Alla vigilia della consultazione elettorale americana i sondaggi avvicinano Bush e Kerry. Lo scontro politico ripropone l’incertezza che ha portato alla Casa Bianca l’attuale Presidente. Il peso della guerra in Iraq e dello spettro del terrorismo internazionale, ma anche della situazione economica
John Zogby, presidente e amministratore delegato di “Zogby International” nel suo paese, gli Stati Uniti, è stato soprannominato “il re dei sondaggi”. E’ insomma uno dei più autorevoli studiosi di quella strana scienza che consiste nel saper intercettare gusti, umori e passioni dell’elettorato, e capire con anticipo verso chi saranno dirottate simpatie e consenso. Quattro anni fa, per esempio, quando tutti pronosticavano una netta e facile vittoria di George W. Bush contro il candidato democratico Al Gore, lui “steccò”, sostenendo che il divario tra i due candidati sarebbe stato minimo. Lo disse in tempi non sospetti, e qualcuno accolse la “profezia” con un sorriso tra le labbra. Poi sappiamo tutti come sono andate le cose.
Oggi Zogby dice di vedere un’America ancora più polarizzata tra Bush e lo sfidante John Kerry; e le elezioni gli appaiono appese a un numero straordinariamente esiguo di indecisi: “Era dagli anni Sessanta che non si verificava una situazione del genere. Da marzo la percentuale degli indecisi è fluttuante, ma il nocciolo duro degli indecisi comunque oscilla sul 5 per cento. In genere nel periodo primavera-estate è del 20 per cento, e una settimana prima del voto si riduce al 12 per cento”.
Gli Stati Uniti insomma, nell’analisi di Zogby appaiono polarizzati in due campi, con il tradizionale centro moderato che praticamente è scomparso. Zogby la spiega la così: “E’ una divisione prima di tutto culturale. Negli ultimi due decenni c’è stata una crescita della destra cristiana, che ha portato alla ribalta la propria opposizione ai cambiamenti culturali, come ad esempio la sessualità dei gay e la trasformazione della struttura della famiglia. Questo presidente ha deciso di governare dalla destra, e di usare il suo capitale politico per rafforzare la destra. Nel fare questo ha provocato la reazione dei progressisti”.
Economia e terrorismo
Secondo i sondaggi effettuati da Zogby, i temi che stanno più a cuore degli elettori, sono, nell’ordine: l’economia, che costituisce il tema numero uno per un buon 30 per cento di elettori; seguono il terrorismo e la sicurezza interna (17-21 per cento); l’Irak, la sanità. L’Irak in particolare, spiega Zogby, ha già prodotto il suo effetto: “Ha infuriato e polarizzato gli elettori, ha già fatto quello che doveva fare, e non appare come la carta principale del gioco”.
Il candidato democratico è cattolico, e anche se si è attirato i fulmini delle gerarchie per la sua posizione favorevole al diritto di aborto, probabilmente riuscirà a intercettare buona parte di quell’elettorato. Per tradizione i cattolici negli Stati Uniti votano democratico, e comunque sono più progressisti rispetto ai protestanti, anche se ultimamente italiani, irlandesi e polacchi tendono a essere conservatori. Bill Clinton vinse con un vantaggio del 12 per cento, tra i cattolici. Gore nel 2000 era favorito, tra i cattolici, con un rapporto di 51 a 46.
Sarà dunque un’elezione molto combattuta. Sostanzialmente Bush e Kerry sono alla pari, gli indecisi probabilmente solo negli ultimi giorni decideranno per chi votare. Nel 2000 fu la Florida a tenere in sospeso l’esito del voto, poi risolto dalla Corte Suprema che assegnò la vittoria a Bush.
Questa volta l’elenco degli Stati dove i due candidati si contenderanno, letteralmente, anche l’ultimo voto, è lungo: la Florida, nuovamente; e l’Ohio, poi il Missouri, West Virginia, Pennsylvania, New Hampshire, Tennessee, Arkansas, Michigan, Wisconsin, Minnesota, Iowa, Oregon, New Mexico.
Ogni Stato, a seconda della popolazione, ha un certo numero di Grandi Elettori. Il candidato che dovesse vincere anche per un solo voto in uno Stato, porta a casa tutti i Grandi Elettori che a quello Stato sono assegnati. La somma dei Grandi Elettori, determina poi la vittoria di questo o quel candidato. Per una bizzarria elettorale, può anche capitare – è raro ma accade; e proprio alle ultime elezioni presidenziali è successo – che il candidato che ha raccolto il maggior numero di suffragi non abbia però il maggior numero di Grandi Elettori. E dunque, perde.
Stanley Greenberg, “guru” dell’immagine e mago delle campagne elettorali di Clinton e Tony Blair confida che dai suoi sondaggi emerge come il 55 per cento degli americani ritiene “fuori rotta” il paese per quel che riguarda l’economia e la politica estera; e tuttavia l’insoddisfazione per Bush non si traduce in consenso per Kerry. “Sul 50 per cento di americani che votano”, stima Greenberg, “ un terzo è già fermamente schierato con Bush, un altro terzo è a favore di Kerry.
Gli indecisi
La rimanente parte è fatta di elettori che decideranno all’ultimo momento. Una piccola fetta che andrà conquistata con un lavoro faticosissimo”. Mark Mellman, che cura i sondaggi proprio per Kerry la mette così: “Non è che il senatore non piaccia agli americani. E’ che la maggior parte dei votanti ancora non lo conosce bene”. Così fosse, sarebbe piuttosto sconfortante, se si pensa che Kerry proprio sulla sua immagine ha investito oltre 80 milioni di dollari, e si è impegnato in oltre cinquanta dibattiti pubblici; tra primarie democratiche e convention a Boston, praticamente è in campagna elettorale da quasi due anni. Più cruda l’analisi di Bill Schneider, commentatore della “Cnn”: “Kerry è considerato un bramino di Boston, lontano dai problemi della casalinga del Minnesota o dell’operaio del Kentucky”. Poi c’è quella che è una vera e propria palla al piede, l’etichetta di “flip-flop”, di banderuola che dice una cosa sostenendone subito dopo l’opposta. I repubblicani da mesi fanno una martellante campagna, su questa vocazione all’ “indecisione”.
Chi mostra di non nutrire dubbi sull’esito delle elezioni è John Podhoretz, editorialista del “New York Post”, uno di quegli intellettuali conservatori di quella galassia comunemente definita “neo-cons”. “Se I democratici avessero scelto un candidato come il senatore Dick Gephardt, cioè uno a destra di Bush sulla Guerra e alla sua sinistra sulle questioni sociali, saremmo nei guai. Con Kerry tutto è più facile. Bush con tutti i suoi difetti, sa quello in cui crede; mentre Kerry un giorno direbbe qualcosa all’esercito, e due settimane dopo smentirebbe se stesso. La brillantezza della campagna repubblicana è stata insistere sui suoi voltafaccia più che sul suo essere liberal”.
Quasi a confermare quanto dice Podhoretz, arriva un’intervista di Bush al quotidiano “Usa Today”: “Ritengo che gli elettori non mi negheranno un secondo mandato, anche se non sono d’accordo con la Guerra in Irak. Mi hanno visto prendere decisioni, mi hanno visto in tempi difficili, mi hanno visto piangere, mi hanno visto ridere. Sanno chi sono e penso che siano contenti di sapere che io non cambio principi o posizioni secondo i sondaggi”.
Sia fondata o meno questa ostentata fiducia, un fatto incontestabile è che Bush riesce a catalizzare passioni radicali. Artisti, scrittori, cantanti, per tradizione si schierano a fianco di uno o l’altro dei candidati, per esserne supporter. Accade naturalmente anche in questa campagna, ma i toni sono particolarmente accesi. Lo scrittore Norman Mailer, tradizionalmente democratico, si scaglia pesantemente contro Bush: “Una delle facce più vuote d’America. Ha la profondità di uno sputo su un sasso…E’ una collezione di disastri per il paese”, ha dichiarato al settimanale “New York”. Ecco scendere in campo mezza Hollywood, non c’è solo il regista Michael Moore con il suo “Fahrenheit 9/11”. Gli attori Matt Damon, Scarlett Johansson e Martin Sheen, e registi come Bob Reiner e Doug Liman, sono impegnati nella realizzazione di una decina di spot televisivi anti-Bush. Hollywood non ha mai amato molto i candidati repubblicani. E non ci sono più i John Wayne, i James Stewart, i Frank Sinatra, disposti a sostenere la causa dell’Old Grand Party.
L’elenco dei duri
Dei “duri” sono rimasti solo il vecchio e malato Charton Heston, e pochi altri. La maggior parte dello star system ha abbracciato Kerry. Si va da Bill Crystal a Robin Williams; da Whoopi Goldberg a Barbra Streisand; da James Lee Curtis a Robert de Niro; e poi: Kevin Costner, Meg Ryan, Steven Spielberg, Meryl Streep, Jessica Lange, Warren Beatty, Ben Affleck, Leonardo Di Caprio, Jack Black, Jennifer Aniston. Ancora: a fianco di Kerry (mentre quattro anni fa si erano schierati con l’indipendente e senza alcuna possibilità Ralph Nader), troviamo anche Peter Coyote, Susan Sarandon, Paul Newman. Un “Big Carnival” che porta anche fiumi di denaro. Per dire: nel corso di un ricevimento alla Disney Hall di Los Angeles, sono stati raccolti cinque milioni di dollari per la campagna di Kerry.
Se si votasse secondo logica, Bush avrebbe già perso prima ancora di cominciare a correre. Sul fronte dell’occupazione, peggio di lui fece solo Herbert Hoover, travolto dalla crisi che squassò il paese nel 1929 e per questo sonoramente sconfitto nel 1932. Bush di posti di lavoro ne ha persi circa un milione e mezzo, dal giorno della sua elezione. Su questo fronte sembrava ci fosse una ripresa, ma i dati degli ultimi mesi non sono comunque confortanti. Per invertire la rotta sarebbe stato necessario che da luglio a settembre si creassero ogni mese 380mila nuovi posti di lavoro; a luglio, ultimo dato disponibile, si era ben lontani da questo traguardo: appena 32mila.
Ronald Reagan trionfò due volte, perché durante i suoi comizi e dibattiti poteva dire: “Ecco quello che abbiamo fatto”. Bush deve invece ripiegare su un ben più modesto: “Vedrete che ce la faremo”.
L’economia però, pur se importante, non è il fattore determinante. Gli studiosi e gli esperti dei processi elettorali avvertono che alla fine un presidente viene scelto per un mix di ragioni. Certo, molti si chiedono: “Stiamo meglio o peggio di Quattro anni fa?”, e sulla base di come rispondono, votano; ma altri privilegiano quello che possiamo definire: character: la capacità del candidato, valutata a livello epidermico e istintuale, di incarnare le tipiche (o presunte tali) virtù americane. Reagan, per fare un esempio, è riuscito come pochi a realizzare questo feeling tra lui e l’elettorato, che non gli ha mai fatto mancare generose aperture di credito. Stessa cosa si può dire per Clinton. Al contrario, Richard Nixon, chiamato nel 1968 a uscire dalla sabbia mobile del Vietnam (e, ricordiamo, fu lui a chiudere quella Guerra), non è mai stato troppo amato dagli americani, e alla fine venne cacciato più indegnamente di quanto probabilmente meritasse. “Il modo migliore per ragionare intorno alla politica americana è capire l’appeal di Bush”, suggerisce David Frum, analista politico dell’American Enterprise Institute, e, nel biennio 2001-2002 assistente speciale e autore dei suoi discorsi. “Pensare la politica come una lotta tra il centro del paese e la periferia. I democratici sono il partito dei più ricchi e dei più poveri, i repubblicani della classe media; i democratici prendono il voto dei laureati e di quelli che hanno abbandonato la scuola dell’obbligo, i repubblicani di quelli che hanno la maturità o poco più. I democratici sono più forti nelle sue coste, i repubblicani negli stati di mezzo; i democratici prendono il voto di chi non è sposato e non va in chiesa. I repubblicani hanno venti punti di vantaggio tra i praticanti religiosi e le coppie sposate con figli. I democratici sono più forti tra chi si sente in qualche modo diverso dagli altri, i repubblicani tra chi si sente un tipico americano. E’ questa l’America che sente il fascino di Bush. E’ a quell’America che lui si appellerà. Finora non ha mai mancato di rispondere alla sua chiamata”.
Come sia, in campo repubblicano non mancano le contraddizioni. Bush, per esempio, è contrario alla ricerca sulle cellule staminali, e ha bloccato i finanziamenti statali per le ricerche in questo senso (per fortuna non può bloccare quelli privati). Una decisione che è stata pesantemente criticata da Nancy Reagan, che, avendo vissuto in prima persona il dramma del marito Ronald per anni malato di Alzheimer, è invece favorevolissima alla sperimentazione e alla ricerca sulle staminali. Altri scogli per la Casa Bianca: gay e aborto.
“Io e Lynn”, dice il vice-presidente Dick Cheney, “abbiamo una figlia gay, e questa è una tematica che conosciamo nella nostra famiglia. Riguardo alle relazioni sessuali, la mia opinione è che libertà significhi libertà per tutti. Le persone dovrebbero essere libere di avere il tipo di relazioni che desiderano”. Ben diversa la posizione di Bush. Su questo tema, ha detto a “Usa Today”, ha discusso con alcuni amici gay un emendamento alla Costituzione che vieti i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Su questo punto e’ dunque in aperto contrasto con Cheney, che infatti non lo appoggia in questa battaglia. Così Bush ora si limita a dire: “Incoraggerò un dibattito che non spacchi la gente in due campi e non semini disprezzo per nessuno”. Dovrà comunque fare i conti con la Log Cabin Republicans, la federazione di repubblicani gay e lesbiche guidata dall’italo-americano Patrick Guerriero, che ha colto la palla al balzo per premere sulla leadership repubblicana controllata dalla destra fondamentalista, che vuole vietare qualunque forma di riconoscimento alle coppie gay, nel presupposto e sancire a livello costituzionale che il matrimonio è riservato alle coppie eterosessuali.
Repubblicani moderati
L’ala moderata dei repubblicani si sente sempre più messa in ombra. Durante le primarie repubblicane i rappresentanti della destra fondamentalista hanno attaccato con veemenza i moderati. Eppure sono proprio i moderati e non i fondamentalisti, spesso, ad aver consentito ai repubblicani di vincere. E’ accaduto in California, dove Arnold Schwarzenegger è diventato governatore di uno stato tradizionalmente democratico; ma anche in Florida, dove Arlen Specter è stato eletto senatore sostenuto dai votanti del fronte pro-aborto. Favorevoli sono anche altri esponenti di spicco del fronte repubblicano, come l’eroe del Vietnam John McCain, l’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani e quello attuale, Michel Bloomberg, il governatore dello stato di New York, George Pataki. Un recente sondaggio, del resto, rivela che il 73 per cento dei repubblicani sostiene che lo Stato non dovrebbe interferire con le scelte intime della donna come appunto l’aborto. La posizione di Bush è invece molto più rigida e proibizionista.
“Gli americani sono tenuti insieme soltanto da idee, da idee contrastanti di opportunità e uguaglianza, e alla fine da una cultura della speranza”, ha scritto Theodore H. White, in quel “piccolo” classico ancor oggi utile da leggere che e’ “The Making of the President”.
Bush, da buon conservatore americano, è alfiere di una società che concede “opportunità” e vede con sospetto e diffidenza ogni cosa che faccia pensare a governo e statalismo. Kerry, più prudente, gioca la carta di una maggiore redistribuzione delle risorse disponibili, e corteggia quella classe media che nonostante il boom reaganiano e gli anni d’oro di Clinton, è riuscita sostanzialmente a fare fronte agli impegni lavorando di più; e ora ha il fiato corto. A Kerry Clinton ha dato un consiglio: “Se vuole vincere, si deve tenere lontano dalla war culture”.
Con questo termine si indica la divisione tra i socialmente progressisti e i conservatori, tra permissivismo e morale un po’ bacchettona, tra libertà totale del singolo e tradizione.
Basterà per vincere un Bush sempre più convinto della giustezza di proposte riassunte in parole d’ordine all’insegna dell’anti-statalismo, del neo-liberismo e dalla possibilità di procurare agli Stati Uniti nuova prosperità e sicurezza? “Let America be America again”, l’America possa tornare ad essere l’America”, dice Kerry. Sicurezza, forza e prosperità, risponde Bush, sottolineando che la sicurezza costituisce il perno di tutto il sogno americano.
“La conquista del seggio presidenziale”, annotava White, “richiede che si provochino clamori e clangori, che si sollecitino le emozioni, che si faccia appello al passato tribale di tutte le comunità americane. Laddove invece l’esercizio del potere presidenziale dev’essere strumentato dalla ragione, dall’analisi della realtà, quale può apparire solo agli occhi di chi la contempli dalla scrivania presidenziale, a condizione che il Presidente induca altri uomini a scorgere questa realtà quale a lui solo appare”.
Valeva negli anni Sessanta, quando White raccontava della Camelot di John F. Kennedy. Ma quarant’anni dopo, le cose non sono poi cambiate di molto, e comunque non nell’essenziale.
|