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giugno / luglio/2004 - Interviste
Società
La nostra vita è a rischio
di Alberto Madricardo

Un diffuso senso di insicurezza si sta diffondendo nel mondo: ambiente, economia, incremento demografico, finanza, flussi clandestini, rischi nucleari, manipolazione genetica, nuove malattie, ecc. stanno rendendo sempre più difficile la vita degli uomini

Un diffuso senso di insicurezza si sta impossessando della nostra società. Insicurezza rispetto all’ambiente, ai valori di riferimento, alle condizioni di vita e di identità. I grandi processi di apertura delle economie e la conseguente accresciuta interdipendenza economica, l’espansione demografica, i flussi migratori incontrollati, l’instabilità del quadro della finanza mondiale, il degrado ambientale, il terrorismo e la criminalità, la proliferazione nucleare, la manipolazione genetica e quella dell’opinione pubblica, la possibile insorgenza di nuove, sconosciute malattie, il tendenziale esaurimento delle fonti energetiche tradizionali - e via enumerando - ci avvertono che stanno aumentando, non diminuendo, i margini di rischio del nostro sistema di vita. D’altra parte, parecchi tra i tradizionali fattori di stabilità hanno ridotto la loro efficacia o addirittura si sono mutati essi stessi in cause di instabilità. Lo sviluppo dei fondamentalismi religiosi, per esempio, riguarda non solo l’islamismo, ma tutte le principali religioni, compreso il cristianesimo. Gli equilibri naturali e sociali vengono modificati in profondità, e quel che è più preoccupante, ci stiamo – come si dice - bruciando i ponti alle spalle.
Secondo alcuni sociologi che ne hanno spiato i sintomi fin dagli anni Settanta, il dinamismo della nostra civiltà, se non adeguatamente corretto, può generare, rischi pari o più grandi dei suoi successi. In una sua opera del 1977, Ralf Dahrendorf aveva stabilito già un nesso fra rischio e globalizzazione che di lì a poco avrebbe caratterizzato quella che lui definiva la “fine della modernità”. La nostra è un’età in cui l’ottimismo illuministico nato in Europa più di due secoli fa e cresciuto sull’onda della crescita della società industriale ha lasciato il posto alla visione di un orizzonte incerto, problematico, carico di insidiose incognite per l’umanità.
Uscito definitivamente, con l’industrializzazione, dal ciclo naturale ripetitivo della società rurale, l’Occidente ha messo in moto processi globali di trasformazione e di autotrasformazione irreversibili e cumulativi. Nelle società tradizionali la vita si attuava in un quadro d’insieme relativamente stabile, nel grembo della “Natura”. Esistevano naturalmente rischi, ma quasi sempre su scala locale, circoscritti, e non conseguenti all’agire umano. I mutamenti rilevanti di quadro erano possibili, ed avvenivano anche con conseguenze enormi (pensiamo per esempio all’eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei ed Ercolano nel 70 d. C. o al terremoto di Lisbona di metà ‘700), talvolta tali da provocare la crisi o la fine di civiltà, ma per ragioni indipendenti dalla volontà dell’uomo, o senza che egli si rendesse conto di esserne l’artefice.
Il fatto è che il nostro agire non incide sul contesto in cui si compie solo in rapporto agli scopi da cui è consapevolmente mosso. A volte non siamo nemmeno in grado di immaginarne gli effetti. Prendendo l’automobile, nessuno si propone di inquinare l’ambiente, ma solo di raggiungere un determinato luogo. Vendendo le proprie azioni, nessuno intendeva nel 1929 provocare il crac della Borsa di New York che avrebbe dato inizio alla “grande depressione” degli anni Trenta. Eppure nell’uno e nell’altro caso questi effetti non desiderati si producono o si sono prodotti.
In certi casi gli effetti imprevisti dell’ operare umano possono essere di lunga durata, ben oltre il tempo dell’esistenza di chi li ha prodotti, come quelli della catastrofe di Chernobil, o di quella di Bophal. Possono durare anche centinaia di migliaia di anni.
Luhmann, nel 1990 scriveva che rispetto al pericolo come possibilità di conseguenze negative di un evento non determinato dall’uomo, tipica delle società premoderne, nelle società avanzate ha assunto una inedita rilevanza il rischio, da attribuirsi ad eventuali danni futuri riconducibili alla decisione umana. Ciò comporta che oggi il rischio prevalga sul pericolo, in quanto sono sempre più numerosi quelli che egli chiama i latent side effects, (effetti collaterali latenti) indotti dal progresso delle scienze che “quanto più calcolano razionalmente, tanto più rendono complessa la costruzione del calcolo e incerto il futuro”. Per questo, osserva il sociologo Ulrich Beck: “Quello del rischio è un concetto moderno,che presuppone delle scelte e cerca di rendere prevedibili e controllabili le conseguenze imprevedibili della nostra civiltà”.
L’intervento dell’uomo sul mondo può avere, ed ha, effetti ultrattivi. Se tali effetti potessero disperdersi all’infinito, non ci sarebbe da preoccuparsi. All’infinito tutto si diluisce e diviene tendenzialmente pari a zero. Ma se, come è in realtà, essi si sviluppano in un sistema per certi versi chiuso, come è quello del mondo della vita umano e terrestre, allora è diverso.
L’uomo occidentale, con il suo dinamismo progettante che ha conquistato il mondo, si è assegnato una centralità inedita e anche, insieme, una responsabilità senza precedenti sulla totalità per molti aspetti chiusa, ma in sé infinitamente complessa, del mondo della vita. Oggi non solo fenomeni macroscopici come una catastrofe nucleare, un mutamento climatico provocato dall’inquinamento terrestre, ecc. ma anche poco appariscenti, come la manipolazione del patrimonio genetico di una specie vivente, la riduzione della biodiversità, possono, scatenando effetti a cascata, cambiare il quadro e le condizioni di base entro cui la vita, nelle sue modalità organiche o sociali, si è svolta finora, senza che sia possibile prevedere con ragionevole approssimazione l’entità e gli esiti del cambiamento. La omologazione universale, la crescente interdipendenza, la rapidità stessa di scambio e di comunicazione rendono più vulnerabile il “sistema della vita” e fungono da moltiplicatori potenziali di effetti imprevisti ed indesiderati del nostro agire.
Né si può fare affidamento assoluto sulla scienza. La difficoltà di calcolare gli effetti, non solo quelli immediati, ma anche quelli di lungo periodo dell’agire umano non è accidentale, è costitutiva del nostro modo di conoscere, perché deriva dal fatto che la nostra conoscenza scientifica si attua con criteri di approccio convenzionali storicamente determinati e riguarda ambiti circoscritti vieppiù specializzati della realtà (riduzionismo), mentre gli effetti delle pratiche da essa ispirate sono tendenzialmente totalizzanti. Ogni scienza deve essere selettiva, si occupa di un certo tipo di fenomeni e ne deve tralasciare altri, che pure ugualmente accadono. Nella realtà tutti i fenomeni sono interdipendenti tra loro e intrecciati in un unico “divenire del mondo”.
Riguardo ai sistemi complessi, come per esempio quello con cui hanno a che fare i meteorologi per le previsioni del tempo, molto importanti sono i precedenti in base ai quali essi possono formulare statistiche. Ma nella previsione degli effetti dell’impatto delle attività umane sull’ambiente globale, non ci sono molti precedenti, data la natura recente o recentissima di molte delle trasformazioni compiute dall’uomo e la brevità del tempo disponibile su cui è possibile rilevare le tendenze. Né possiamo disporre di precedenti di evoluzione di sistemi globali comparabili al nostro (forse quello di Marte. E questo è uno dei principali motivi di interesse per il “pianeta rosso”).
Proprio il successo del nostro modo di conoscere, l’approfondimento delle nostre esperienze e la conseguente, crescente specializzazione dei saperi hanno condotto all’esplosione caotica dei frammenti dello specchio unico della Ragione occidentale di origine illuministica in tante microrazionalità locali o settoriali spesso distanti od incompatibili tra loro. La situazione effettiva del mondo “globalizzato”di oggi non è che una efficace rappresentazione di questa polverizzazione.
Noi uomini vediamo il mondo dal nostro punto di vista particolare, lo trasformiamo e lo “decliniamo”a nostro vantaggio, con le nostre logiche inevitabilmente egocentriche e parziali influenziamo l’intero sistema della vita. I nostri approcci, che danno luogo all’indagine scientifica, vengono definiti in base a idee ed interessi in genere grossolani e approssimativi. “La maggior parte dei nostri pensieri, sensazioni, percezioni sono mal definite in maniera sorprendente“ dice Feyerabend, filosofo della scienza. È vero che nel corso dell’indagine si è per lo più costretti a spogliarsi dei pregiudizi - che pure hanno contribuito a generare l’interesse per la ricerca - più chiaramente incompatibili con essa, tuttavia in qualche modo l’impronta originaria di quelli continua a gravare sull’orientamento del processo e sui suoi effetti.
La discrepanza tra presupposti soggettivi, modalità selettive, riduzioniste della conoscenza scientifica e i suoi effetti reali tendenzialmente totalizzanti, che si ripercuotono cioè sull’intero sistema della vita della Terra, genera il margine del rischio connaturato e concrescente con il dinamismo della nostra civiltà.
All’inizio della rivoluzione scientifica e tecnologica che apre la modernità, grosso modo tra il secolo XVI e il XVII, era essenziale risalire all’indietro nel tempo, agli antecedenti di fenomeni indagati, riconoscendoli e distinguendoli entro il groviglio degli eventi naturali. Ritrovare le cause, sciogliere e riprodurre ordinatamente le matasse sequenziali dei fenomeni naturali, “obbedire alla natura per dominarla”, come diceva il filosofo Guglielmo Bacone. Ora è sempre più vitale prevedere le conseguenze di lunga durata del nostro operare, riuscire a immaginare la moltiplicazione futura degli effetti sull’insieme del mondo dei processi che poniamo in atto. Ma questo è forse più difficile.
Grazie ai processi posti in atto dalla civiltà occidentale la vita umana sulla Terra non è in assoluto diventata meno fragile e precaria di un tempo, anche se in senso relativo e riguardo ad alcuni aspetti certi importanti risultati sono stati ottenuti. I successi ci sono, ma sono stati raggiunti a prezzo di crescenti squilibri, e non è dimostrato che mutamenti in senso favorevole all’uomo di aspetti circoscritti della vita non producano effetti d’insieme opposti, che possono fungere da moltiplicatori esponenziali di rischio.
L’incertezza non riguarda solo le dinamiche naturali da noi modificate, ma anche il sistema delle nostre relazioni sociali. Il trionfo globale del capitalismo potrebbe preludere alla sua rovina. A dirlo non è qualche marxista rimasto fermo alla teoria del crollo ineluttabile del capitalismo. Sono voci che provengono dal cuore stesso del sistema, come quella di Gorge Soros, il finanziere americano di origine ungherese che nel 1992 guadagnò un miliardo di dollari in una sola notte speculando al ribasso sulla sterlina e sulla lira, cosicché queste monete furono costrette ad abbandonare il sistema monetario europeo. Soros, conoscendo bene ciò di cui parla, negli ultimi anni sta conducendo una crociata contro il capitalismo selvaggio. Afferma che i valori monetari e i rapporti contrattuali di mercato non forniscono di per sé una base adeguata per la coesione di una società. La società aperta dell'Occidente, dopo il collasso del sistema sovietico, afferma il finanziere, anziché crescere in capacità coesive ed esemplarità morale, è andata progressivamente perdendo molta della sua attrattiva come principio organizzativo del genere umano, via via che essa si presentava come il terreno di cultura di un capitalismo globale sempre più sfrenato, privo di morali costruttive, e capace di dare un senso e un valore alla vita umana sulla terra.
L'assunto di Soros è che il “fondamentalismo di mercato” oggi dominante è una minaccia maggiore per la società aperta di quanto non sia una qualunque ideologia totalitaria. La mercificazione universale - anche di ciò che dovrebbe essere governato da valori morali e relazioni familiari-affettive, le realtà estetiche e la disinteressata ricerca intellettuale - indebolisce il tessuto connettivo della società, soffoca e svuota i processi decisionali democratici collettivi, rendendo il mondo sempre meno governabile da progetti razionali e a lunga scadenza validi per tutto il genere umano. Le forze del mercato, insomma, secondo Soros, se non sono soggette a principi ed istanze ad esse superiori, producono caos. E si potrebbe giungere alla fine a un crollo del sistema capitalistico mondiale. Sembra di sentire riecheggiare le tesi dell’Internazionale Comunista degli anni Trenta! Il fatto è che appare sempre più chiaro che non ci sono panacee – neanche quella del “libero mercato” lo è - che permettano di risolvere una volta per tutte i problemi dell’umanità.
La scienza, per parte sua, in passato fin quasi divinizzata, ora mostra più modestamente la sua natura imperfetta, umana. Ne sono consapevoli prima di tutto gli stessi scienziati. Il problema del rischio che cresce in parallelo con lo sviluppo sarà davvero il grande problema dell’umanità nel secolo che si è appena aperto. Come sostiene Hans Jonas, il filosofo che ha teorizzato “l’etica della responsabilità” dell’uomo nei confronti della vita: “Non si deve mai fare dell’esistenza o dell’essenza dell’uomo una posta in gioco nelle scommesse dell’agire”.
Molte delle conseguenze “rischiose” generate dalla nostra civiltà possono forse venire evitate o ridotte sviluppandone e socializzandone la conoscenza. Ma oltre a ciò, ci sono dei criteri generali che possono servire da punto di riferimento per la definizione delle strategie di riduzione del rischio? Ci sono, sono precetti di buon senso, che vale la pena di seguire, a livello collettivo e individuale. Eccone qualcuno.
- “Riequilibrare”. In ogni campo, dall’ambiente, all’economia, alle relazioni sociali, operare per ridurre gli squilibri, in proporzione ai quali crescono i rischi: nell’ambiente, negli interessi, nel potere, nelle aspettative, nelle disuguaglianze sociali, culturali, ecc.
- “Cambiare la percezione dello spazio”: non possiamo – mentre ci è possibile fare il giro del mondo in poche ore, o, in laboratorio, inventare forme di vita mai viste - ragionare e vivere nello spazio terrestre come se fossimo ancora componenti delle piccole comunità dei cacciatori nomadi preistorici, sperdute nelle immense foreste primordiali. Non possiamo agire come se potessimo lasciarci alle spalle la radura in cui abbiamo bivaccato per qualche giorno senza curarci del disordine che vi lasciamo. Il luogo del nostro “bivacco” è vasto come il mondo intero e non abbiamo un altrove a cui andare domani.
- “Cambiare la percezione del tempo”: le conseguenze del nostro agire possono essere irreversibili e giungere ormai fino al futuro dei nostri più lontani posteri, in certi casi possono essere “eterne”. La nostra responsabilità per quello che facciamo del mondo deve crescere e diventare proporzionale agli effetti che siamo in grado di produrre.
- “Autonomizzare, responsabilizzare”: nelle grandi organizzazioni, ma non solo, è buona norma ridurre la rigida dipendenza e promuovere l’autosufficienza delle strutture, moltiplicare i centri di decisione responsabile e rendere flessibili le loro applicazioni, dopo avere concordato criteri comuni e direttrici generali condivise, per evitare che si creino situazioni babeliche. L’applicazione di questo principio può essere anche molto produttivo in termini di innovazione. Per esempio, dalla esigenza di decentramento delle strutture di comando e di comunicazione militari negli Stati Uniti, come si sa, è nata Internet, che ha rivoluzionato il mondo delle comunicazioni.
In ogni campo si devono evitare le rigidità degli automatismi burocratici o macchinali, che possono moltiplicare all’infinito le conseguenze di tendenze negative una volta che siano in atto. Per esempio, nel 1987 la gravità del crollo di Wall Street venne amplificata di molto perché i computer della Borsa erano programmati per vendere azioni automaticamente, una volta che fossero scese al di sotto di un certo prezzo.
- “Giocare su più tavoli”: è opportuno elaborare in ogni campo strategie che non riducano, ma possibilmente aumentino le alternative possibili. Come fa la natura, che gioca la partita della vita su più tavoli, promuovendo la biodiversità. Diversificare gli interessi, le sensibilità, le culture. La interdipendenza generale assegna una importanza crescente ai comportamenti degli individui. È di grande rilevanza dare loro la possibilità di ampliare il loro orizzonte, di compensare la specializzazione delle attività con la comunicazione tra gli ambienti e i saperi.
- “Promuovere la educazione al rischio”: organizzare ed attuare ovunque esercitazioni che simulano situazioni di rischio terremoti, inondazioni, incendi, attacchi terroristici, ecc. non è tempo perso. Riduce la paura. Eleva la soglia della nostra capacità di affrontare il rischio, ci abitua ad essere un po’ più consapevoli, in fondo, anche più intelligenti, solidali e civili.
- “Adeguare il gusto”: evitare il mastodontico e l’appariscente in tutti i campi. Per quanto possa essere spettacolare, il gigantesco è più esposto, e in genere più vulnerabile, come purtroppo hanno dimostrato le Torri gemelle di New York l’11 settembre del 2001. È meglio, anche nelle scelte individuali, anche nel gusto, preferire il semplice, il frugale nei consumi, ciò che si armonizza facilmente con l’ambiente umano e naturale.
-“Essere lungimiranti”: il rischio non si impone con l’evidenza del pericolo. A differenza di quest’ultimo, che si impone da sé, il rischio non si tocca ora con mano, si può anche al momento ignorare. È come Apollo, il dio vendicativo che colpisce tardi e da lontano. Richiede una capacità di ragionare sul futuro, di rinunciare a vantaggi immediati in favore di altri non immediati. In tutti i campi è opportuno applicare il “principio di precauzione”, di cui da poco più di un decennio è riconosciuta la validità, che ispira anche la legislazione dell’Ue. Si tratta del principio secondo il quale non vanno adottate innovazioni di cui non si conoscano con sufficiente sicurezza gli effetti anche futuri, diretti ed indiretti. Meglio rinunciare ad un vantaggio che andare incontro ad incognite impreviste. Ampliare le conoscenze e i margini di previsione.
Sono precetti di buon senso di cui non dovrebbe essere difficile comprendere l’importanza. Eppure siamo ancora lontani dal momento in cui questa nuova sensibilità sarà diventata senso comune.
In un recente convegno Antonio Rusconi, segretario dell’Autorità di Bacino per l’Alto Adriatico e membro della Commissioni Grandi Rischi della Protezione Civile, affermava che, se si verificasse un evento atmosferico simile a quello che provocò le disastrose alluvioni del ’66, nel Nord Est l’impatto sarebbe più devastante di allora. Non oso nemmeno pensare alle conseguenze di un’eventuale nuova eruzione del Vesuvio, considerata dagli esperti non impossibile.
Ma queste considerazioni non bastano. C’è un altro problema che bisogna porsi. È questo: a forza di “proteggere la vita”, non rischiamo di ottenere “l’effetto collaterale imprevisto” di farcene perdere il gusto? L’uomo non è solo previdenza e calcolo. La civiltà, come gli individui, ha bisogno di arrischiarsi per mantenersi viva. Il rischio lo persegue anche per sfidare se stessa, per provare la ebbrezza che le fa sentire la sua vita che pulsa. È l’altra faccia del rischio.
Nel rischio c’è la possibilità della perdita e dello spreco, e la vita, in una certa misura – come diceva George Bataille – è anche dispendio, spreco. Perciò il rischio si può correre anche per se stesso. Ricordiamo i ragazzi del vecchio film “Gioventù bruciata”, che si slanciavano a tutta velocità in macchina verso il baratro, scommettendo a chi avrebbe frenato per ultimo. Si può dare spazio all’istinto del rischio nel mondo bloccato, privo di cultura e di memoria, dei bulli di periferia, oppure convogliarne la energia nel grande alveo della avventura della conoscenza di sé e del mondo che l’uomo conduce fin dalle sue origini.
L’arrischiarsi è connesso in qualche modo al non rassegnarsi, al ribellarsi. Ma “ribellione” è anche la creazione del poeta (alla lingua falsa e cristallizzata), dello scienziato (alla oscurità della realtà), del musicista che crea suoni inauditi all’orecchio umano. Non c’è creatività senza ribellione. E la ribellione è “rischiosamente” vicina alla distruzione..
Ulisse, nel XII canto dell’Odissea, vorrebbe seguire, rapito, il canto delle Sirene. Ma nel momento in cui andrebbe volentieri incontro alla rovina, si trova legato. Egli stesso ha dato prima ordine ai suoi compagni di legarlo all’albero della nave. Grazie alla sua preveggenza, può esporsi alla lusinga ingannevole della vita, senza farsene annientare. Che cosa vuol dire questo? Che è l’uomo più “legato” alle sue radici quello che può affrontare con serenità il richiamo ammaliatore del rischio.
Nel momento in cui diventiamo responsabili verso tutto lo spazio della Terra e tutto il tempo dell’umanità, più profondamente che mai dobbiamo avere memoria e consapevolezza di ciò che siamo stati, dello sforzo immane che abbiamo compiuto, come specie, per diventare quello che siamo. L’istinto del rischio è vitale, ma anche quello di conservazione. La via della creazione è più difficile da distinguere da quella della distruzione per chi, come i ragazzi di “Gioventù bruciata” vive un presente senza memoria, senza cultura. Queste, la memoria, la cultura, possono fare da contrappeso, nel momento in cui cresce la nostra potenza e ci fa sporgere di più nel rischio. Sottile il crinale su cui dobbiamo camminare. Chi ha detto che vivere sia diventato facile?

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