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agosto/settembre/2004 - Articoli e Inchieste
Mafia Usa
Cugini & Padrini
di Valter Vecellio

Dopo una fase di declino, le “famiglie” americane si stanno ristrutturando, puntando sul basso profilo, e su nuovi rapporti con Cosa nostra italiana


Dissanguati dai potenti colpi che la magistratura e l’Fbi hanno inferto alle famiglie mafiose negli Stati Uniti, i boss di Cosa nostra d’oltreoceano hanno avviato quella che si può definire una vera e propria campagna “acquisti” di “soldati” in Sicilia. Un fenomeno, dicono gli investigatori americani, che riguarda le “famiglie” di New York, Chicago e Filadelfia. Le nuove reclute provengono soprattutto dalla provincia di Palermo. Tutte le inchieste giudiziarie parlano di un sostanziale declino delle famiglie storiche di New York, la cui leadership è stata decimata da arresti, “pentimenti” e defezioni; questo spiegherebbe la campagna di reclutamento: “Le organizzazioni mafiose americane”, spiega l’investigatore Doug LeVien, “sono interessate ad avere ‘soldati’ siciliani, che vengono ritenuti più sicuri e meno inclini a collaborare con gli investigatori”. Del resto, perché no? Cosa nostra americana e la mafia siciliana hanno sempre avuto, storicamente, legami strettissimi: operativi e di parentela.
Una conferma viene dall’Italia. L’ex boss mafioso Antonino Giuffré, ora collaboratore di giustizia, proprio su questo aspetto è stato interrogato lungamente dagli uomini del Federal Bureau of Investigation: “I siciliani vengono negli Stati Uniti; e gli americani vengono mandati in Sicilia, per imparare a diventare uomini d’onore”. Si sa per esempio che uomini affiliati al clan dei Bonanno sono arrivati in provincia di Trapani negli ultimi anni per seguire le “lezioni” dei capimafia siciliani. “Li mandano in Sicilia”, rivela sempre Giuffré, “per fargli fare pratica: perché in America non c’è quell’attaccamento ai lavori, non c’è più rispetto. Allora li mandano in Sicilia per formarli e per far loro capire cosa vuole dire diventare uomo d’onore, perché la mafia americana è diversa ed ha bisogno delle nostre qualità. Se la mafia degli Stati Uniti manda dei manovali a specializzarsi, si vede che ne ha bisogno: perché fa acqua e ha necessità di persone più forti, non di dilettanti allo sbaraglio. Hanno bisogno di uomini d’onore preparati a cui bisogna far prima il doposcuola per poi inserirli nei ruoli che verranno loro assegnati”.
Seguiamo la “lezione di mafia” impartita da Giuffré: “Non c’è cosa più pericolosa di un mafioso ignorante nel suo settore. Non parlo come cultura, perché non si pretende che deve essere un universitario o un laureato. Ma deve essere preparato nelle questioni di mafia. I capimafia questo lo hanno compreso e per questo motivo, sapendo che nel trapanese c’è un buon laboratorio di preparazione, hanno avviato una sorta di corsi professionali”.
All’Fbi Giuffré ha anche spiegato come vengono inseriti nelle famiglie mafiose americane gli emigrati siciliani: “Persone di Cosa nostra quando arrivano in America vengono subito agganciate e usate perché hanno una buona preparazione, soprattutto dal punto di vista militare. Ma anche per un altro fattore importante: la riservatezza. In Sicilia è arcinoto che i mafiosi americani ‘parravano assai’ (parlavano troppo; ndr). Oggi la mafia per sopravvivere deve tornare indietro e cercare di correre ai ripari”.
Difficile dire chi comanda davvero la criminalità organizzata oggi a New York. I gruppi criminali sono tanti, almeno quante sono le etnie: ci sono i cinesi e i portoricani, i colombiani e i nigeriani. Forse è presto per dire: “C’era una volta Cosa nostra in America…”. Di sicuro non è più la potente organizzazione che spadroneggiava non solo a New York, ma anche a Hollywood, Las Vegas, Atlantic City, Miami, Filadelfia, Chicago, Detroit; l’organizzazione che controllava i sindacati, estendeva i suoi tentacoli in Canada, centro e sud America; i cui boss erano personaggi “mitici”: Carlo Gambino, Vito Genovese, Gaetano Lucchese, Joe Colombo, Joseph Bonanno... Parlavano uno slang nato con la prima emigrazione: un curioso miscuglio tra l'americano e l'italiano. Senza sporcarsi mai le mani con la droga, avevano messo su un impero che per fatturato era di gran lunga superiore a quello della General Motor e della Ford messe assieme.
Poi le cose sono cambiate. Sono spuntati i “pentiti”, ma soprattutto le autorità americane hanno cominciato a fare sul serio, mettendo a punto strumenti legislativi efficaci come il Rico, la legge antimafie. Cosa nostra, per la prima volta nella sua lunga storia, è stata costretta a indietreggiare, e ha conosciuto momenti difficili.
I Gambino, per esempio, da quando il boss John Gotti è stato condannato all'ergastolo (e in carcere è morto, ucciso da un tumore), non sono riusciti a trovare un vero capo. La Commissione di Cosa nostra aveva indicato Nicholas "Little Nick" Corrozzo quale successore di Gotti. Ma non ha avuto neppure il tempo di guardarsi attorno: i giudici della Corte di Appello di Miami lo hanno condannato per associazione a delinquere. Non è andata meglio al figlio di Gotti, John jr., costretto a dichiararsi colpevole e condannato a sette anni di reclusione per estorsione e associazione a delinquere.
“Non bisogna però fare l’errore di sottovalutarli”, ammonisce Louis Freeh, ex direttore dell’Fbi, e quand’era magistrato, per anni stretto collaboratore di Rudolph Giuliani, al tempo del processo per la “Pizza Connection”. Cosa nostra, dice Freeh, resta sempre un’organizzazione fortemente radicata in America, e temibilissima”.
Di certo è mutato il suo comportamento: da sfrontato e arrogante, come ai tempi di Gotti, ora l’atteggiamento si è fatto furtivo e timoroso. Un riconoscimento, forse, della difficoltà in cui si trova. Qualche avvisaglia, dicono gli osservatori di cose mafiose, la si poteva cogliere quando i due fratelli Giovanni “John” e Giuseppe “Joe” Gambino, nipoti del grande Carlo, avevano ammesso di essere mafiosi e patteggiato una condanna a quindici anni di carcere.
Per la prima volta, davanti a un giudice federale due boss avevano ammesso di essere alla testa di una organizzazione che controlla gran parte della città di New York, di essere trafficanti di eroina e cocaina, e di aver prestato denaro a tassi di usura. I due fratelli avevano anche ammesso di aver ucciso un affiliato che aveva manifestato l’intenzione di tradire l’organizzazione e di aver corrotto alcuni giurati di un processo a un mafioso della loro famiglia.
Per la prima volta due esponenti di primo piano della mafia italo-americana avevano firmato una dichiarazione di colpevolezza. Fino a quel momento, ben altri erano stati i comportamenti dei boss; come Gotti, che aveva sempre recitato la parte del duro, respinto le accuse, vestito i panni del capo anche di fronte ai giudici, beccandosi così una condanna all’ergastolo. Oppure fare come aveva fatto Sam “The Bull” Gravano, underboss di Gotti, che aveva scelto di “tradire” e collaborare con gli investigatori in cambio dell’immunità e un programma federale di protezione riservato ai testimoni.
“Negli Stati Uniti”, avverte il sergente Pietro Poletti del Criminal Service canadese, “si sono vinte molte importanti battaglie, ma non la guerra. Bisogna mantenere inalterata la pressione investigativa contro Cosa nostra”.
Ma come si spiega questo momento nero della mafia americana? “Negli ultimi anni, quando interi gruppi mafiosi sono finiti sotto inchiesta e poi processati e condannati”, spiega Ronald Goldstock, ex direttore dell’Organized Crime Task Force dello Stato di New York, “i posti vuoti sono stati occupati da personaggi senza spessore e senza esperienza criminale. Il risultato è che si sono fatti individuare subito, oppure hanno abbassato il livello degli affari criminali”.
Segni del momento di crisi in cui versa l’organizzazione mafiosa nel suo complesso, a detta degli esperti, sono per esempio l’eliminazione del rappresentante di Cosa nostra nel Sud dell’Ontario John Papalia e del suo braccio destro Carmine Barillaro; o l’uccisione nel Bronx di Gerlando Sciascia, capodecina dei Bonanno, e considerato il trait d’union con la mafia di Montreal. Per molti osservatori, questi delitti rivelerebbero un crescente malessere serpeggiante tra le due organizzazioni, quella statunitense e quella canadese, un tempo considerata “la stessa cosa”. “L’influenza di Cosa nostra in Canada non è più quella di un tempo”, dice Poletti. “Si continua a fare riferimento alle “famiglie” americane per i grossi problemi, ma c’è molta più autonomia”.
Conferma Ben Soave, capo della task force contro il crimine organizzato in Canada: “Una volta, per esempio, i Magaddino di Buffalo erano potentissimi, e in Ontario nessuno osava metterli in discussione. Oggi invece molte cose sono cambiate, e i dirigenti attuali non hanno uno spessore criminale paragonabile a quello del vecchio boss Stefano Magaddino”. Le famiglie di Buffalo hanno perso anche il controllo che avevano sul sindacato, che per anni era stato un centro del loro potere.
Due sono le famiglie di Cosa nostra che meglio hanno resistito, negli ultimi dieci anni, alle ondate di arresti, “pentimenti” e carneficine provocate dalle faide e dalle lotte intestine: i Bonanno e i Genovese.
I Genovese un tempo erano la “famiglia” più potente d’America. Secondo gli esperti, ancora oggi occupano un posto di rilievo, nonostante da anni subiscano pesanti colpi dagli investigatori. I Genovese hanno perso il loro boss, Vincent “Chin” Gigante, condannato per una serie di omicidi e tentati omicidi. Pur di evitare la resa dei conti con la giustizia, Gigante, ex braccio destro di Vito Genovese, da tempo andava in giro per Little Italy in pantofole, pigiama e vestaglia, borbottando frasi sconnesse e incomprensibili. Ma secondo gli investigatori dell’Fbi Gigante, condannato a dieci anni di carcere, non è assolutamente un pazzo. Cerca solo di allontanare da sé sospetti e attenzioni degli investigatori, e il peso delle accuse che gli sono piovute addosso dalle involontarie confessioni di tanti suoi “soldati” sorpresi a chiacchierare di affari terribili da un nugolo di microspie.
Dieci anni fa i Bonanno erano dati per spacciati. Perfino l’Fbi,ormai convinta che la “famiglia” fosse allo sbando, condannata a una crisi irreversibile, aveva sciolto l’Unità speciale di controllo di ogni mossa e ogni affare dei suoi uomini di punta.
I successori del vecchio patriarca Joseph Bonanno detto Joe Banana, non si erano rivelati all’altezza della situazione; giorno dopo giorno avevano ceduto terreno ai boss delle altre “famiglie”, i Gambino, i Colombo, i Lucchese, i Genovese. Ma evidentemente era prematuro stendere l’atto di morte della cosca. L’errore di valutazione degli investigatori di fatto ha aiutato i Bonanno, meno colpiti delle altre “famiglie” da “pentimenti” e defezioni. Il fatto di non essere più nel centro del mirino, ha consentito loro di potersi riorganizzare con tranquillità. E sono tornati così a essere uno dei gruppi più potenti e pericolosi.
Artefice della “rinascita”, un tipo all’apparenza dimesso, non gli daresti alcun credito. Basso, tarchiato, corpulento, si chiama Joe Massino. Ha preso il controllo dei Bonanno a partire dal 1993, appena uscito dal carcere, dove aveva scontato una condanna per estorsione. Soprannominato “The Ear”, l’orecchio, per la sua passione per l’elettronica e la sua capacità di utilizzare gli strumenti dell’hi-teach per difendersi dalle intrusioni e dai tentativi di controllo degli agenti federali, Massino non ama le luci della ribalta, ha sempre voluto mantenere un basso profilo. Adora l’omertà, detesta fare sfoggio di abiti eleganti, è insomma l’opposto di quel che era John Gotti, il boss dei Gambino. Anni fa, intervistato dal “New York Times”, ha risposto, naturalmente, di non sapere neppure cosa sia Cosa nostra; e chi lo conosce assicura che era furibondo il giorno in cui il tabloid “Daily News” gli dedicò la fotografia in prima pagina e un ampio servizio sulla sua vita e le sue attività. Sul suo capo, gli investigatori hanno rovesciato una quantità impressionanti di accuse, le più gravi di essere responsabile di ben sette omicidi: tra gli altri quelli di due gangsters colpevoli di aver fatto entrare nella “famiglia” l’agente dell’Fbi Joe Pistone alias Donnie Brasco, garantendo per lui
“Big Joey”, come lo chiamano gli amici, gestisce un ristorante-catering che usa come copertura per le sue attività illecite. “Big Joey” dice Pistone, “è l’ultimo dei veri gangster. Non gli piace fare scena, adora la sua zona di sicurezza”.
Massino rischia svariati ergastoli. È il 1976 quando Pistone riesce a infiltrarsi nella famiglia Bonanno. Un lento, delicato, importante lavorio, che alla fine viene premiato: ben centoventi mafiosi finiscono in carcere. A inchiodare Massino quello che un tempo è stato il suo amico più fidato, il cognato Salvatore Vitale, soprannominato “Good Looking Sal”.
Vitale, ora collaboratore di giustizia, conosce Massino fin da quando i due erano ragazzi; la sorella di Vitale, Josephine, è la moglie di Massino. Entrambi erano stati inquisiti e processati per alcuni omicidi nell’ambito della sanguinosa guerra intestina del 1981 per il controllo del clan Bonanno. Poi il “tradimento”.
“Big Joey” per anni è stato vicino di casa di John Gotti. Al matrimonio di Victoria, la figlia del boss, c’era anche lui tra gli invitati; e quando uno dei sotto-capi di Gotti viene ucciso, Massino è in prima fila, alla veglia. Ma a differenza di Gotti, che amava la vita brillante di Manhattan, e regnava dal suo “Ravenite Social Club” di Mulberry Street, nella vecchia Little Italy, Massino preferiva le retrovie. Tanto piaceva, a Gotti la pubblicità, quanto Massino la detesta. La sua base operativa era nella remota sezione di Maspeth, a Queens. Il suo “Casa Blanca Restaurant”, con una scritta che promette “Fine Italian Cusine” ha avuto il suo momento di notorietà quando aveva ospitato una riunione della Commissione che sovrintendeva alle operazioni delle “famiglie” metropolitane. I capi della Bonanno erano regolari frequentatori del ristorante.
Il “Casa Blanca” è quello che si definisce un ristorante a tema: glorifica il film cult di Michael Curtiz con Humphrey Bogart e Ingrid Bergman. Ovunque, anche nelle porte delle toilettes, fotografie giganti dei due attori. Una scritta al neon nel salone da pranzo, invita: “Play it again, Sam”. Specialità della casa: ravioli alle scaloppe e ai funghi portobello.
“È un duro. Con lui non si scherza”, dice Pistone di Massino. “Il capo della Bonanno, Dominick Napolitano, lo ha imparato a sue spese. Lo chiamavano tutti “Sonny Black”, perché si tingeva i capelli. È stato lui a presentarmi ad alcuni boss della “famiglia”. Quando si seppe che in realtà ero un G-man, Massino non ci ha pensato un attimo a decretare la condanna a morte di Napoletano”. A “Sonny Black” vennero anche mozzate le mani, per ammonire i seguaci a non diventare un voltagabbana. Tony Mirra era un altro mafioso diventato amico di Pistone-Brasco. Lo hanno ucciso per questo, il cadavere abbandonato in un parcheggio di Manhattan.
Cosa nostra in America come in Italia cambia, muta, si trasforma. Per restare sempre la stessa.




Il libro delle raccomandazioni mafiose

Al capo di Cosa nostra Bernardo Provenzano ormai latitante da quarantun anni, scrivono proprio tutti: un commerciante di Alcamo gli ha chiesto di difenderlo dalla sua ragioniera che faceva trucchi nelle fatture (“perché voi sapete della mia onestà”); ma anche una nobildonna della provincia di Messina, che continuava a lamentarsi del proprio amministratore, e voleva a tutti i costi liberarsene; e non poteva mancare un condomino della Palermo “bene” che sollecita la mediazione criminale perché non si trovava un accordo sul rifacimento della facciata dell’abitazione dove alloggiava.
Per la prima volta un libro sulla mafia offre un punto di vista diverso. Non si parla tanto o solo dei mafiosi, ma di coloro che li cercano, che chiedono loro favori e complicità, che a loro si rivolgono per la soluzione di un problema. Il libro si chiama “Voglia di mafia”, autori due giornalisti, Enrico Bellavia e Salvo Palazzolo, presentazione di Giancarlo Caselli, editore Carocci.
Le stragi di Capaci e di via D’Amelio, che costarono la vita a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sembra siano state metabolizzate da buona parte della cosiddetta “società civile”; Provenzano, ora che Totò Riina e Leoluca Bagarella sono in carcere, ha riportato Cosa nostra all’antica funzione di sempre: la “mediazione”. Così la mafia è tornata ad essere inserita perfettamente nella Sicilia e nell’Italia del nuovo millennio. Una strisciante voglia di mafia pervade la società, l’economia e la politica. Lo rivelano, tra l’altro, alcuni documenti eccezionali: le lettere di Provenzano e le ultime indagini condotte dalla magistratura, che il libro di Bellavia e Palazzolo propone e “rilegge” fornendo numerose e preziose chiavi interpretative e conoscitive.
“Voglia di mafia” racconta le storie dei commercianti e degli imprenditori che hanno preferito rivolgersi ai mafiosi piuttosto che allo Stato per chiedere più sicurezza e la riparazione di torti subiti. Protagonisti del libro anche numerosi politici siciliani, che hanno bussato alla porte dei “padrini”, alla caccia di voti e consigli per migliori alleanze. Non manca poi uno stuolo, inquietante ed avvilente, di professionisti in cerca di raccomandazioni, “spinte” e scorciatoie.
Un libro che racconta una realtà amara, il volto di un paese che non vorremmo esistesse. Ma c’è, negarlo sarebbe stolto e inutile; e tocca farne i conti.





L’eredità del boss c’è. Ma gli eredi non ci sono

L’eredità, e anche cospicua, c’è. Il problema è che mancano gli eredi. In ballo ci sono la bellezza di un milione di dollari al valore di sessant’anni fa: un generoso lascito di Rocco Perri, boss mafioso che tra gli anni Venti e gli anni Trenta fece fortuna in Canada, dove era emigrato a sedici anni. Il testamento, congelato a lungo dalle autorità canadesi, è rispuntato fuori e nel suo paese d’origine è cominciata la caccia al legittimo erede.
Rocco Perri, nato di Platì nella Locride, come si è detto, emigrò giovanissimo in Canada. Le fortune cumulate con il malaffare vennero in parte investite negli Stati Uniti. Investimenti legali, e oculati. Il patrimonio nel tempo ha raggiunto la ragguardevole cifra di un milione di dollari. Non essendoci diretti “beneficiari”, nel paese calabrese è scattata la caccia all’eredità. Chiunque sia infatti legato al boss da una sia pur lontana discendenza, può sperare di essere nominato erede. Impresa non facile, ricostruire l’albero genealogico di Perri: anche perché i numerosi regolamenti di conti e lotte di faida hanno contribuito a sterminare la famiglia. Perri, vai a capire perché definito a suo tempo “il padrino buono” dell’Ontario, morto il 25 aprile del 1944, prima di passare nel mondo dei più, si era preoccupato di fare testamento: esattamente il 28 agosto del 1930, presso lo studio legale Reully & Reully di Hamilton, dopo la morte della convivente Bestie Starkman, che gli amministrava il patrimonio.
Trovato il testamento, il governo canadese lo aveva bloccato per alcuni anni. E ora la “pratica” riemerge da qualche polveroso cassetto. Emissari canadesi sono volati a Platì, alla ricerca di eredi.
Li troveranno?


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