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ottobre/novenbre/2004 - Articoli e Inchieste
Carceri
Occorrono soluzioni diverse
di Renato Breda

I detenuti che si tolgono la vita scelgono una terribile via d’uscita alla detenzione che li opprime. Differenziazione delle strutture: questo un primo passo per ridurre il disagio dei ristretti e di chi opera nell’istituto


Le cifre relative ai casi di suicidio in carcere sono impressionanti. Già il direttore di questa rivista, nel suo secco e drammatico editoriale del mese scorso, sottolineava questo dato (e il correlato fenomeno dell’autolesionismo) che emerge dal contesto penitenziario come la punta di un iceberg di una condizione di sofferenza e di disagio, che ha dimensioni molto più ampie. Ma il suicidio è un atto definitivo e irreparabile. Non è solo una manifestazione di sofferenza. È una terribile via di uscita che una persona decide di percorrere per porre fine a una situazione psicologica e fisica che non riesce a sopportare. Chiunque abbia a che fare con questa situazione ha il dovere di chiedersi se e quale altro intervento possibile - oltre quelli attuati - avrebbe potuto in qualche misura prevenire un gesto così disperato.
Il fatto che - stando ai dati di cui si dispone - la percentuale dei suicidi di detenuti in Italia sia minore di quella presente in altri paesi europei (ad esempio, l’Inghilterra e il Galles, e soprattutto la Francia, con un numero di suicidi che è arrivato a superare il doppio del nostro) non costituisce certo un motivo di sollievo. I suicidi nelle carceri italiane - nei dati aggiornati ai primi di agosto del 2004 - sono già stati quest’anno 32. Anche tenendo conto del fatto che il rischio-suicidio non riguarda soltanto il numero medio dei detenuti presenti negli istituti (56.000 circa), ma anche il cospicuo numero degli entrati e usciti dal carcere nel corso dell’anno (dato questo che spesso sfugge alle presentazioni statistiche semplificate più comunemente diffuse) 32 suicidi (e cioè in media uno alla settimana) rappresentano pur sempre, in termini assoluti, una realtà molto preoccupante.
Le circostanze indicate come cause di grave disagio nella vita dei detenuti sono per lo più sempre le stesse. Eppure, malgrado esse vengano continuamente citate, non se ne vede l’avvio ad una sollecita risoluzione.
Innanzitutto, viene denunciato il sovraffollamento: mediamente, 135 persone ogni 100 posti disponibili in capienza ordinaria (ma in alcuni istituti l’addensamento è molto superiore ad altri). A questo proposito, viene spesso sottolineata l’importanza dei nuovi piani di edilizia penitenziaria, che comprendono dismissioni di edifici antiquati e sedi inadatte, in cambio di nuove aree, strutture e ammodernamento di istituti recuperabili. Ma - a parte che tutto ciò, se mai sarà condotto completamente in porto, richiederà anni di tempo - è cosa diversa dall’assicurare uno sbocco decisivo al problema del sovraffollamento. Finché le strutture nuove sostituiranno quelle vecchie, i vantaggi numerici ottenuti in termini di capienza complessiva risulteranno verosimilmente molto modesti. Né - d’altra parte - c’è da augurarsi che si costruiscano ovunque altre carceri, le quali - si può immaginare - verrebbero immediatamente riempite con altre migliaia di nuovi ingressi. Nemmeno le decine di migliaia di casi ammessi alle misure alternative sono riuscite, infatti, a diminuire in questi anni il numero dei soggetti finiti in carcere. E poi - una volta che esistessero tutte queste nuove strutture - sarebbe reperibile il personale occorrente per aprirle? Se già - secondo una nota di provenienza sindacale - il Corpo di Polizia Penitenziaria ha circa 42.000 addetti (di cui “almeno 6.000 svolgono altri compiti e hanno contatti sporadici con i detenuti”), quanti altri elementi dovrebbero ulteriormente integrare un rapporto proporzionale agente-detenuto già oggi teoricamente elevato? E se invece il personale disponibile esiste, come può accadere - se è vero quanto segnalato da organi di informazione - che un istituto nuovo di zecca - come quello di Ancona - capace di ospitare in 210 celle un numero doppio di detenuti, attenda da lungo tempo di essere aperto?
Forse si dovrebbe uscire dalla logica della realizzazione ripetitiva del modello di carcere esistente per cercare soluzioni diverse, nella direzione di una differenziazione delle strutture, che renda possibile ospitare in istituti a minimo indice di sicurezza una quantità di detenuti oggi inutilmente assegnati a strutture con indici di sicurezza più elevata del necessario. Infatti, che senso può avere rinchiudere in carceri di ordinaria sicurezza (con muro di cinta alto sette metri, camminamento di ronda, triplice cancello, posti di servizio ovunque, ecc.) gli arrestati per reati di scarso rilievo, i quali - come è facile prevedere - saranno quasi tutti scarcerati dopo il primo interrogatorio o nelle fasi iniziali del procedimento? O anche quelli che sono indiziati di reati più consistenti, ma la cui custodia cautelare è determinata da temporanee esigenze processuali e non da rischio di fuga? Che senso ha contenere in strutture “chiuse” i condannati che escono tutti i giorni perché ammessi al lavoro all’esterno o alla semilibertà? E quelli che sono andati più volte in permesso e sono puntualmente rientrati? Davvero si può pensare che questi soggetti, volendo fuggire, sceglierebbero di scavalcare i muri e calarsi nottetempo oltre la cinta, anziché semplicemente allontanarsi alla prima occasione in cui si trovassero all’esterno?
Ebbene, tutti questi soggetti non sono poche centinaia, ma molte migliaia all’anno e non coincidono con le particolari (e limitate) categorie di soggetti oggi tipicamente ospitate in strutture a “sicurezza attenuata”. L’assegnazione di tali detenuti a carceri strutturate e organizzate secondo standard efficienti sotto il profilo del trattamento, ma decisamente più “leggere” sotto il profilo dei criteri del contenimento e della sicurezza (più vicine - per intenderci - al modello dei cosiddetti “Centri di permanenza temporanea e assistenza” per immigrati clandestini che alle carceri ordinarie) potrebbero costituire un fattore di ridimensionamento del sistema, e di uso più funzionale delle risorse esistenti, di evidente rilievo.
Collegato al problema del sovraffollamento sta quello delle carenze strutturali che - malgrado gli sforzi compiuti dall’Amministrazione penitenziaria per migliorare le cose - rendono ancora oggi troppo spesso la vita nelle carceri ai limiti del sopportabile. Negli istituti dove le celle anguste, i letti a castello numerosi, la promiscuità inevitabile, la decenza compromessa costituiscono una condizione ancora insuperata, l’atmosfera di degrado può diventare tale da far comprendere anche la violenza dell’impatto che essa arriva a determinare su alcuni detenuti. Certo, non si parla qui degli abitués del carcere, di coloro che entrano ed escono più volte nel corso dell’anno e sanno benissimo come comportarsi e come difendersi. Si parla piuttosto dei soggetti più fragili, che vengono immersi in un mondo per molti aspetti alienante, scandito da orari e adempimenti automatizzati che creano disorientamento e senso di solitudine; o dei soggetti che non sono fragili affatto, ma vivono in modo devastante quanto è accaduto come qualcosa che ha rovinato per sempre la loro vita e quella dei loro cari. Per tutta questa gente - molta della quale destinata magari ad essere successivamente prosciolta da ogni addebito - il carcere resta una realtà inutilmente brutale, difficile da accettare. Eppure, se soltanto si prova a prefigurare per il carcere dei modesti adeguamenti ambientali - come ha tentato di fare il nuovo regolamento di esecuzione varato pochi anni fa (d.p.r. 2000/230) - non manca mai qualcuno a ricordare che un carcere non deve diventare un “Grand’Hotel”.
Il medesimo regolamento di esecuzione - generalizzando l’applicazione di un’esperienza condotta sino a quel momento in via sperimentale presso alcuni istituti - ha introdotto una previsione organizzativa volta specificamente a prevenire i guasti che possono intervenire nel primo impatto del detenuto con il carcere, ivi compreso l’evento del suicidio (art. 23, III comma). In pratica, si prevede che un esperto dell’osservazione e trattamento effettui un colloquio con il detenuto o l’internato all’atto del suo ingresso in istituto per verificare se, ed eventualmente con quali cautele, possa affrontare adeguatamente lo stato di restrizione. Il risultato di tali accertamenti è comunicato agli operatori incaricati per gli interventi opportuni e al gruppo degli operatori dell’osservazione e trattamento. Gli eventuali aspetti di rischio sono anche segnalati agli organi giudiziari. Se la persona ha problemi di tossicodipendenza, è segnalata anche al servizio tossicodipendenze operante all’interno dell’istituto. Questo colloquio - che è cosa diversa da quello svolto successivamente dal direttore o da un operatore penitenziario da lui designato per iniziare la raccolta della documentazione biografica - ha la caratteristica essenziale di avvenire nella immediata evenienza dell’ingresso, quando ancora non è avvenuta l’assegnazione in una cella e dunque l’esperto che conduce il colloquio (che, a termini dell’art. 80 O.p., dovrebbe identificarsi in uno psicologo o un criminologo) abbia la concreta possibilità di segnalare tempestivamente quelle fragilità o quegli stati depressivi che richiedono appunto l’uso delle particolari cautele indicate dall’art. 23, e la collocazione del soggetto in una situazione ambientale per quanto possibile adatta alla sua persona. Tale servizio - che viene comunemente denominato dei “nuovi giunti” - ha, come si può intuire, un valore enorme, non solo per la prevenzione di atti di violenza o autodistruttivi (che nella maggior parte dei casi avvengono nei primi giorni della carcerazione o comunque nella fase iniziale), ma anche semplicemente sul piano dell’umanità e del rispetto della persona, che in un carcere - verrebbe da dire soprattutto in un carcere - non deve mai mancare. Naturalmente, il valore di questa previsione è rimesso alla sua sistematica attuazione. Avviene così veramente? O è una previsione realizzata poco e saltuariamente, da considerare anch’essa roba da “Grand’Hotel”?
Certo, le risposte per risolvere questo drammatico problema, non vanno ricercate esclusivamente all’interno del sistema penitenziario. Vi sono, infatti, orientamenti e decisioni, riguardanti il modo stesso della società di concepire il carcere e di farne uso, che andrebbero criticamente riveduti. Dire - ad esempio - che il ricorso al carcere per sanzionare comportamenti penalmente rilevanti deve essere considerato una extrema ratio è diventato quasi un luogo comune. La frase suona bene, e a noi la musica piace. Ma poi, se si guarda alla produzione normativa, ci si accorge che la pena detentiva viene tranquillamente prevista anche in molti casi in cui i fatti sanzionati riguardano comportamenti marginali e privi di quei contenuti intenzionalmente violenti o gravemente abusivi, che connotano generalmente la vera criminalità. Basta scorrere le norme relative ai reati elettorali, alla attività edilizia, ai beni culturali, alla tutela della privacy, al gioco e alle scommesse clandestine, agli adempimenti in materia fiscale - sia pure nella nuova disciplina (d.lgs 2000/74) seguita alla depenalizzazione del 1999 (d.lgs 1999/507) -, alla tutela del diritto d’autore, alla materia faunistica e venatoria, e così via, in ogni area normativa, per rendersi conto che l’extrema ratio è molto meno extrema di quanto si possa pensare. Oggi si può forse temere di finire in carcere anche per avere abbandonato un gatto (con tutto il rispetto per il gatto). Naturalmente, si può sempre contare sulla distanza che generalmente separa le pene edittali da quelle concretamente irrogate e magari scontate usufruendo di una misura alternativa. Tutto sta ad avere un buon avvocato e sperare che il giudice assegnato sia di ampie vedute. Ma viene spontaneo chiedersi se non sarebbe più logico individuare altre forme di sanzione - diverse dall’arresto o dalla reclusione - più adatte alla situazione su cui si interviene. A questo proposito, da molto tempo si parla di prospettive nuove - anche se collaudate da anni in altri paesi europei - come, ad esempio, il lavoro al servizio della comunità (o lavoro di interesse generale, come più comunemente viene chiamato), i programmi riparatori (che si potrebbero definire, sommariamente, di risarcimento), le pratiche di mediazione (basate - in presenza di opportune condizioni - su un’attività restitutiva stabilita con il consenso contemporaneo di reo e vittima), ecc. Si tratta di iniziative che vanno ovviamente discusse e messe a punto con riferimento specifico alla cultura del nostro Paese, ma che nulla vieta di considerare sin d’ora promettenti, visti i risultati che esse sembrano capaci di produrre in paesi europei culturalmente prossimi. La possibilità di entrare in questa nuova prospettiva - con provvedimenti decisi dal giudice del giudizio - è stata per la prima volta aperta in Italia dalla legge sulla depenalizzazione e sanzioni sostitutive del 1981, (legge n. 689); in tale ambito veniva introdotta anche la misura del “lavoro sostitutivo” delle pene pecuniarie, la cui ridotta applicazione poco tuttavia ha detto di significativo sulla capacità della misura di incidere realmente sulla giustizia penale e sulla realtà carceraria. Successivamente, nel 1993 (d.lgs. 1993/122, convertito nella legge 1993/205) in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa, è stata prevista la possibilità da parte del giudice di disporre con la sentenza di condanna la sanzione accessoria dell’obbligo di prestare un’attività non retribuita a favore della collettività per finalità sociali o di pubblica utilità. Infine, le già citate recenti norme per la depenalizzazione dei reati minori prevedono, in una serie di casi, l’applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie, che sono tuttavia ben altra cosa rispetto agli interventi socialmente costruttivi di nuova concezione, cui si è fatto cenno. Il procedere nella definizione di sanzioni originali che non costituiscano alternativa ad una pena detentiva già irrogata e posta in esecuzione, né abbiano natura di “sanzioni accessorie” (o riguardino di fatto solo reati bagatellari), ma costituiscano esse stesse forme principali e autonome di intervento, potrebbe forse produrre quei risultati significativi (ivi compresa un’incidenza deflattiva sugli ingressi in carcere) che altre iniziative non sembrano capaci di determinare.
Vi è poi il discorso relativo ai criteri che regolano l’uso della custodia cautelare in carcere. Discorso delicato e per certi versi difficile, vista la suscettibilità con cui vengono talora accolti i tentativi - anche modesti - di affrontare il tema. Come è noto, un provvedimento di custodia cautelare può essere assunto - diciamo sommariamente - solo in tre casi: se vi è pericolo di fuga, o di inquinamento delle prove, o di commissione di un reato della stessa specie o di altro reato. Naturalmente, esiste tutta una serie di condizioni relative alla esistenza di “gravi indizi di colpevolezza”, di “concreto ed attuale pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova”, di “concreto pericolo di fuga”, di “concreto pericolo” di commissione di altro grave reato, ecc. che dovrebbero rappresentare di per sé una garanzia sufficiente per un’oculata (e moderata) applicazione della normativa. Nessun’altra finalità è ammessa, nemmeno quella di indurre il soggetto indiziato o imputato a confessare e a collaborare, superando così quel rifiuto di rendere dichiarazioni o di ammettere gli addebiti che il nostro sistema penale considera invece un diritto personale che va rispettato anche a costo di non riuscire a fare giustizia piena sui fatti in causa. D’altra parte, la storia insegna che quando l’uomo si è sentito autorizzato a giustificare l’uso di cattivi mezzi con la scusa del buon fine ha combinato solo guai. È incredibile la quantità di prevaricazioni che l’uomo è capace di compiere per fare ciò che egli crede costituisca il bene comune!
Certamente, in Italia tutto avviene in modo regolare. Nessuno cerca di rendere giustizia facendo tintinnare le manette, o minacciando di buttare la chiave della cella. Nessuno fa pervenire puntualmente, alla scadenza del periodo massimo di custodia cautelare, una nuova ordinanza di custodia per un secondo fatto, ripiombando il detenuto nella disperazione, altro che ciò non appaia inevitabile. Nessuno calcola l’emissione dei suoi provvedimenti in modo da far cadere il momento drammatico dell’arresto e della carcerazione con le festività emotivamente più care, o con lo svolgersi di altri avvenimenti di particolare notorietà e rilievo, e così via. In Italia c’è per fortuna una serie di correttivi (convalide, impugnative, ricorsi, ecc.) che in qualche misura spersonalizza la procedura, rendendo via via responsabili delle decisioni autorità diverse, a nessuna delle quali in particolare può dunque essere riconnessa un’intenzione persecutoria. Ma la gente molto spesso si forma un’idea di quello che accade basandosi più su delle impressioni soggettive che sulla realtà dei fatti. Oppure trae dallo svolgimento dei fatti delle valutazioni che possono sembrare arbitrarie. Ad esempio, il fatto che un gran numero di soggetti per i quali è stata applicata a suo tempo una misura di custodia cautelare venga poi successivamente prosciolta non viene talora considerato come un segno rassicurante di buon funzionamento giudiziario, ma al contrario come la prova di un eccessivo rigore dei magistrati che procedevano nel decidere di privare della libertà persone a cui questa dura esperienza poteva forse essere risparmiata. E ciò naturalmente appare ancora più grave quando ci sono di mezzo esiti drammatici che riguardano la vita stessa di tali persone.
L’idea che vadano rivisti i criteri di applicazione della custodia cautelare in una direzione decisamente più riduttiva e garantita, può dunque forse risultare ingiustificata, ma dovrebbe comunque preoccupare gli addetti ai lavori, specie se essa non fosse diffusa solo tra gli interessati e i loro avvocati, ma circolasse in qualificati ambienti politici e parlamentari. Non è sicuramente un discorso da risolvere in poche battute. Ma sembrerebbe davvero arrivato il momento di cominciare a farlo.



Livorno -
Detenuto si impicca

Un detenuto di 36 anni, Luigi Visconti, si è ucciso il 7 settembre nella sua cella del carcere delle Sughere, a Livorno. L’uomo si è impiccato alla grata del bagno con un lenzuolo. Era stato trasferito nella prigione livornese pochi giorni prima da Grosseto.
L’uomo, originario di Marano (Napoli), era stato fermato dalla Polfer maremmana per un normale controllo e arrestato perché risultato inadempiente all’obbligo di dimora. Processato per direttissima, Visconti aveva patteggiato una pena di otto mesi di reclusione e trasferito a Livorno.
È il terzo suicidio negli ultimi tre mesi nel carcere delle Sughere.

Milano - Cardiopatico muore in cella

Cardiopatico ischemico con già un infarto alle spalle, quattro by-pass, gravemente obeso, tabagista, iperteso e diabetico: nell’estate 2001, a 52 anni, quando doveva scontarne 3 a Opera dov’era rinchiuso da 2 per ricettazione, il detenuto Pasquale Squeo continuava a ripetere di essere malato, troppo malato per restare in cella.
Inascoltato. Fino a quando, respinte dal Tribunale di Sorveglianza tutte le istanze di scarcerazione sulla base delle relazioni mediche che garantivano invece la compatibilità delle sue condizioni di salute con la reclusione, Squeo si è sentito male in carcere. È morto in ospedale il 6 settembre 2001 per una “acuta insufficienza ventricolare sinistra”.
Ora, a distanza di tre anni, la Procura di Milano incrimina i due medici specialisti chiamati dal carcere di Opera a visitarlo nei giorni precedenti.

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