È stato elaborato un apposito Manuale finalizzato al “benessere organizzativo” delle strutture pubbliche, avviate ormai a mutamenti epocali
La recente Direttiva del ministro della Funzione Pubblica sulle misure finalizzate al miglioramento del benessere organizzativo nelle Pubbliche Amministrazioni è di grande interesse nel contesto dei mutamenti epocali che in misura crescente interessano il mondo del lavoro.
Alla Direttiva è collegato il “Manuale applicativo” che il ministero della Funzione Pubblica ha elaborato avvalendosi di studiosi qualificati; è stato predisposto mediante la somministrazione di appositi questionari presso 20 uffici, di cui 8 Comuni, 7 unità organizzative ministeriali e 5 strutture dell’Inpdap. Di queste realtà, in due casi è stato coinvolto il 30% del personale mentre nelle altre tutti i lavoratori. La Direttiva è documento con forte valore programmatico per cui averla correlata con alcune risultanze sul campo ne amplifica le caratteristiche positive.
La premessa - che è poi il tema dominante della Direttiva - si riassume nell’intenzione di far attivare le Pubbliche Amministrazioni, oltre che per raggiungere obiettivi di efficacia e produttività, anche per “realizzare e mantenere il benessere fisico e psico-fisico delle persone, attraverso la costruzione di ambienti e relazioni di lavoro che contribuiscano al miglioramento della qualità della vita dei lavoratori e delle prestazioni”.
Il cambiamento di impostazione a livello generale trova ampia giustificazione nel Manuale, proponendo in generale il superamento dell’approccio “centrico” dell’azienda e riallacciandosi alle previsioni, già formulate, ma inattuate nel d.lgs n. 626/94 in tema di benessere psichico.
La Direttiva individua le finalità correlandole con il disposto dell’art. 7 del d.lgs 165/01; nell’ambito del processo di cambiamento della Pubblica Amministrazione si valorizzano in particolare le risorse umane e si prevedono le motivazioni, le indicazioni da seguire e gli strumenti necessari per la sua attuazione.
Le motivazioni evidenziano la necessità della diffusione di una “cultura della partecipazione” al posto della “cultura dell’adempimento”. Le indicazioni da seguire in vista di un accrescimento del benessere organizzativo offrono un ventaglio di possibilità che comprende le caratteristiche dell’ambiente di lavoro, la chiarezza degli obiettivi e la coerenza tra enunciati e pratiche organizzative, il riconoscimento e la valorizzazione delle competenze, la comunicazione interorganizzativa circolare. Inoltre sono previste la circolazione delle informazioni e la prevenzione rischi e infortuni intese come impegno dell’amministrazione ad informare in modo completo i dipendenti.
Il tutto si svolge in un clima relazionale “franco e collaborativo”, con scorrevolezza operativa, giustizia organizzativa ed apertura all’innovazione; l’Amministrazione per altro si impegna a controllare i ritmi del lavoro per prevenire lo stress ed a gestire la conflittualità.
Il processo per la rilevazione è articolato in fasi per la raccolta dei dati fino alla definizione del processo di miglioramento ed alla sua verifica. Le organizzazioni sindacali vengono consultate prima dell’attuazione del piano di miglioramento che può riguardare:
-struttura e ruoli organizzativi;
-innovazione tecnologica;
-processi organizzativi;
-cultura organizzativa;
-politiche di gestione e sviluppo delle risorse umane;
-comunicazione interna ed esterna;
-modifica di norme e procedure.
Gli indicatori di benessere/malessere che riporta il Manuale sono senz’altro lo specchio, pur con i limiti del campione considerato, della situazione esistente nel complesso rapporto tra i lavoratori ed il loro lavoro; in particolare deve far riflettere l’altissimo riconoscimento nei punti proposti con le formulazioni “sensazione di contare poco” e “sensazione di non essere valutato adeguatamente”.
Ciò si correla con l’elevato grado di identificazione nel punto “monotonia-ripetitività” che i dipendenti ministeriali hanno collocato al primo posto tra le caratteristiche dei compiti loro affidati.
La Direttiva ed il Manuale sono documenti di notevole spessore, ben coordinati, impostati con criterio propositivo oltre che scientifico; spiace che i sindacati siano relegati ad un ruolo quasi “notarile” in questo procedimento innovativo, perché senza dubbio potrebbero portare contributi di studio e ricerca di notevole rilievo.
Già molti autori e commentatori hanno segnalato un altro aspetto da chiarire, e cioè la mancanza di una rilevazione totale ed aggiornata circa la conformità degli uffici pubblici alle disposizioni sulla sicurezza: in assenza di tutti i requisiti previsti dal d.lgs 626/94 infatti sarebbe inopportuno passare allo stadio successivo, pure necessario, della “costruzione” di ambienti di lavoro consoni alla nuova filosofia del lavoro. Le difficoltà di attuazione del 626 spingono ad ipotizzare una vita difficile per le innovazioni in genere e segnatamente ogni volta che devono coesistere con un finanziamento specifico.
Stupisce anche l’eccesso di fiducia che si respira in genere nella Direttiva, soprattutto se si pensa alla realtà attuale che, in molti casi, pare piuttosto legata a principi tayloristi. L’aspetto del rapporto con il lavoro sembra davvero idilliaco: lo stesso Manuale nel campione di analisi rileva indicatori di malessere tali da suggerire un’operazione di recupero delle condizioni di normalità prima di avviare qualsiasi progetto di miglioramento. Lo stesso spoil system che disciplina l’attività dei grand commis statali pare contrastare con le linee guida di riferimento della Direttiva: è impensabile che lo stile collaborativi possa convivere con le esigenze contrattuali dei singoli. Allo stesso modo sembra difficile, nel sistema di lavoro contemporaneo, quel guizzo di fantasia che viene proposto e che pure sarebbe il sale per l’insipida vita quotidiana ma che certo è arduo nell’archivio o nella procedura di uno dei tanti uffici della burocrazia italiana.
E poi esiste una nutrita schiera che potremmo definire trasversale perché riguarda tutti i livelli del lavoro: si tratta di coloro che gestiscono in modo personalizzato l’incarico, qualunque esso sia.
Probabilmente in questi casi il cambiamento, oltre che auspicabile, dovrebbe essere imposto, perché non è possibile gestire in modo personalizzato la cosa pubblica, anche se apparentemente con un atteggiamento positivo: chi non si è imbattuto almeno in uno statale che pronuncia la famosa frase “….ora l’ufficio funziona, ma quando me ne andrò io!”
La Direttiva dovrebbe trovare un primo campo di attuazione nella direzione di una chiarificazione del rapporto uomo/lavoro, perché in esso si trova una delle chiavi interpretative più qualificanti rispetto al lavoro in generale. Il Manuale tratta con grande attenzione questo aspetto, ma vi sono alcuni argomenti che meritano approfondimenti molto dettagliati.
A titolo di esempio si può citare il problema del tempo del lavoro, pur con i progressi che in tempi recenti hanno portato ad un sostanziale recupero della dimensione umana rispetto all’impegno lavorativo. A ciò si correla la questione della ridistribuzione del lavoro, in ragione dei cambiamenti in corso nella struttura intrinseca del lavoro e delle innovazioni tecnologiche.
Ancora siamo molto legati alla quantità del lavoro, mentre la Direttiva pare offrire l’opportunità per un salto anche sotto il profilo qualitativo in questo senso: del resto Keynes nel 1935 prevedeva per il futuro una settimana lavorativa di 18 ore.
In conclusione è da auspicare che la Direttiva serva in prima istanza come elemento di acquisizione della coscienza della posizione lavorativa dei singoli (aspetto spesso trascurato e fonte di incomprensioni), e che in questa dinamica si inserisca attivamente il mondo sindacale andando a recuperare le sue radici culturali e politiche.
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