigatori di diversi paesi, nella sostanza essa incontra continue difficoltà, formali e sostanziali. E la punta dell’iceberg è rappresentata, appunto, dall’off-shore, le “isole felici” che negli éscamotages finanziari hanno la loro ragione di esistere. Il sostituto procuratore Laudati, nella sua relazione al un convegno tenutosi recentemente a Siracusa, cita l’esempio dell’isola di Sark, nella Manica: “Presso l’Ecofin vi è stata una protesta per la mancata applicazione in Europa della legislazione antiriciclaggio in un’isola del Canale. Tra le isole ce n’è una piccolissima che si chiama Sark.
E’ praticamente uno scoglio nell’oceano; ha cinquecento abitanti, due strade, quattro o cinque trattori, due fuoristrada … in quest’isola hanno sede 9987 società commerciali, e tre cittadini di Sark, presumibilmente dediti all’agricoltura e alla pastorizia, sono ognuno di loro amministratore delegato di 1600 società a testa; c’è chi ne ha di meno, ma tre hanno questo record. Poi ci sono 700 società di assicurazioni, 1200 banche … Ovviamente Sark è un Paese ‘duty free’ … Insomma, una chiara elusione della normativa antiriciclaggio. Di fronte alla protesta dell’Ecofin il governo del Regno Unito ha risposto che il territorio in questione era un possedimento privato della Corona, per cui non soggetto al rispetto della norma antiriciclaggio. Ha anche aggiunto, però, che lo stesso accade a Gibilterra, ad Andorra, nel Principato di Monaco, nel Lichtenstein, a San Marino, nella Città del Vaticano”.
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Per concludere, e per cambiare, una buona notizia, che si vorrebbe prendere come un segnale positivo. Nel novembre scorso, si è aperto alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma Tre il primo Corso di Storia della Criminalità organizzata. Il Corso è tenuto da Enzo Ciconte, ex deputato, consulente dell’Antimafia, da anni impegnato in seminari e conferenze nelle scuole, e ha raccolto oltre 500 iscritti. Un successo, e il professor Guido Fabiani, rettore di Roma Tre, ritiene che “dopo questo esperimento, dovremmo inserirlo in modo stabile nei curricula”. Certo, sembra strano che proprio in Italia l’argomento Mafia non sia mai stato materia di studio a livello universitario, ma è così. “E’ una materia troppo scottante, troppi rapporti con la politica e le istituzioni”, dice Ciconte. Del resto, per alcuni personaggi di non poco conto la Mafia è ancora oggi una sorta di entità folkloristica, con la quale si deve cercare in qualche modo di “convivere”. “La Mafia è soggetto politico, una criminalità di programma che non fa reati estemporanei”, ha detto Pier Luigi Vigna, intervenendo alla lezione inaugurale del Corso nell’aula magna di Roma Tre. E Piero Grasso, procuratore di Palermo: “C’è una sproporzione tra i mezzi che ha la Mafia e quelli che ho io: io ho il codice, loro hanno l’esplosivo. Io ho chi delegittima, loro hanno chi li santifica”.
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