I valori, le emozioni, le mode. Ma soprattutto il problema dello “stare insieme agli altri”. Del “fare qualcosa”: dalle parrocchie, al volontariato “no profit”
Si ostinano a chiamarla “generazione invisibile”, eppure i giovani della loro volontà di esserci e di determinare il futuro ne stanno dando ampia prova. Il movimento per la pace ne è un emblematico esempio che oltre a porre l’accento sulla loro coscienza sociale, evidenzia la dirompente necessità di oltrepassare la cortina di silenzio che li imprigiona. E agli adulti che li immaginano distaccati testimoni di una “generazione invisibile”, replicano con una forte spinta verso l’aggregazione e le forme più disparate di condivisione.
A fungere da luogo di incontro e di confronto permangono i classici oratori parrocchiali ma si aggiungono l’associazionismo, la politica, le attività ricreative e i centri sportivi. Ambienti che più che incarnare pulsioni fideistiche, ideologiche, formative o di intrattenimento, simboleggiano la loro necessità di condividere valori e progetti.
In effetti, ciò che i ragazzi lamentano maggiormente (il 61% secondo un’indagine Censis) è la poca trasmissione di valori e significati tra generazioni. Lacuna che tentano di colmare attraverso forme aggregative nelle quali cercano senso, orientamento e addirittura una guida (38,7%).
A confermare l’ostracismo verso i più giovani sono ancora le statistiche, da cui emerge che gli adulti non li percepiscono come un gruppo sociale omogeneo, con una propria identità, bensì come una “fluttuante massa informe che sfugge a ogni classificazione”. Lo sottolineano i dati emersi da una ricerca condotta dal Consiglio nazionale dell'Economia e del Lavoro (Cnel) secondo cui, i ragazzi e le ragazze tra i 15 e 35 anni, non sarebbero in grado di promuovere una rappresentanza generazionale di interessi. “Sembra quasi – evidenzia l’indagine – che i giovani, più che come promotori di attività consociative, se ne dimostrino semplici utenti”.
Ma in realtà, replicano i ragazzi: “Pur volendoci autopromuovere in progetti compartecipati, quali supporto troviamo nelle istituzioni? E gli spazi, chi può metterli a disposizione? “Senza dubbio, quello degli spazi è un primo ostacolo. Difficili da reperire e subordinati a costi improponibili si trasformano spesso in strumenti demagogici che, all’indomani delle elezioni, sono pressoché dimenticati.
Ma il dato di fatto è che gli spazi “istituzionali”, o laici che dir si voglia, sono scarsi e irraggiungibili e che le parrocchie, contraltare religioso dell’aggregazione giovanile, perdono sempre più colpi.
“Ovviamente – conferma Pier Giorgio Rauzi, docente di Sociologia all’Università di Trento – la realtà è ben diversa dagli anni ’50. Allora il predominio delle parrocchie era assoluto. Erano i tempi dei vecchi oratori, quelli storici, in cui il senso di appartenenza era fortissimo”. Non come oggi che – sottolinea il professore – “la consistenza numerica dei giovani che li frequenta non è neppure lontanamente paragonabile a quella di cinquanta anni fa”. Ed è intorno agli anni ’60 che questo fenomeno associativo ha iniziato il suo declino.
Il brusco ridimensionamento, ricorda Rauzi, è da collegare alla diffusione dell’automobile. “La Fiat 600 – spiega – ha prodotto uno spostamento della mobilità orizzontale delle famiglie. Mentre prima, la domenica, si andava tutti all’oratorio; con la macchina, le famiglie ebbero più libertà di spostarsi e quindi cominciarono a preferire il lago o la montagna alla parrocchia”. Da quel momento la Chiesa, pur tentando di adeguarsi ai tempi, rimase notevolmente indietro.
E’ interessante però notare che, di recente, anche le stesse parrocchie hanno subito una certa evoluzione. Mentre nel passato erano solo i giovani praticanti a frequentare gli oratori, oggi anche i ragazzi che non vanno a messa possono entrare a far parte degli scout o magari partecipare ai campi estivi. Tanto che, all’interno di quei gruppi, cominciano a intravedersi giovani che pur non aderendo al rito cattolico ne condividono valori e luoghi di socialità.
In tutto ciò, merita attenzione il rapporto che i giovani hanno con la fede. “A fronte di un esterno caotico, affannato, – si legge in un rapporto del Censis – questi giovani sembrano cercare un centro di riferimento che consenta una costruzione di sé e del proprio essere al mondo. E così, la stessa autocollocazione all’interno della religione cattolica diventa, prima ancora che appartenenza religiosa, segno di identità”. Così, “la religione confluisce in una dimensione affettivo-emozionale, diventa religione affettiva, e risponde a esigenze di ritualizzazione sociale, di conforto personale, di supporto alle scelte di vita. La confessione stessa – evidenzia la ricerca – diviene soprattutto un momento per ricevere un consiglio e la parrocchia si trasforma in un campanile, un segno di riferimento sul territorio”. Espressioni del bisogno giovanile di testimonianze forti, credibili, quotidiane.
Concretezza che ricercano anche nei luoghi dell’aggregazione laica e in cui, non di raro, le loro potenzialità sono mal accolte dagli adulti. La partecipazione dei giovani alle decisioni e alle responsabilità associative sarebbe ostacolata – secondo il Cnel – dal fatto “che gli adulti ritengono le giovani generazioni dotate di poca esperienza” (39,4%), inclini a “creare difficoltà a chi è già inserito” (20,8%). In fin dei conti, temibili “concorrenti sul piano professionale” (24,9%).
Dal canto loro, le ragazze e i ragazzi al di sotto dei 35 anni lamentano che “essere giovani è solo un pretesto per escluderli dal potere”, tanto più che “sono loro affidati solo ruoli tecnici ma non politici”. In questo contesto si inserirebbe la crisi di tesseramento dei partiti, sentiti non più come il collante che lega le istituzioni alla società civile, ma come una cerchia elitaria a sé stante. Mentre è nella cultura laica della solidarietà, del volontariato, dell’impegno nel sociale che i giovani si trasformano in una fucina progettuale.
Il volontariato si conferma quindi una persistente centralità, in grado di rispondere tanto alle esigenze aggregative dei ragazzi quanto alle forme del disagio sociale. Sono proprio i ragazzi a popolare le schiere del volontariato gratuito che nel corso degli ultimi anni, con l’erosione del welfare, si è dimostrato di fondamentale importanza.
Nei gruppi di volontariato, laici o religiosi che siano, ragazze e ragazzi trovano il modo di aprire canali comunicativi con i soggetti e le realtà del disagio più estremo. E nella dimensione del dono, del gratuito, offrono una sponda solida a chi è emarginato. In questa condizione, presumibilmente, trovano il riconoscimento che la società civile spesso gli nega.
E non a caso, il sociale per molti ragazzi si trasforma in un vero e proprio lavoro. Sono in continuo aumento le cooperative sociali che fanno dell’intervento sul disagio la loro ragion d’essere. Un buon metodo per essere di aiuto a chi ne ha bisogno e percepirne il necessario per vivere. Appena il necessario perché gli operatori sociali possono contare su retribuzioni molto basse. Le condizioni economiche in cui operano sono, infatti, poco gratificanti, per non parlare degli orari e dei percorsi di carriera. A rinfrancarli, la consapevolezza di svolgere un servizio utile alla comunità. “Gli elementi più caratterizzanti l’attività di questi operatori – secondo un’indagine Censis del 2002 su dati Fivol e Istat – si concentra non tanto negli aspetti contrattuali o nelle modalità di realizzazione, quanto nella percezione soggettiva dell’attività, nel significato che essi stessi vi attribuiscono, generando così valore aggiunto in termini di disponibilità all’innovazione e volontà di modulare la propria azione alla crescente molecolarità dei bisogni”.
E infatti, nonostante le difficili condizioni in cui i giovani operatori prestano il loro servizio, la loro soddisfazione rispetto all’attività svolta mostra dati particolarmente elevati. Le ragioni: l’utilità sociale della professione esercitata, la qualità delle relazioni con i destinatari del servizio, gli altri soggetti dell’ente e i volontari.
Dall’impegno sociale all’impegno politico la via è spesso breve. A testimoniarlo sono i progetti compartecipati che vedono uniti cooperative, associazioni e centri sociali autogestiti. Questi ultimi largamente frequentati dai giovani al di sotto dei 35 anni.
Un’interessante testimonianza sui centri sociali viene da Roma, dove una statistica un po’ datata ma quanto mai attuale indica pregi e difetti di questi luoghi di aggregazione.
A diffonderla in Internet, un’organizzazione dal nome Tactical Media Crew che da anni si occupa di scandagliare realtà aggregative del territorio come i centri sociali. “Lo spirito che ci trasporta,- si legge in un loro comunicato - non è la brama di immagazzinare sempre più informazione, bensì la ricerca del senso. Senso, risposte, comprensione/chiavi di lettura e comunicazione”. E proprio di comunicazione si parla nella loro indagine che ha coinvolto l’intero territorio romano.
“Corteggiati a sinistra, additati come esempio di degrado metropolitano a destra, distorti, strumentalizzati... si è detto dei centri tutto ciò che poteva essere detto, ‘stiracchiandoli’ di volta in volta, a piacimento dal giornalista di turno”. Così gli ideatori della ricerca descrivono questi luoghi di ritrovo e confronto.
Dall’indagine a campione, i giovani frequentatori dei centri li descrivono come “gruppi di impegno sociale”. Una categoria volutamente più ampia rispetto alla definizione più netta di “centro di iniziativa politica” che indica come sia la condivisione di progetti sociali ciò che i ragazzi e le ragazze ricercano più che legami di tipo ideologico. Tanto che tra gli aspetti positivi dei centri evidenziano: aggregazione, incontri, socialità, socializzazione, ritrovo, apertura, amicizia, partecipazione, contatti, spazi.
Un neo, però, anche questi luoghi sembrano averlo: i giovani lamentano talvolta ghettizzazione e isolamento.
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