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Dicembre/2004 - Articoli e Inchieste
Iraq
La verità uccisa ogni giorno
di Gianni Cirone

Dalla guerra a bassa intensità si torna a quella convenzionale. Gli Usa hanno perso il controllo del territorio. Nel frattempo si sviluppa la strategia dei sequestri


In una guerra infinita e da mesi interpretata come guerra a “bassa intensità”, a pochi giorni dalla liberazione di Simona Torretta e Simona Pari, il segretario di Stato statunitense Colin Powell annuncia che è il momento di eliminare in Iraq le no-go zones: ovvero, “riportare sotto il controllo del governo” le zone sfuggite al controllo Usa. L’annuncio indica il ritorno delle forze Usa alla pratica del conflitto convenzionale, con l’obiettivo di bonificare il paese e condurlo verso le elezioni.
Come lo si volti e come lo si giri, il fatto fotografa l’ammissione di un disastro, un disastro provocato dall’intervento bellico su quel territorio, e l’ammissione pubblica dell’inevitabilità di una massiccia ripresa dei bombardamenti a go-go: altro che regolare corso di normalizzazione del paese. La macchina di guerra statunitense comincia a perdere i colpi e le pressioni, interne ed esterne, adesso lasciano spazio quasi esclusivamente ad una politica di retroguardia, riponendo in prima fila le pance aperte dei bombardieri, molto più sbrigativi ed efficaci. Identica efficacia, però, sembrano anche avere gli esisti di inchieste che dimostrerebbero l’inaffidabilità delle ragioni inventate per abbattere il regime di Saddam Hussein. Si veda la dettagliata inchiesta del New York Times: sei fonti, quattro Cia e due Casa Bianca, per provare come nell’autunno 2002, mentre s’intensificava la campagna Usa per attaccare l’Iraq, gli esponenti statunitensi, da Condoleeza Rice a Dick Cheney, sapevano perfettamente di mentire denunciando l’uso di tubi di alluminio, ordinati a decine di migliaia ad Hong Kong, da parte di Saddam Hussein: “prove irrefutabili” per il programma nucleare iracheno, secondo Cheney, componenti “utilizzabili solo per programmi di armi nucleari”, per la Rice (vedi scheda in pagina). Eppure, molti mesi prima, entrambi erano stati informati che vi erano diversi dubbi in merito. Che quel materiale servisse a costruire centrifughe per l’arricchimento dell’uranio era stata una nota, datata aprile 2001, firmata da un’analista fresco di Cia, giunto alla divisione “Winpac” (Weapons Intelligence, Nonproliferation and Arms Control). Il suo nome, Joe.
La sua teoria fu subito rigettata dagli esperti più accreditati, ad esempio da quelli del dipartimento dell’Energia, dai quali dipende il programma Usa per lo sviluppo di centrifughe.
Gli esponenti politici, pur riconoscendo ciò, in pubblico alimentarono certezze; un fatto che, secondo l’autorevole quotidiano newyorkese, indica chiaramente come il fallimento iracheno non sia da attribuire alla mancanza di analisti o all’approssimativa opera dell’intelligence, quanto invece “a un modo di lavorare basato su manovre burocratiche, ambigue, segrete e frettolose, e alla persistente incapacità dell’Amministrazione e fra i membri sia repubblicani che democratici del Congresso di porre domande serie”. Un dubbio: si può dire la stessa cosa sulla conduzione della macchina italiana impegnata in Iraq? Si vedano la vicende, a lieto e pessimo fine, riguardanti gli ostaggi.
Tra i nostri connazionali rapiti, ultime ad essere state liberate dall’inferno iracheno sono state Simona Torretta e Simona Pari; uccisi, invece, Fabrizio Quattrocchi, Enzo Baldoni e Ayad Anwar Wali, imprenditore proveniente dall’Iraq, da anni residente in Italia, fucilato con il suo collaboratore turco il 4 ottobre scorso. Su questi due freschi omicidi, gli esecutori hanno messo l’accusa di spionaggio, mentre il caso di Fabrizio Quattrocchi a poco a che vedere con gli aiuti umanitari.
Ebbene, all’inizio del sequestro, la stessa accusa sarebbe stata invece indirizzata contro le due operatrici italiane di “Un ponte per…”, lasciate poi in vita: un’accusa ridicola per questa Ong, appartenente ad un mondo che con lo spionaggio non ha mai avuto a che fare se non come oggetto di analisi, appunto, da parte di diverse intelligence. Ecco allora il quesito sul caso Torretta-Pari: è da ritenersi possibile quanto accaduto?
E’ 7 settembre 2004 quando, a Baghdad, un commando fa irruzione in pieno giorno nella casa-ufficio di “Un ponte per...”, organizzazione non governativa italiana, e sequestra Simona Torretta, Simona Pari, Raed Ali Abdul Aziz, Mahnaz Bassam. I rapitori indossano uniformi della Guardia nazionale irakena e giubbotti antiproiettile, hanno il volto scoperto al punto da apparire perfettamente sbarbati. Sono una ventina, tutti riccamente armati: pistole con silenziatore, Ak-47, dispositivi inibenti non letali. Il capo viene appellato “signore”. Secondo alcuni testimoni, i sequestratori affermano di appartenere al gruppo di Ayad Allawi (odierno premier iracheno), interrogano tutti i presenti, identificano le due italiane, le portano via con una donna irachena, Mahnouz Bassam, e un uomo, Raed Ali Abdul Aziz. Il portavoce del ministero dell’Interno iracheno smentirà in seguito l’appartenenza denunciata dal commando, confermando però l’uso di uniformi e giubbotti antiproiettile. L’operazione si svolge nel cuore della capitale irachena, laddove la “Green Zone” è stracolma di check-point statunitensi e iracheni, del neo-esercito post Saddam: sembra che, un quarto d’ora dopo il sequestro, mezzi Usa siano passati vicino la sede di “Un ponte per…”.
E’ il 28 settembre quando vengono liberati tutti gli ostaggi sequestrati il 7 settembre e una fonte del Sismi divulga quanto segue.
1) Un “contrattempo” dell’ultima ora ha rischiato di far saltare tutto.
2) Grande soddisfazione per le fonti dislocate sul territorio, perché “complessivamente affidabili. Fin dall’inizio”.
3) Grazie all’aiuto dei servizi kuwaitiani, giordani, siriani, libanesi, si è riusciti a delineare quasi subito l’area di appartenenza dei rapitori.
4) A poche ore dal sequestro, ambienti dei servizi avevano già l’identikit dei rapitori: uomini legati al partito Baath e ai servizi di sicurezza di Saddam, sunniti nazionalisti, islamici ma non integralisti, connotati politicamente, interessati anche ad un tornaconto economico, preoccupati di autofinanziarsi e di accreditarsi presso il nuovo governo iracheno.
5) Importanti i contatti con il consiglio degli Ulema sunniti, risultati decisivi anche in altri sequestri (adesso quel Consiglio dice di non avere avuto alcun ruolo nel rilascio, ndr)
6) Importanti i contatti con il Consiglio centrale dei capitribù, rappresentativo di 4.000 tribù sparse sul territorio, il cui presidente, Ali Al Dulemi, afferma di essere stato in contatto con i rapitori e con due 007 italiani (Torretta e Pari, per Al Dulemi, sono catturate perché sospettate di spionaggio; le due Simone dicono che ciò non gli è mai stato contestato; il commissario della Cri, Maurizio Scelli, afferma che uno dei sequestratori gli parla di un elenco Usa in cui le due donne sarebbero indicate come spie, ndr).
Alla fine della fiera, però, il rapimento di Torretta e Pari a cosa ha giovato e, meglio, a chi ha giovato? Ecco due ipotesi:
a) apparentemente, per esigenze di un gruppo di sequestratori, all’inizio ostici, poi confusi, infine filantropi, comprensivi, moderati;
b) probabilmente, per compiere un’operazione mediatica, con risvolti internazionali, frutto di promiscuità irachene, scegliendo vittime esposte, inconsapevoli, del tutto marginali alle logiche post Saddam Hussein.
Dalle ipotesi si passi, adesso, ad alcune evidenze: quattro vite a rischio sono state fortunatamente tratte in salvo; il fatto ha costituito l’indubbio successo di uomini del governo Berlusconi; l’esito positivo ha visto il coinvolgimento del Commissario straordinario della Croce Rossa Italiana, Maurizio Scelli; l’evento ha condotto “Un ponte per…” fuori dall’Iraq; attivandosi, soprattutto i governi giordano e siriano hanno affermato un nuovo ruolo nell’area; per la stessa ragione, diverse assemblee islamiche hanno pubblicizzato una strategia del dialogo; se realmente è stato pagato il riscatto, un qualche beneficiario ne ha usufruito.
Sin qui è stato omesso il contesto cronologico. Un contesto che sarebbe interessante far partire dal rapimento e uccisione del giornalista Enzo Baldoni, sino a comprendere il rapimento dei due giornalisti francesi, Christian Chesnot e Georges Malbrunot. Primo tassello. Con i rapimenti di Baldoni e dei due giornalisti francesi i video dei sequestratori (tra tutti quelli resi noti all’opinione pubblica) propongono un nuovo format. Perché? Strano a dirsi, ma l’inedita linea “editoriale” viene lanciata proprio dal rapimento del giornalista italiano. Baldoni viene ucciso come un cane, probabilmente mezz’ora dopo quella buffonata a cui viene costretto davanti alle telecamere. Poco importa quanto sostiene nel filmato: la sua sorte è già segnata. Il video, nel suo caso, sembra più sostanziare un alibi per chi intende farlo fuori “a priori”, con l’uso del mezzo tv come consolidato della casistica, ma con l’impossibilità dell’utilizzo di identici linguaggi e stesse scenografie, pena la smentita e/o il ricatto di autori più pericolosi, incontrollabili, autorevoli.
Avvenuta l’uccisione del giornalista italiano, giunge il rapimento dei due giornalisti francesi. Si palesa subito una stupefacente somiglianza tra il video che li ritrae e quello di cui è stato protagonista Baldoni. Non sono pochi a pensare, immediatamente, che per i due c’è poco da fare. Invece no. Sostanziano uno stile, e sorprendentemente sembrano rimanere in vita: a lungo.
Intanto, iniziano le inchieste sulla morte di Baldoni: partono dall’Italia, si svolgono parallelamente anche oltreconfine, sono promosse da diversi soggetti per nulla convinti sui moventi di quell’assassinio. E’ questione di tempo: la questione della lettera di Al Sadr a Papa Giovanni Paolo II scoppia in tutta la sue contraddizioni, e al centro di tali contraddizioni c’è Scelli.
Intanto, e nel frattempo, proprio Scelli si chiama in causa, agisce, rischia, si mostra, per la liberazione delle due Simone che, dopo i francesi, sono state intanto rapite secondo un copione, sino a quel momento, inedito.
Date per scontate le pesanti incongruenze già evidenziate sulla dinamica di questo sequestro, è proprio lui che, dopo il contatto con i rapitori delle due Simone, rivela: mi hanno detto che le due donne sono state rapite perché facenti parte di una lista Usa di spie. In un’intervista del 1° ottobre scorso, però, Torretta e Pari smentiscono categoricamente che ciò sia mai stato contestato ad entrambe, durante l’intera prigionia. Buffo: chi acchiappa una spia, di solito gli fa sputar sangue fino ad ottenere l’ammissione della sua attività. Ma tant’è, e fortunatamente per le due operatrici di “Un ponte per…”.
Intanto, il rapimento delle due Simone oscura quasi completamente la vicenda Baldoni. E questo è un fatto.
Passano giorni lenti, estenuanti, in attesa di un segnale di vita di Torretta e Pari. Nessuna loro immagine, in questo caso nessun video, almeno fin quando, improvvisamente, è Scelli ad emergere da una ripresa, mentre “ritira” le due donne appena liberate, in conclusione di una giornata a dir poco rocambolesca e di grande impatto romanzesco.
Scelli parla, a quel punto, e molto. Forse troppo. Parla il Sismi, attraverso i suoi ambienti. Si scatena cioè una campagna mediatica volta a pubblicizzare la bontà del lavoro svolto. Ma i conti non tornano. I sequestratori, prima presentati, anche se “ipoteticamente”, come delinquenti comuni, divengono uomini ex Saddam Hussein: dalla loro bocca proverrebbe la storiella di un elenco di spie made Usa. Non si spiega come sia possibile che tali sequestratori, ora fotografati come uomini dell’apparato militare iracheno, dunque avvezzi a certe questioni, abbiano compiuto un’azione così ridicola, visto che un riscatto per spie ormai tecnicamente “bruciate” non ha alcuna ragione di essere nella storia dello spionaggio, a meno che i soggetti non detengano segreti controproducenti per la parte per cui lavorano. Può sembrare il caso di Simona Torretta e Simona Pari? Balle.
Qui c’è un eccesso di confidenza con chi avrebbe dovuto essere considerato un avversario, perché autore di un sequestro: e non si sta certo parlando della confidenza di Torretta e Pari con il popolo iracheno. Qui la confidenza ha altri nomi, altre ragioni, ancora tutti da scoprire. Come dire? …una questione di tempo: il tempo di un sano blackout sull’omicidio di Enzo Baldoni.
Sì, il caso Torretta-Pari è da ritenersi possibile: ma a ben vedere non risulta del tutto probabile.



I tubi in lega di alluminio

I 60mila tubi, che Baghdad voleva acquistare a Hong Kong nei primi mesi del 2001, erano fatti di una lega di alluminio (la 7075-T6) la cui resistenza sarebbe stata sufficiente alle sollecitazioni della velocità a cui gira un rotore in una centrifuga per l’arricchimento dell'uranio. Per questo, la lega di alluminio era inserita nella lista compilata dalla comunità internazionale dopo la guerra del Golfo dei prodotti che Baghdad non poteva importare. Per questo Joe firmò il rapporto allarmante del dieci aprile del 2001 finito direttamente alla Casa Bianca. Un rapporto che il giorno dopo gli esperti del dipartimento dell’Energia contestavano sulla base delle dimensioni delle componenti, troppo strette, troppo pesanti, troppo lunghe. Alcune settimane dopo, il nove maggio, sempre gli stessi esperti avevano anche scoperto e pubblicato l’impiego reale dei tubi, confermato dagli ispettori dell’Aiea e dal risultato di una loro visita all’impianto di Nasser, a Baghdad.
Si trattava di materiale usato per il motore di piccoli razzi. Le componenti scoperte dagli ispettori a Nasser, dove gli iracheni avevano ammesso l’impiego, avevano esattamente le stesse dimensioni di quelle ordinate a Hong Kong, 900 millimetri di lunghezza, 81 di diametro e uno spessore di 3,3 millimetri. Joe, tuttavia non era d’accordo. A suo avviso i tubi servivano per costruire i rotori di centrifughe di vecchio modello, di un modello messo a punto negli anni cinquanta dal tedesco Gernot Zippe. Un progetto pubblicato e disponibile su fonti aperte. Poche settimane dopo il parere negativo di un gruppo di superesperti di centrifughe del dipartimento dell’Energia. Usare questi tubi per costruire centrifughe, affermavano ad agosto, “è credibile, ma non probabile, e la produzione di razzi è l’uso finale molto più probabile di questo materiale”. Il parere viene confermato, con ulteriori argomenti, alla fine dell’anno.
Ma nel gennaio del 2002, la Cia spiega a Cheney che non vi è modo di deporre Saddam senza un intervento militare. E’ quindi necessario convincere l’opinione pubblica americana della pericolosità di Saddam e del suo regime per la sicurezza internazionale. Per questo risultano necessari, a Washington, i tubi, indipendentemente dal loro uso reale, a Baghdad.



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