Vi raccontiamo come si lavora nelle zone “calde”. I rapporti con la popolazione e con le altre Forze di polizia internazionali
Le pagine di un diario descrivono le esperienze personali del singolo, le sue sensazioni o gli stati d’animo, non c’è spazio per altre emozioni o pensieri che non siano i propri. In realtà quando si vive una esperienza forte, vera e permeante come una missione di peacekeeping internazionale le visioni della realtà si mescolano ed i pensieri si uniscono. E’ una sensazione che prova chi lavora in un posto ad alta incidenza criminale in cui ci si affida e ci si fida del collega più di chiunque altro. Le esperienze comuni tendono ad avvicinare, a creare un senso di appartenenza, nasce un gruppo, affiatato, completo, unito parafrasando il sociologo francese E. Durkehim, qualche cosa di più della semplice unione dei singoli. Non è mera retorica, è quello che succede realmente, nella vita fuori le pagine di carta stampata o fuori dalle immagini televisive, è più di un reality-show: è quello che proviamo nel fare tutti insieme ciò in cui crediamo, orgogliosi di essere peacekeepers, o più semplicemente poliziotti.
Per questo le pagine di un diario di gruppo non possono essere riempite da uno solo ma da tutti i componenti del gruppo che decidono di condividere l’esperienza.
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Non si era ancora spento l’eco, ne assopito il dolore, per le migliaia di morti nella guerra civile della Bosnia-Erzegovina quando, nelle televisioni di tutto il mondo, apparvero le prime immagini di un’altra guerra civile, combattuta, dopo dieci anni di duri scontri politici e sociali tra la minoranza serba e la maggioranza albanese in una zona pressoché sconosciuta alla quasi totalità dell’opinione pubblica mondiale: il Kosovo.
Dieci anni prima il governo serbo guidato da Slobodan Milosevic aveva deciso di cancellare l’autonomia amministrativa della regione e per questo la popolazione albanese rispose uscendo dalla vita sociale del paese. Gli albanesi del Kosovo iniziarono ad auto amministrarsi creando una rete parallela di istituzioni, come scuole ed ospedali oppure più semplicemente strutturando dei servizi riservati all’interno delle istituzioni serbe. La reazione del governo serbo in termini di repressione non si fece attendere , creando i prodromi di una Forza armata che si contrapponesse alla Polizia e all’Esercito serbi. Gli albanesi costituirono l’Uck l’esercito di liberazione del Kosovo, il quale seguì una linea politico-tattica spietata, da una parte eliminando sul fronte interno ogni contrapposizione alla linea armata, dall’altra attuando una costante serie di attacchi contro la Polizia e l’Esercito regolari.
Ne seguì una guerra dall’esito scontato grazie allo strapotere armato dei serbi: fino a che le immagini televisive dei profughi albanesi in fuga, la tenacia anti-pacifista del leader serbo ed il ricordo misto al senso di colpa del mondo per non aver fermato la guerra in Bosnia, non fece decidere al Consiglio di Sicurezza dell’Onu che per motivi umanitari si doveva attuare un’ingerenza politico-militare all’interno di una nazione sovrana.
Era la teoria, ora applicata, dell’Ingerenza Umanitaria che portò più del doppio del potenziale esplosivo di tutta la Seconda Guerra Mondiale ad esplodere sulla Serbia durante 38.000 sortite della una forza aerea Nato.
Alla fine di 78 giorni di bombardamenti, la Serbia accettò un piano di pace e le truppe Nato sotto l’ombrello di legittimazione della risoluzione Onu 1244, entrarono in Kosovo per prenderne il controllo. Queste forze denominate Kfor (Kosovo Force), dovevano assicurare l’ordine e la sicurezza pubblica nei primissimi giorni dall’inizio della missione. Gli americani sono nella regione di Gjilane e Urosevac, i tedeschi a Prizren, i francesi a Mitrovica, gli inglesi a Pristina e gli italiani a Pec. Oltre a questi contingenti che prendono il comando della regione ci sono altri contingenti meno numerosi sparsi un po’ dappertutto, i russi hanno il controllo dell’aeroporto di Pristina, i militari degli Emirati Arabi Uniti danno sfoggio dei loro carri armati M1A-Abrams sulla strada che porta a Mitrovica.
La missione denominata Unmik (United Nations Mission In Kosovo) inizia ufficialmente con la stessa risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu n. 1244 il 10 giugno 1999 che stabilisce le future linee guida della prima amministrazione ad interim, con funzioni esecutive, nella storia delle Nazioni Unite:
- attuare le funzioni basilari dell’amministrazione civile e avviare un autogoverno della regione autonoma del Kosovo;
- facilitare le attività politiche per determinare il futuro status della regione;
- coordinare gli aiuti umanitari di tutte le agenzie internazionali;
- ricostruire le infrastrutture chiave;
- mantenere la sicurezza pubblica e gestire il sistema giudiziario;
- promuovere i diritti umani, assicurare il rientro dei rifugiati nelle loro case;
- cooperare insieme ai leader e alla gente comune, ricoprendo funzioni di governo ad interim nei servizi e nella vita civile come nella sanità, economia, telecomunicazioni, servizi, giustizia e sicurezza.
Per raggiungere questi obiettivi Umnik è divisa in 4 pilastri:
1. Polizia e giustizia sotto l’egida delle Nazioni Unite;
2. Amministrazione civile sotto l’egida delle Nazioni Unite;
3. Democratizzazione e ricostruzione delle istituzioni sotto l’egida dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce);
4. Ricostruzione e sviluppo economico sotto l’egida dell’Unione Europea.
Per la fase di attuazione di Unmik, le Nazioni Unite inviano un numero imponente di funzionari civili e di poliziotti per prendere il controllo politico sociale ed organizzativo, di una regione martoriata dalla guerra civile e dal disinteresse amministrativo dei passati governanti ma, perlopiù, anche dei suoi abitanti.
Le truppe e la Polizia serba retrocedono dietro confini amministrativi chiamati boundaries mentre pian piano le truppe della Kfor e Unmik Police, iniziano il loro lavoro aiutati da centinaia di language assistants che dovranno fare da interfaccia tra la popolazione e gli stranieri, a volte visti come salvatori, altre come invasori.
Sono tempi difficili per il Kosovo, mancano l’acqua, la luce e tutti gli altri comfort tipici del nostro Paese. L’Italia come tradizione partecipa alla missione Kfor con il contingente militare più numeroso, diviso tra Esercito, Aeronautica e Carabinieri della Msu (Multi Specialized Unit) che si fanno immediatamente apprezzare per professionalità e competenza ricostruendo in pochissimi giorni ponti, caserme e persino un aeroporto tattico a Dakovica nella regione di Pec .
La missione Unmik invece, parte con un apporto inferiore di italiani divisi tra la Civil administration, reclutata presso le amministrazioni civili italiane, quella che nelle intenzioni avrebbe ricostruito la vita civile della popolazione e le Forze di polizia.
Per la prima volta nella storia italiana, un contingente della Polizia di Stato partecipa ad una missione Onu. Corre l’anno 1999.
Inizia la missione. I poliziotti taliani, tutti volontari, selezionati in breve tempo, dopo un test ministeriale ed un corso di circa un mese presso il I Reparto Mobile di Roma, vengono inviati a Brindisi al centro logistico dell’Onu, raggiungeranno il Kosovo trasportando attraverso Grecia e Albania le Toyota 4Runner, le auto della Polizia Unmik, quelle che ben presto diventeranno le famose “Coca Cola”, per la tipica colorazione bianca e rossa che ricorda la lattina della famosa bevanda.
A Pristina, capoluogo della regione, regna il caos amministrativo e sociale, i nostri poliziotti di li a poco saranno inquadrati in una Forza di polizia formata da ben 47 diverse nazionalità, compresi cinesi e fijiani: una opportunità vera di interazione con diverse realtà non solo europee.
Lo scoglio più duro, per entrare a far parte di Unmik, è rappresentato dagli esami di inglese, 5 prove scritte e orali in cui, a volte, anche qualche madrelingua fallisce, le Nazioni Unite sottopongono i futuri Ipo (International Police Officer), anche ad una prova di guida e di tiro con la pistola ma queste ultime davvero non sono un problema.
L’ambiente è da incubo, si viene accolti in una specie di ricovero all’interno di un recinto guardato a vista dai militari della Kfor inglese, Hell’s Hotel viene ribattezzato: ci sono tre bagni per oltre centocinquanta persone e quasi mai hanno l’acqua, non ci sono stanze per gli uomini o per le donne, si sta tutti insieme. Non si parla di soldi, di stipendi favolosi, per questi nostri colleghi di ogni età e grado la cosa più importante è esserci: c’è chi si è portato la tenda perché non era sicuro di trovare un hotel, chi invece ha portato con se delle scatolette di carne e di fagioli nel caso non ci fosse cibo, chi in caso di evacuazione, pensa di raggiungere il Montenegro per poi comprare una barca a vela e raggiungere le coste nazionali.
La Polizia di Stato non ha il supporto logistico dei militari, quali caserme o mense, i nostri ragazzi e ragazze devono affittare delle case private, provando a cucinare il cibo utilizzando ingredienti locali, subendo le stesse privazioni della popolazione civile come la mancanza di luce e di acqua corrente. I riscaldamenti delle case, perlopiù sono elettrici ed in Kosovo fa freddo, senza di essi è peggio.
Ma l’uomo si sa è un animale particolare, si adatta quasi a tutto, così anche gli italiani tacciati di essere dei mammoni comodoni un po’ in tutto il mondo, si adattano alla vita kosovara iniziando a farsi apprezzare dalla popolazione, implementando lo sviluppo di quel confidence building di cui tutte le operazioni di peacekeeping hanno bisogno. Gli italiani diventano famosi ed apprezzati per il loro modo di essere e di fare, sia tra gli albanesi che tra i serbi, aiutati dalla cucina e dall’arte di arrangiarsi nelle condizioni avverse. Tuttavia, nonostante lo spirito di iniziativa che ci contraddistingue, a qualcuno manca ancora moltissimo il tiramisù della mamma .
Tenendo in considerazione che la guerra era finita da poco, tutti erano consapevoli che avrebbero trovato un popolo ancora segnato dai tragici eventi e con un profondo odio verso l’etnia diversa, fosse serba o albanese così come bosniaca o rom. Immaginavano che la crisi economica tipica di ogni dopo guerra fosse la principale causa dell’instabilità politica e delle crescenti attività criminose. Realizzarono ben presto che questo ragionamento era vero .
L’incontro con una Forza di polizia internazionale si avvia sotto i migliori auspici, alcuni italiani vengono inseriti all’interno delle operazioni speciali dell’Onu nel superspecializzato Servizio Scorte, dopo un durissimo corso di tredici giorni in cui i fallimenti si aggirano intorno al 50% dei partecipanti, altri nei servizi investigativi come la Cciu (Central Crime Investigation Unit) che si occupa dei crimini a livello interregionale sul modello del Fbi statunitense di tutti i crimini o nelle R.I.Us. (Regional Investigations Units) una specie di equivalente su scala regionale delle nostre Squadre Mobili o ancora nella Tpiu (Trafficking and prostitution Investigation Unit) che combatte il traffico di esseri umani, pedofilia e prostituzione. Nonostante raramente ci siano aiuti da parte dei cittadini nel risolvere importanti casi, anche di omicidio, con le persone che memori delle atrocità della guerra hanno ancora paura di parlare, con l’aiuto dei poliziotti italiani si giunge all’arresto di decine di criminali organizzati e di criminali di guerra.
Un paio di italiani addestrano la neo fondata Polizia locale: i Kps (Kosovo Police Service) nella scuola di Vucitrn, gettando le basi per la costituzione di un servizio di polizia su standards realmente europei.
La vera forza della Polizia di Stato si vede nelle Police Stations l’equivalente dei commissariati e nelle Traffic Units l’equivalente delle sezioni di Polizia Stradale, in cui, il lavoro e l’umanità dei nostri colleghi, si fa sentire ed apprezzare. Gli italiani entrano nei cuori della popolazione locale e nelle paure dei tanti malviventi kosovari.
Dopo poco tempo gli italiani iniziano a scalare i vertici della Polizia Unmik che c’è da ricordare, è una no-rank-mission, una missione dove il grado rivestito in patria non conta ai fini delle funzioni da rivestire.
Police stations “calde” come quella di Deqani roccaforte dei guerriglieri indipendentisti albanesi dell’Uck, o di Dakovica crocevia dei traffici illeciti ai confini con l’Albania, sono comandate dall’inizio della missione ad oggi, dai nostri agenti scelti, assistenti, sovrintendenti e ispettori. La sicurezza aeroportuale è affidata quasi interamente ai poliziotti italiani quasi tutti provenienti dalle frontiere aeree dei nostri scali nazionali, anche la sicurezza stradale parla italiano, i comandanti delle Traffic Units di Gjilane, Mitrovica e Pec provengono tutti dalla Polizia Stradale. E’ un agente scelto italiano ad introdurre la prima rotatoria nella città di Pec, nonostante lo scetticismo dell’Assemblea cittadina, sindaco in testa, è riuscito a dimostrare l’efficacia di una rotatoria stradale, realizzandola con l’aiuto di un paio di volenterosi poliziotti locali e di barriere metalliche rimediate chissà dove. Dopo un mese di prove del flusso automobilistico, il progetto non solo è stato approvato ma dopo pochi mesi, cosa veramente insolita in Kosovo, la rotatoria è stata costruita. Alcune settimane dopo sono stati approvati altri progetti per altre rotatorie e parcheggi.
Un grande contributo viene dato all’Intelligence: i Regional Heads delle zone di Pec di Prizren sono italiani. Senza i nostri, la collaborazione tra la Kfor italiana e Unmik sarebbe ridotta al minimo, per questo i gli ufficiali di collegamento (Liaison officer) sono tutti italiani.
Anche settori meno legati all’investigazione vedono una supremazia italiana: la formazione è gestita da una poliziotta italiana, come capo del Ptc (Police training center), la scuola che prepara i poliziotti internazionali alla missione. Il Servizio Scorte, che fornisce protezione a tutti gli international judges e prosecutors equivalenti ai giudici ed ai pm di casa nostra, politici locali ed ai dignitari stranieri in visita in Kosovo è ora comandato da un sovrintendente in servizio presso l’Ispettorato Quirinale.
Coordinare così tanti uffici di Polizia, con cosi tante investigazioni, al fine di minimizzare i costi umani ed economici del lavoro investigativo, non è compito facile. Un commissario capo italiano, viene chiamato a comandare la Flagging Unit, il quale, mette in pratica l’esperienza nazionale al coordinamento investigativo delle Forze di polizia anche in Kosovo.
Unmik Police è sotto il controllo del Police Commissioner che è l’equivalente del nostro Capo della Polizia, su base regionale il comando è affidato ai Regional Commander due vice sono italiani.
Con un contingente che non ha mai superato le 50-60 unità, al contrario di altri contingenti molto più numerosi come quello americano (600), indiano (450), tedesco (400), o pakistano (300) la Polizia di Stato è un punto d’orgoglio, un esempio di professionalità ed abnegazione per tutti i nostri concittadini presenti in Kosovo che lavorano per le centinaia di Ong (Organizzazioni non governative), per l’amministrazione civile o per quei proprietari di ristoranti, giunti in Kosovo a cercare fortuna.
La Polizia di Stato purtroppo paga il suo contributo di sangue. L’agente scelto Marco Gavino è un ragazzo speciale. Un tipo smilzo e scattante, capello cortissimo quasi rasato, faccia rotonda con occhialini rotondi che non riuscivano a celare uno sguardo acuto ma allo stesso tempo bonario ed allegro. L’allegria di Marco è la sua caratteristica, quasi contagiosa e molti sono gli episodi divertenti che si ricordano volentieri, anche in situazioni non propriamente felici, quando, ad esempio, con il suo inglese da madrelingua correggeva prendendo in giro gli americani che, come spesso accade, commettevano errori di grammatica!
L’agente scelto Marco Gavino è morto in servizio in una sfortunata giornata di nebbia nella quale l’aereo del World Food Programme, sul quale viaggiava, si e’ fracassato su una montagna durante l’avvicinamento all’aeroporto di Pristina. Marco è il primo appartenente alla Polizia di Stato che é morto in servizio in missione all’estero come Osservatore di pace delle Nazioni Unite.
Un contingente motivato, quello italiano, nonostante le difficoltà nessuno pensa mai di abbandonare la missione, neanche per un attimo; nessuno è venuto in Kosovo in vacanza . Quando si inizia un lavoro e si ha fede in ciò che si fa, la cosa va portata a termine ad ogni costo. Le difficoltà danno la forza per continuare e poi a nessuno piace lasciare le cose a metà . Vincere le avversità fa credere in un futuro migliore per tutti, di fronte ai problemi si fa fronte comune e si va avanti .
Anche se gli stipendi guadagnati sono molto più sostanziosi di quelli percepiti in patria, non si parte in missione solo per soldi ma per ideali più alti, nel cuore di ogni poliziotto in qualunque parte del mondo, si percepisce, quasi come proprio, il contrasto all’attività eversiva. In questo ambito, i poliziotti italiani hanno avuto la possibilità di cominciare a confrontarsi anche in campo internazionale. Alla fine, è come andare a scuola, la voglia di imparare di fare nuove scoperte, spinge a ricercare un particolare corso di studi, una particolare facoltà; loro hanno scelto una università internazionale. Sperando che questo possa contribuire ad arricchire la nostra Amministrazione.
La vita nel Kosovo non è comunque solo privazioni o lavoro, sono celebri, presso tutti i contingenti di altre nazioni, i medal parade italiani, la festa che ogni contingente offre agli altri in occasione dell’assegnazione delle medaglie Onu al merito di servizio dopo almeno sei mesi di missione. Occasioni che allietano la giornata sono anche rappresentate dalle incomprensioni dovute ai differenti accenti nel parlare l’inglese. Come quando due poliziotti, uno francese ed uno tedesco intavolando una piacevole conversazione, scoprono dopo circa un’ora che uno parlava del sonar e, l’altro, rispondeva pensando alla sauna. Scoprire che molti nostri colleghi extra europei hanno le idee un po’ confuse circa le bandiere nazionali rende meno gravosa la giornata; uno di loro chiedendo a dei soldati irlandesi, credendoli italiani, se sanno parlare inglese e ricevendo la risposta tutta anglosassone: “Sometimes!” non può che scatenare l’ilarità generale.
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Questo è un estratto di un diario più ampio, scritto con le emozioni di tutti noi, un piccolo spaccato della missione in Kosovo, quella che è stata, che è e che sarà la nostra vita per più di un anno.
Ci rivolgiamo non solo a chi, con coscienza, ogni giorno, svolge il suo lavoro, nonostante le difficoltà, le carenze o i disservizi, dando il massimo ogni volta di più, orgoglioso, come noi, di fare il proprio dovere, ma anche alle nostre famiglie, spose, mariti, fidanzati che ci sostengono e ci amano dandoci il coraggio di essere al servizio della pace una volta di più.
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