Dalle proposte provocatorie di Dershowitz, alle fotografie falsificate. Ecco come si costruisce l’immaginario della violenza
Sul disastro iracheno piomba il boomerang “tortura”. Ma è possibile considerare questa come una portata fresca, inedita, sbucata per incanto dalla maestria di chissà quale raffinato chef? Anticipando di gran lunga qualsiasi corretto tempo di analisi, c’è da credere che la risposta sia una e una sola: no.
È il 1° febbraio 2002, circa 5 mesi dopo gli attacchi suicidi con aerei civili sul territorio statunitense e l’attacco di una ipercoalizione internazionale contro il territorio afgano, quando dalle pagine del Corsera affiora un’intervista di grande interesse.
A parlare è l’Alan Dershowitz, luminare di Harward, principe progressista del Foro Usa, super avvocato che tra i clienti annovera Claus Von Bulow, O. J. Simpson, Mia Farrow, Mike Tyson.
Il titolo? Più o meno questo, tra occhielli e catenacci: “Rimedio estremo per evitare altre stragi: scosse elettriche e aghi sterili sotto le unghie per chi sa e non parla”.
Non un disguido, nessuna rettifica, tanto meno una bufala per il più grande quotidiano italiano: solo l’anticipo succinto del libro di Dershowitz, edito in Italia da Carocci editore. Eppure quanto sostiene il professore, già in apertura d’intervista, viene subito classificato con il termine “provocazione”. Una provocazione che, scrive il quotidiano, “ha fatto rapidamente il giro dei salotti intellettuali di mezzo mondo”. Perché tanta notorietà? Perché Alan Dershowitz sostiene tranquillamente di essere favorevole all’uso della tortura, una pratica bandita dalla Costituzione statunitense, come rimedio estremo per prevenire un altro “11 settembre”. “Tengo a precisare – sostiene Dershowitz – che la mia proposta scaturisce dall’avversione viscerale per la tortura: una realtà clandestina ed illegale che purtroppo esiste e che, non potendo abrogare, desidero portare nell’ambito della legge e della democrazia”.
Una realtà clandestina ed illegale che purtroppo esiste: frase illuminante sulla tortura, quanto il convincimento di non poterla abrogare.
A questo punto, il giornalista gli chiede se non sia una coincidenza che la sua proposta giunga dopo gli attacchi dell’11 settembre. L’avvocato è onesto, e ricorda di aver già lanciato l’argomento nel suo libro Shouting Fire, edito nel 1989. “Certo – sostiene – Osama Bin Laden ha ridato urgenza alla mia sfida. Perché davanti a una bomba a orologeria pronta ad esplodere (un terrorista in possesso di informazioni che possono salvare la vita di migliaia di innocenti) ogni vera democrazia ha il diritto-dovere di fare qualcosa per prevenire la deflagrazione”.
Quando gli si chiede se non abbia l’impressione di compiere un passo indietro nel cammino della civiltà, Dershowitz non ha alcun dubbio. “Niente affatto – esclama – il mio obiettivo è istituzionalizzare la tortura per controllarla e fermarla. Oggi essa continua ad essere praticata segretamente ed illegalmente in tutto il pianeta, incluse le democrazie occidentali firmatarie del trattato internazionale che la mette al bando”.
Altra asserzione illuminante, sì, anche se il liberal non finisce di stupire. “La Cia – comunica con serafica franchezza – fa circolare nel mondo un agghiacciante manuale coi metodi più crudeli per ‘estorcere notizie’ e i commissariati di Polizia dalla California alla Florida la praticano quotidianamente, dietro le porte chiuse.
Ritengo che sarebbe molto meglio portarla nell’ambito della legge, rendendola visibile e trasparente, cioè democratica. Ciò avrebbe l’effetto di diminuirne l’uso, un po’ come è successo con l’aborto”.
Magistrale lezione di pragmatismo made in Usa. In fin dei conti dunque, come per i medici l’aborto, la tortura potrebbe essere applicata per scelta della “magistratura, che firmerebbe i permessi per autorizzarla, caso per caso, sottraendola alla Polizia locale che sicuramente ha l’abitudine di abusarne in segreto. È una materia che deve essere regolata dall’alto e alla luce del sole”.
Nel mare di contraddizioni che emergono da un tale teorizzare, ecco arrivare l’ennesima, di contraddizione, visto che tale ragionamento ha visto la luce (come da asserzione dell’autore) nel lontano 1989. Secondo Dershowitz la tortura dovrebbe essere esercitata “solo sui terroristi che rispondano alla qualifica di potenziali informatori al disopra di ogni ragionevole sospetto. Bisogna torturare solo chi è a conoscenza di informazioni in grado di prevenire carneficine, per intenderci. Inoltre propongo un tipo di tortura ‘non letale’, come l’uso di scosse elettriche e di aghi sterili conficcati sotto le unghie, che produrrebbero un dolore insopportabile senza però mettere in pericolo la vita dell’individuo”. L’intervistatore, a questo punto, sottolinea quanto un soggetto sottoposto a tortura sia spesso disposto a dire qualsiasi cosa, pur di interrompere la propria sofferenza. Addirittura, viene citato il terrorista islamico torturato nelle Filippine che confesserà, mentendo, di essere responsabile della strage di Oklahoma City.
L’avvocato, a questo punto, deve ammettere. “Il rischio esiste – risponde – non si può accettare per oro colato tutto ciò che esce dalle bocche di un torturato. Però è facile verificare se le dichiarazioni estorte sono false. Bisogna ingaggiare competenti professionisti della tortura che sappiano interrogare i terroristi, incastrandoli con domande trabocchetto. Che ci piaccia o no, molte vite sono state salvate in questo modo”. Ennesima frase illuminante.
Tutto lampante, chiaro, fin troppo chiaro. Ma quale effetto sull’opinione pubblica? L’avvocato non si fa pregare ricorda che “la gente più contraria alla tortura non letale, ironicamente, è anche quella più favorevole alla pena capitale. È una questione estetica: preferiscono vedere un uomo, magari innocente, sdraiato sopra una tovaglia di lino bianco e con un ago sterile conficcato nella vena piuttosto che sentire le urla di un terrorista il cui dolore temporaneo può salvare la vita di migliaia d’innocenti”. Un passaggio pregevole, soprattutto se riconsiderato alla luce di quanto emerso recentemente sul trattamento dei prigionieri in Iraq e sull’effetto di quanto emerso sulle cosiddette persone “comuni”. Eppure, nel momento in cui Dershowitz viene interrogato, la base statunitense di Guantanamo, dove vengono imprigionati quanti ritenuti in rapporto con la fantomatica organizzazione capeggiata dall’arabo Osama, è già notoria in tutto il mondo. Forse per questo, quando l’intervistatore gli chiede quanto sia favorevole ad atti di tortura sui detenuti di Guantanamo, il professore di Harward è, all’epoca, ipergarantista. “E perché dovrei?”, risponde. “Non esiste alcun motivo per credere che quei prigionieri possano darci informazioni in grado di salvare delle vite umane. Nessuno di loro è uno Zacarias Moussaoui (in carcere negli Usa, accusato di aver preso parte alle stragi dell’11 settembre, n.d.r.). Manca il cosiddetto criterio al di sopra di ogni sospetto”.
Ingenuo? Semplicistico? Assurdo? Comunque la si metta, l’avvocato Dershowitz, che s’impantana ovviamente in un mare di incongruenze “applicative” della propria proposta, ha chiaro che “il Congresso dovrebbe abrogare” l’adesione al trattato internazionale anti-tortura ratificata nell’84 ed entrata in vigore nell’87. “Un trattato anacronistico e superato – è convinto Dershowitz – quanto la Convenzione di Ginevra che non affronta il nuovo cancro del terrorismo sponsorizzato dagli Stati. Servono nuove conferenze e nuovi trattati per ripensare la mutata realtà del dopo 11 settembre”. E, sull’ipotesi di una palese violazione dei diritti umani, lo studioso statunitense si salva con il bilancino. “Certo – afferma – ma il vero dilemma è scegliere tra compromettere i diritti umani di un terrorista colpevole o annullare i diritti umani di migliaia di civili innocenti. La vita è piena di scelte tragiche e orribili”.
Azzeccata l’ultima frase: giorno dopo giorno, l’umanità si sta sempre più rendendo conto che la vita è piena di scelte tragiche ed orribili.
Ma a questo punto, tra foto false e testimoni veri, tra una consuetudine purtroppo nota a moltissimi operatori della sicurezza e la complicità serpeggiante tra quanti costretti a fronteggiare, per scelta, situazioni altrimenti insormontabili, che cos’è che ha conosciuto la comunità internazionale nell’ammirare, sui tabloid di mezzo mondo, foto di statunitensi con prigionieri iracheni al guinzaglio, o nudi, in patetiche ammucchiate?
Torture? Sì, forse, quasi.
Certamente pressione psicologica non violenta, privazione sensoriale, pressione fisica moderata, metodo Spinoza, pratiche di stress e minaccia, torture a bassa intensità. Cos’è il metodo Spinoza? È una tecnica secondo cui un prigioniero subisce un interrogatorio estenuante, infinito, violento, su fatti che (si sa già) non può conoscere. Inevitabilmente questa pratica lo conduce a confessare quel poco che sa per compensazione psicologica.
Quanto nello scorso mese di maggio è emerso in forma di titoli e dispense, appare sempre più come la punta di un iceberg che incede comunque paurosamente. Sotto quella linea di galleggiamento un mondo oscuro, indicibile, un antro serrato da chiavi che improvvisamente sembrano essere passate dalle mani di dittature conclamate a quelle di Stati, governi, eserciti, storicamente noti come portatori di democrazia, progresso, civiltà. Dagli Usa al Regno Unito, affiora cioè un madornale know how di pratiche che, sino all’altro ieri, sembrava ascritto perentoriamente a carta d’identità di più o meno efferati regimi autoritari. E invece no: trattasi d’incresciosa sequela di atti di tortura da parte di organizzazioni che affermano di combattere proprio per sconfiggere le dittature. Efferatezze tutte made in Usa? Più di un segnale potrebbe allarmare diversi altri “esportatori di democrazia”.
“Cinque giorni dopo la strage – scrive Fiorenza Sarzanini, sul Corsera del 1° dicembre 2003 – quattro persone sospette sono state fermate dai Carabinieri (…) La procedura seguita dai Carabinieri è quella imposta dagli Stati Uniti, che alla fine li hanno presi in consegna: i quattro sono rimasti chiusi in una cella al buio, inginocchiati, senza acqua né cibo, per quattro giorni”.
A differenza delle istantanee ricordo (tutte “indice e medio”, in segno di vittoria, e smiles texani) partite da Baghdad e giunte sulle prime pagine dei più accreditati tabloid internazionali, del suddetto trattamento descritto dalla giornalista del più grande quotidiano nazionale italiano non v’è icona alcuna. Almeno per ora; ma c’è sempre tempo per tutto. Ebbene: quanto descritto da Fiorenza Sarzanini, dopo l’attacco che a Nassirya costò la vita a diversi carabinieri, è ascrivibile ad una qualche tecnica di tortura? E inoltre: qual è la procedura che Sarzanini descrive come “imposta dagli Stati Uniti”?
Sul primo quesito sarà bene ricordare l’Irlanda del Nord. Nel contesto della guerra contro l’Iraq, emerge che gli inglesi avrebbero usato sui prigionieri anche le seguenti tecniche: l’incappucciamento, la privazione del sonno, la costrizione (in piedi o in ginocchio), la privazione di cibo e acqua, i rumori assordanti, ossessionanti impulsi luminosi. Nel 1978, la Corte Europea dei diritti umani stabilisce che tali pratiche non costituiscono “tortura” ma, essendo metodi “disumani e degradanti”, debbano essere ritenuti illegali secondo tutte le convenzioni.
Parole al vento.
Come descrive un’ampia manualistica, la raffinatezza delle pratiche di tortura è sempre più fitta. Dalle tecniche di deprivazione (sensoriale; percettiva; sociale; dei bisogni elementari) alle tecniche coercitive (scelte impossibili; azioni incongruenti, ovvero contrarie ai propri principi), dalle minacce e umiliazioni (contro il prigioniero; contro membri della famiglia, parenti, amici; esecuzione simulata; osservazioni ed azioni umilianti), alle tecniche di comunicazione (serie di comunicazioni contraddittorie, per confondere il prigioniero; disinformazione, ovvero tecniche conditioning e revers–effect). Tra le tante chicche le “operazioni falsa bandiera”: con travestimenti e falsi scenari il prigioniero è disorientato e indotto a credere di essere in paesi in cui si applicano torture e sevizie, e non nelle mani di paesi cosiddetti “democratici”.
Quanto costa la verità, dunque, per un paese democratico? Qualunque sia il suo costo, già sarebbe importante avvicinarsi al verosimile. Magari comprendendo che la maggiore o minore qualità di chi opera per difendere la popolazione da una o più minacce non sta nell’applicare tout court una prassi, diretta conseguenza di un acritico pragmatismo politico-strategico. Prima o dopo, quasi tutti gli esecutori fanno la fine delle loro vittime: virtualmente o per davvero. Citando l’attacco di questo articolo… come se il cuoco finisse in padella.
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