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maggio/2004 - Interviste
Storia
Le armi di San Valentino
di Vero Vagnozzi

Nel 1929, la banda di Al Capone trucidò sei esponenti della gang rivale di Moran. Le indagini condotte per identificare le armi automatiche usate per la strage

Il 14 febbraio 1929, Al Capone tese la sua famosa trappola alla banda Moran nel quartier generale dei suoi rivali, un garage situato al n. 2122 di North Clark Street, a Chicago.
Cinque uomini, di cui due vestiti da poliziotti, furono visti entrare nel garage ed uscirne poco dopo, non senza aver lasciato sul terreno sei morti ed un moribondo dalla lingua cucita, che neppure sentendosi vicino alla fine rivelò alcunché di utile alla Polizia. Si dice che la banda Moran fosse preparata ad una delle solite retate “pro forma” operate e dirette da poliziotti corrotti e perciò si allineasse senza eccessivi sospetti, faccia al muro nel garage.
Le indagini, pur apparendo chiara la matrice del delitto (traffico di birra in regime di proibizionismo) si palesarono subito complicatissime per l’enorme quantità di reperti disseminati un po’ dovunque, nel garage, nei corpi e nel muro di mattoni.
Il Coroner di Chicago, Bundesen, trovandosi di fronte un problema di simili dimensioni, nominò immediatamente il Jury, composto di ben sei persone convocate con la massima urgenza. Ordinò la perizia balistica onde accertare esattamente quali armi avessero sparato e quante esse fossero. Fu ordinata anche l’autopsia dei sette cadaveri che venne affidata ai dottori Benjamin, Cunn e Schmitt che, come è facile immaginare, ebbero il loro bel da fare.
In terra vennero repertati complessivamente 70 bossoli calibro 45 A.C.P., allestiti dalla United States Cartridge Company, con sede a Lowell, Massachusetts, attiva dal 1869 al 1936 (codici, indifferentemente, U.S. e U.S.C.Co.) e 14 proiettili di calibro 45 A.C.P. del tipo interamente mantellato da 230 grani; 25 frammenti di camiciatura in “gilding” (rame 95% + zinco 5%) simile a quella costituente la corazza degli altri 14; 22 frammenti di nuclei centrali vari nonché 2 bossoli calibro 12 fabbricati dalla U.S.C.Co.
Una cinquantina, tra pallottole calibro 45, frammenti e pallettoni, vennero estratti dai cadaveri. Ben sette pallettoni vennero trovati nel corpo di quello che non aveva voluto parlare.
Il primo determinante passo verso l’identificazione delle armi usate, venne dall’osservazione dei bossoli calibro 45. Alcuni di essi, infatti, mancavano totalmente delle impronte di espulsione e di estrazione caratteristiche delle armi automatiche e semiautomatiche. Vennero per altro rilevate delle strie sui generis, particolarmente accentuate nella gola di questi bossoli. Dette impronte possono oltre a non riprodursi affatto nei punti di elezione (testa e gola del bossolo), riprodursi con collocazione ed incisività diversa anche su manufatti di eguale consistenza. Ecco perché, da sole, non possono costituire elementi certi di identificazione, a meno che le caratteristiche definite non abbiano valore di vero e proprio contrassegno.
L’assenza di queste impronte su questo gruppo di reperti, in aggiunta alle strie sui generis rilevate all’interno della loro gola, portarono ragionevolmente ad ipotizzare l’uso di un revolver Colt o Smith & Wesson adatto all’impiego delle “mezzelune”. È noto infatti, che alcuni particolari modelli di queste armi a tamburo, possono camerare il 45 A.C.pP. come il 45 Colt (cartucce che sono tipicamente da pistole automatiche o mitra).
I rimanenti bossoli presentavano invece inconfondibili tracce di estrattori e di espulsori, nonché notevoli impronte di culatta. Queste ultime copiano le microscopiche asperità presenti sulla culatta o sulla testa dell’otturatore sotto l’effetto del rinculo. Fu appunto un ben noto marchio di forma vagamente semilunare (in aggiunta ad un fascio di striature concentriche), a far convergere i sospetti sul fucile mitragliatore Thompson. La prima stimmata era dovuta all’impatto dell’otturatore sulla cartuccia all’atto del suo energico prelevamento dal caricatore, e la seconda dal tipico residuo dell’unghiatura di fresatura a spirale della testa dell’otturatore.
Sulla dura capsula in nikel dell’innesco, si riprodussero validamente solamente le impronte di percussione, l’una a letto più acuto, l’altra più arrotondata e con un caratteristico difetto dell’apice che con un suo microscopico difetto in negativo, produceva un risalto di eguali forme e dimensioni in positivo, proprio all’interno del cratere di percussione.
La sagacia e l’abnegazione dei periti portò anche alla scoperta che alcune di quelle cartucce erano state allestite con una pallottola munita di solco di crimpatura zigrinato, e con l’impressione di una microscopica “S”. Si appurò che la ditta costruttrice le aveva prodotte solo per un anno dal 1927 al 1928.
Per quanto concerne le pallottole sparate dall’arma a tamburo, oltre all’evidenza dello “slippage” (letteralmente “scivolamento”) e che consiste in un’impronta caratteristica con andamento rettilineo, dovuta al brusco mutamento di direzione (da lineare a rotativo) nell’attimo in cui la palla, proveniente dal lungo “free Boring” delle armi a tamburo, impegna le rigature, si rilevarono ben nitide le impronte di sei solchi conduttori ad andamento destrogiro, con caratteristiche dimensionali, morfologiche di profondità, di larghezza di solco e distanza tra pieni e vuoti tali da farle ascendere ad una Smith & Wesson mod. 1917 (la Colt è sinistrorsa).
L’indagine microscopico-comparativa dei rimanenti proiettili, portò alla convinzione che essi erano stati sparati da due distinti fucili mitragliatori Thompson, con caratteristiche peculiari di rigatura ben diverse tra loro. Detta indagine venne con successo estesa anche ai frammenti di camiciatura.
I bossoli cal. 12, della U.S.C.Co. di colore nero e tipo “Climax” (fabbricati dal 1911 al 1926), risultarono essere stati caricati originalmente ed una sola volta con polvere infume e pallettoni. L’esame microscopico-comparativo esaltò l’identità di un’unica percussione, quella di un unico estrattore e di un unico espulsore. Si trattava dunque di un fucile semiautomatico, del tipo tradizionale o a pompa. Gli esperti provarono alcuni fucili all’epoca più diffusi, Marlin, Winchester, Colt, Remington, per ottenere le diverse disposizioni degli organi imprimenti le caratteristiche di classe. Ma pare che l’indagine non ebbe successo.
Dieci mesi più tardi, nel Michigan, a seguito di un banale incidente automobilistico, uno dei guidatori, per non essere identificato dall’immancabile poliziotto americano (onnipresente come nei film) uccise con tre colpi di pistola il tutore dell’ordine, proseguendo la sua fuga con un’altra vettura. Nell’auto, il malvivente abbandonò la pistola ed i suoi documenti falsi con apposta la sua vera fotografia. La Polizia non tardò a scoprire la sua vera identità: il suo nome era Ted Burke, ed era fortemente sospettato di aver partecipato al massacro del 14 febbraio.
A casa sua venne trovato un vero arsenale, tra cui, manco a dirlo, due Thompson, varie mezzelune per adattare le cartucce 45 A.C.P. e numerose scatole di cartucce della U.S.C.Co. con palla solcata dalla gola zigrinata di crimpaggio e la famosa microscopica “S” stampigliata tra il solco e l’ogiva.
La perizia venne consegnata al Coroner il 23 dicembre 1929 (e poi si dice che da noi i periti sono lenti!) corredata dalle fotografie, per altro pratica assai poco diffusa negli Usa, e la vicenda si concluse, al momento, con il mandato di cattura per omicidio plurimo contro Burke ed altre persone in via di identificazione, responsabili del massacro di North Clark Street.

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