Paladino di un nazionalismo laico, cercò di imporre una struttura politica ed economica del mondo arabo che garantisse l’indipendenza e lo sviluppo di quei Paesi. Commise molti errori, ma il fallimento del suo progetto è stato seguito dall’espandersi di un fondamentalismo islamico che Nasser aveva sempre combattuto
Nessuno nel mondo arabo, dagli anni ’50 in poi, ha avuto il suo prestigio, il suo carisma, il suo “appeal” sulle masse. Qualcuno, come Gheddafi, e lo stesso Saddam Hussein, ha tentato di imitarlo, ma senza successo: Gamal Abdel Nasser, nel bene e nel male, probabilmente era, e resta, inimitabile. E poi, tempi ed equilibri internazionali erano molto diversi. Per gli Stati Uniti, e per il blocco occidentale (allora ben compatto dietro la leadership americana) rappresentava una sorte di Nemico Numero Uno. Per l’Unione Sovietica era un “compagno di strada”, un alleato esterno abile nel chiedere e reticente nel dare, del quale era sempre opportuno diffidare. In fondo, il dittatore egiziano non suscitava autentiche simpatie né sull’uno né sull’altro fronte della guerra fredda. E molti considerarono la sua sparizione un segno positivo per gli equilibri mediorientali. Eppure, oggi, per contrastare l’estremismo islamico e le sue emanazioni terroriste, un Nasser sarebbe piuttosto utile, forse potrebbe rappresentare quello strumento di penetrazione nel mondo variegato del fondamentalismo che purtroppo manca. Pur se va detto che alcuni dei problemi di fronte ai quali oggi ci si trova, proprio Nasser ha concorso a crearli. Comunque, si può dire che Nasser stava al mondo arabo come Tito stava ai Balcani, e infatti i due si capivano benissimo, e facevano spesso fronte comune contro l’egemonia dei due Grandi. Anche se Josip Broz aveva uno spessore di statista e di politico, e una saggia prudenza nel dire e nel fare, che all’egiziano mancava.
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Durante la seconda guerra mondiale, come molti ufficiali e uomini politici egiziani (e di altri Paesi arabi), il colonnello Gamal Abdel Nasser, nato nel 1918 da una famiglia della piccola borghesia di provincia, simpatizzava attivamente per la Germania nazista. I motivi erano insieme semplici e complessi. Monarchia indipendente dal 1922, l’Egitto era di fatto un protettorato britannico, e con l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940, e il successivo intervento sul fronte libico del feldmaresciallo Erwin Rommel, era diventato uno dei punti strategici nodali del conflitto. La prospettiva di raggiungere il Caucaso attraversando Egitto e Medio Oriente, minacciando così da sud le difese sovietiche, faceva parte dei piani più velleitari di Hitler, che a questo fine contava anche sulla connivenza dei dirigenti arabi dei vari Paesi della zona. Per quanto riguarda l’Egitto, lo stesso primo ministro Ali Maher complottava con agenti nazisti, al pari del capo di stato maggiore Aziz Ali al-Misri, che teneva i contatti con Rommel attraverso Anwar Sadat (che trent’anni più tardi succederà a Nasser). Gli inglesi si erano sbarazzati di questa “quinta colonna” internando Maher, al-Misri, Sadat, e molti dei loro complici (Nasser, che nel 1942 aveva creato il movimento clandestino dei Liberi Ufficiali, riusciva a restare nell’ombra), mentre il palazzo reale (anche Faruk era segretamente filotedesco) veniva circondato da blindati.
A che cosa erano dovute le simpatie naziste di Gamal Abdel Nasser e dei suoi sodali ? Anzitutto, alla convinzione che la sconfitta della Gran Bretagna avrebbe reso l’Egitto, e tutto il mondo arabo, libero e indipendente. Una convinzione basata su un calcolo sbagliato, ma non sarà l’ultimo nel quale incapperà il futuro rais. A questo si aggiungeva un’entusiasta ammirazione di tipo professionale per Erwin Rommel, non prevedendo che a ereditare la tecnica della “blitzkrieg” di cui era maestro la Volpe del Deserto non sarà l’esercito egiziano, ma quello israeliano. Secondo punto, la persecuzione contro gli ebrei condotta dai nazisti prima in Germania e poi nell’Europa occupata, soddisfaceva le pulsioni antisemite diffuse nel mondo arabo, accortamente fomentate dalle caste dirigenti che additavano come causa di tutti i suoi mali la presenza sionista in Palestina. Nel 1941, Amin al-Usseini, Gran Mufti di Gerusalemme, aveva partecipato al fallito golpe filotedesco di Rachid Al el-Gailani, e si era rifugiato a Berlino, accolto con tutti gli onori, e utilizzato per incitare gli arabi ad arruolarsi nelle SS musulmane.
Finita la seconda guerra mondiale, dopo tre anni ha inizio il primo conflitto arabo-israeliano. La Lega Araba rifiuta la divisione della Palestina, decisa dall’Onu nel novembre 1947, in due Stati, uno ebraico e l’altro arabo-palestinese, e il 14 maggio 1948, alla proclamazione a Tel Aviv dello Stato di Israele, l’aviazione egiziana bombarda la città, mentre l’esercito parte all’attacco, appoggiato da Giordania, Libano e Iraq. L’obiettivo dichiarato è “buttare gli ebrei in mare”, e la preponderanza numerica e in armamenti delle forze arabe crea l’illusione di una sicura vittoria; ma le cose andranno nel senso opposto: alla fine del conflitto, concluso con un armistizio, Israele avrà conquistato un territorio più esteso di quello che le era stato attribuito.
Nasser partecipa alla guerra, viene ferito a Fallujah, e si crea la fama di eroico combattente. Eroico, forse, ma certo non fortunato. E l’umiliazione subita lo conduce a individuare le ragioni della debolezza egiziana nell’inetto e corrotto regime monarchico. Esperto di complotti e cospirazioni, il colonnello si mette all’opera, mobilita i suoi Liberi Ufficiali, raccoglie altre adesioni, e il 23 luglio 1952 un golpe militare costringe Faruk ad abdicare e a lasciare l’Egitto in poche ore. L’ex re parte per l’Italia, e diventerà un pittoresco protagonista del jet set delle case da gioco, prolifico fornitore di scandali da rotocalco.
In Egitto, il potere è assunto dal generale Muhammad Neghib, e il 18 giugno 1953 viene abolita la monarchia e dichiarata la repubblica. Neghib, nominato presidente, manifesta l’intenzione di instaurare un regime democratico parlamentare, ma Nasser e i Liberi Ufficiali sono di parere contrario: nel 1954 Neghib è deposto da un altro complotto militare, e Gamal Abdel Nasser diventa capo del governo.
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Alla carica corrisponde un potere pressoché assoluto. Nasser è il rais, il capo che detta la linea. Tutti i movimenti politici sono soppressi, e viene creata un’Unione nazionale, il partito unico. Pur tenendo conto di dirigere un Paese nella sua grande maggioranza musulmano (i cristiani, compresi i copti, sono il 3 %), Nasser ha una visione laica della società: reprime duramente i comunisti (pochi, e con influenza limitata agli ambienti intellettuali e studenteschi), ma soprattutto tiene sotto fermo controllo le correnti islamiche integraliste, in particolare quella dei Fratelli Musulmani. In politica estera il rais gioca accortamente sulla scacchiera della guerra fredda, o almeno cerca di farlo. Nell’ottobre 1954 firma un accordo per l’evacuazione delle truppe britanniche dalla zona del canale di Suez, e l’anno seguente ottiene un’importante fornitura di armi dalla Cecoslovacchia.
Con la Conferenza di Bandung, in Indonesia (allora governata dal progressista Achmed Sukarno), nell’aprile 1955, alla quale partecipano 29 Paesi afro-asiatici, nasce il movimento dei “non allineati”, e Nasser vi assume subito una posizione di rilievo. L’Egitto si pone come Paese guida del panarabismo, all’insegna di una sorta di “socialismo arabo” non ben definito nei suoi contorni ideologici ed economici. All’interno, il rais vara una serie di riforme, dall’istruzione all’agricoltura, che – accolte con favore dalle masse popolari – si scontrano con l’opposizione dei ceti borghesi. D’altra parte, la Banca internazionale per lo sviluppo, controllata dagli Stati Uniti, gli nega i finanziamenti per realizzare la grande diga di Assuan, necessaria per l’irrigazione di nuove terre. Il 26 luglio 1956 Nasser – nominato presidente della repubblica - annuncia la nazionalizzazione della Compagnia (franco-britannica) del canale di Suez: garantisce un rimborso agli azionisti, e la libera circolazione traverso il canale, ma la nega alle navi israeliane, bloccando inoltre il porto di Eilat, nel Mar Rosso. In ottobre (in coincidenza con l’intervento sovietico in Ungheria), Israele attacca il Sinai, e l’esercito egiziano è respinto sulla sponda occidentale del canale, dove Gran Bretagna e Francia forniscono il loro appoggio aereo agli israeliani. Per usare un luogo comune, una vittoria di Pirro: Stati Uniti e Unione Sovietica (già imbarazzati dalla crisi ungherese, che mette a rischio la “coesistenza” codificata dagli accordi di Yalta) impongono la cessazione delle ostilità, l’esercito israeliano deve sgomberare il Sinai e la striscia di Gaza, e l’ONU invia nella zona un contingente di caschi blu. Nasser ha perso la guerra, ma – sia pure per vie traverse - ha vinto la pace.
Il prestigio del rais si consolida e si espande. Nel febbraio 1958 l’Egitto forma con la Siria la Repubblica Araba Unita (RAU), alla quale aderisce lo Yemen, che però avrà solo tre anni di vita, per abbandono della Siria. Mentre crescono i contrasti con l’Arabia Saudita, alleata degli Stati Uniti con i quali divide lo sfruttamento dei suoi giacimenti petroliferi, Nasser stringe rapporti sempre più stretti con l’Urss: i sovietici accettano di finanziare i lavori della diga di Assuan, che sarà inaugurata nel 1964, alla presenza di Nikita Krushev, primo segretario del Pcus. All’interno, pugno di ferro contro le opposizioni, in primo luogo per quanto riguarda i Fratelli Musulmani, repressi con arresti massicci e condanne capitali. Fra gli arrestati, Sayyid Qutb, nato nel 1906, scrittore, poeta, insegnante, che nel 1949 era stato inviato dal governo egiziano negli Stati Uniti per stilare un rapporto sul sistema scolastico americano. Sayyid Qutb sosteneva un ritorno allo spirito e alla lettera del Corano, e al suo ritorno in patria aderisce alla Fratellanza Musulmana. Arrestato nel 1954, nel carcere di Tura scrive un libro dal titolo “Pietre miliari”, nel quale paragona la condizione religiosa e politica dell’Egitto di Nasser a quella del mondo arabo pagano prima di Maometto. Nel 1966, dopo dodici anni di detenzione, Sayyid Qutb viene condannato a morte e impiccato. Oggi “Pietre miliari” è uno dei testi fondamentali dei terroristi di Al Qaeda, citato da Ayman Al Zawahiri, braccio destro di Osama bin Laden, come “ispirazione sulla strada del vero Islam”.
Il che non significa certo che Qutb sia stato un precursore del terrorismo islamico praticato ai nostri giorni, è però verosimile che il nazionalismo laico nasseriano abbia rappresentato un’alternativa valida – anche se non “democratica” secondo i principi occidentali – alla deriva del fondamentalismo. Del resto, a far decretare l’ostracismo al rais non fu certo il carattere tirannico del suo regime (altri Paesi arabi conservatori, bene accetti, lo erano, e lo sono tuttora, altrettanto, se non di più), ma quel concetto di indipendenza insito nella sua visione del panarabismo.
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La “guerra dei sei giorni” del giugno 1967 è il più grande errore della carriera di Gamal Abdel Nasser, un errore gravido di funeste conseguenze per tutti i protagonisti, compresi i vincitori israeliani. In Siria, nel febbraio 1966 un golpe militare porta al potere un gruppo di ufficiali del partito Baath che riallaccia i rapporti con l’Egitto (dopo il fallimento della RAU) firmando un nuovo patto di alleanza militare in chiave anti-israeliana. Per Nasser questo accordo rilancia il suo progetto di unità araba, e ritiene opportuno premere sull’acceleratore, anche perché ha bisogno di un successo politico esterno dovendo contrastare, duramente all’interno (come mostra l’esecuzione di Sayyid Qutb) la pressione dei Fratelli Musulmani. Nell’aprile-maggio 1967 il patto militare viene esteso alla Giordania, che pone le sue forze armate sotto il comando egiziano; mentre i siriani intensificano i bombardamenti d’artiglieria dalle alture del Golan sui villaggi israeliani del Giordano, Nasser esige l’allontanamento dei caschi blu dell’Onu dal Sinai, dove stazionano nel quadro degli accordi seguiti alla guerra di Suez del 1956, invia sulla frontiera due divisioni corazzate (dotate di armamento sovietico), mobilita l’aviazione, e decreta il blocco di Eilat, unica via di Israele al Mar Rosso. Perché lo fa ? Più tardi, con il solito senno di poi, si dirà che Nasser voleva unicamente ridare una spinta propulsiva all’unità araba, con una manovra spettacolare, senza intenzione di spingere le cose oltre. Forse è così, ma la situazione al momento appare piuttosto diversa. Quasi a volervi aggiungere un tocco pittoresco, il Rais spinge Ahmed Chukeyiri, allora presidente dell’Olp(l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, creata nel 1964 sotto il suo alto patronato) a proclamare che “non vi saranno sopravvissuti in Israele”. Si potrebbe rilevare che Nasser non tiene conto di due punti essenziali: primo, il governo israeliano non è tenuto a considerare puramente velleitari e propagandistici (ammettendo che lo siano davvero) il blocco di Eilat, la mobilitazione militare, le dichiarazioni belliciste; secondo, non ha alcun interesse a farlo, solo per facilitare il “gioco” di Nasser.
Il 5 giugno 1967, Israele attacca. E’ la “guerra dei sei giorni”, il cui esito sarà deciso in poche ore. L’aviazione egiziana viene distrutta al 90 per cento, spesso prima che gli aerei possano alzarsi in volo. Le divisioni corazzate, con i loro esperti ma in quel caso inutili “consiglieri” sovietici, si trasformano in colonne di fuggiaschi, nel deserto del Sinai, che chiedono l’obolo di un sorso d’acqua ai blindati israeliani che li superano puntando verso il canale di Suez. Nello stesso tempo, dopo che le artiglierie giordane, la mattina del 5 giugno, hanno colpito l’aeroporto di Tel Aviv (il re Hussein, infido ma poco lungimirante, sembra sicuro che l’Egitto avrà la meglio; tre anni dopo userà i cannoni per massacrare i profughi e i feddayn palestinesi), le truppe israeliane vanno all’assalto, conquistano la parte orientale di Gerusalemme (con il Muro del Pianto e la spianata delle Moschee), raggiungono la riva destra del Giordano. Il 10 e 11 giugno tocca alla Siria, con l’occupazione da parte di Israele delle alture del Golan.
Gamal Abdel Nasser ha perso una scommessa che, giocata in quel modo, non poteva vincere. Il rais ammette la sua sconfitta, e dichiara – difficile dire con quanta sincerità – di volersi dimettere, ma delle imponenti manifestazioni popolari lo spingono a rimanere al suo posto. Fino alla morte, nel settembre 1970, dopo aver riaffermato, al summit arabo di Khartum, nel 1967, i tre “no”, condivisi dagli altri partecipanti: no alla riconciliazione con Israele; no ai negoziati; no al riconoscimento di Israele. L’umiliazione della drammatica sconfitta spinge all’intransigenza, ma ormai al rais, per farsi sentire, sono rimaste solo le parole, e occasionali scambi di cannonate lungo il canale, ai quali gli israeliani aggiungono ripetuti raid aerei fino alla periferia del Cairo.
Nasser ha perso, ma nessuno ha davvero vinto. Impadronendosi della Cisgiordania e di Gaza, Israele si trova a diretto confronto con il nazionalismo palestinese, che con il passare del tempo scivola sempre più verso il fondamentalismo. Inoltre, l’occupazione della “Giudea-Samaria” rinvigorisce un nazionalismo conservatore ebraico di marca religiosa che si traduce nel fenomeno (oggi un problema) delle colonie. E in politica estera Israele è in misura crescente condizionata e strettamente legata agli interessi (petroliferi, e non solo) americani in una regione della quale lo Stato ebraico costituisce solo l’uno per cento. In un piccolo territorio miracolosamente privo di ricchezze naturali.
Certo, la Storia non si scrive con i “se”, ma questo non significa che ciò che è accaduto doveva necessariamente accadere.
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