Riproponiamo uno studio di Marcello Buonamano (scomparso nel 1998) che fu prezioso collaboratore di questa rivista ed artefice della riforma del Corpo degli Agenti di custodia e della conseguente istituzione della Polizia Penitenziaria
Il termine “penitenziario” (che in tante occasioni ricorre quando si parla dell’argomento istituti di pena) potrebbe essere considerato sinonimo del termine “carcerario”, per chi non ne conosce l’origine e gli svilluppi di contenuto e di finalità che esso ha assunto nel tempo. Per chi, al contrario conosce tale origine e tali sviluppi, specialmente recenti, potrebbe essere considerato anacronistico. Invece, non è così. Infatti, quel termine, oltre ad essere più ampio di quello “carcerario”, in quanto si estende alla vigilanza dei soggetti sottoposti a misure limitative della libertà, ha tuttora piena giustificazione di essere usato per due ordini di ragioni: anzitutto, perché esso è molto diffuso; in secondo luogo, perché, anche se legato, come vedremo, ad un momento lontano della storia del carcere, costituisce un invito, anche per il profano, a porre l’attenzione sugli aspetti contenutistici e finalistici delle misure privative e limitative della libertà personale previste dalla vigente legislazione penitenziaria.
Circa l’uso e la diffusione del termine, giova ricordare che si parla usualmente e ovunque di sistemi e regimi “penitenziari”, di scienza e di tecnica “penitenziaria”, di diritto e di regolamento “penitenziario”, di amministrazione, di organi e operatori “penitenziari”, trattamento “penitenziario”, regime “penitenziario”, organizzazione “penitenziaria”.
Si è detto che il termine “penitenziario” è legato ad un momento lontano della storia del carcere ed è noto quanto questa storia sia triste e dolorosa.
La pena sorse ispirata al concetto di “vendetta” e per lunghi secoli si realizzò essenzialmente nella “pena corporale” (flagellazione, mutilazione, ecc.) e nella “morte” (per lapidazione, precipitazione, crocefissione, ecc.), preceduta dai più atroci tormenti.
Il “carcere” sorse quale mezzo cautelativo per impedire al reo di sfuggire al giudizio e all’inflizione della pena. A tale scopo, era usato qualunque luogo da cui fosse impossibile fuggire, per cui le carceri consistefano nell’adattamento di ambienti orridi, spesso sotterranei, privi di spazio, carenti di aria e di luce. Da ciò si evince che possono ritenersi valide ambedue le etimologie della parola “carcere” su cui discutono gli studiosi: coercio (rinchiudo, rinserro) e carcer (sotterro, tumulo).
Per quanto riguarda la pena, vi furono in epoche successive le note limitazioni della “lex talionis”, che introdusse il principio ancora attuale della proporzionalità tra fatto dannoso e pena e la sanzione della “composizione”, consistente in una pena in natura o pecuniaria.
Quando si affermò il potere pubblico, i delitti si trasformarono, per la maggior parte, da delitti privati in delitti pubblici, i quali divennero di conseguenza direttamente puniti dallo Stato. Pressoché contestualmente, le prime forme di carcere privato scomparvero, per dar luogo alle carceri pubbliche. La pena pubblica restò concettualmente una vendetta, ma non più privata, bensì divina e sociale, a seconda della concezione religiosa o laica dello Stato, e continuò ad essere, in modo prevalente, di tipo corporale e a realizzarsi in forme severe e crudeli. Anche il carcere continuò ad essere, salvo rare eccezioni, un luogo di sofferenza fisica e morale, spesso atroce.
È stata la Chiesa a sopprimere, verso la fine del X secolo, nell’interno delle sue istituzioni, le pene corporali, sostituendole con le prigioni-monastero per i chierici colpevoli di delitto.
In tali prigioni venne reso obbligatorio il sistema penitenziale, a cui all’epoca si sottomettevano volontariamente i peccatori animati dallo spirito di mortificazione.
Attraverso la penitenza, il colpevole doveva pervenire al pentimento e, quindi, al suo riavvicinamento a Dio, cioè alla sua emenda. Questa fu la prima forma di pena detentiva che la storia registra, dalla quale prese appunto l’abbrivo il termine “penitenziario”.
Fuori dall’ambito della Chiesa, la pena restò di tipo corporale e, di fronte al dilagare e all’aggravarsi delle forme di delinquenza, divenne sempre più ampiamente applicata e in modo sempre più atroce. Il carcere continuò ad essere un mezzo cautelativo per assicurare il colpevole alla giustizia e all’esecuzione delle pene corporali e ad essere, nel contempo, salvo rare eccezioni, un luogo di sofferenza fisica e morale.
Soltanto nell’arco dei secoli XVI e XVII, di fronte all’inefficienza delle pene corporali, cominciò ad affermarsi, ad iniziare da alcune città del Baltico, l’idea di sostituire dette pene con la detenzione (reclusori). L’istituzione della pena detentiva si sparse ben presto negli altri paesi, ma, continuando ad essere ispirata al concetto di vendetta sociale, gareggiò per sofferenza con le pene corporali.
Verso la metà del secolo XVI lo spirito cristiano influì sul trattamento carcerario, specialmente in Olanda, dove il protestantesimo era operante. Nacquero così le prime forme di edilizia penitenziaria caratterizzate dal sistema cellulare (fra cui vanno ricordati il carcere di Rasp-Huis ad Amsterdam, le Carceri Nuove in via Giulia a Roma e la Casa di correzione per ragazzi “discoli” in piazza di Porta Portese a Roma) per consentire l’isolamento notturno, allo scopo di combattere i danni morali della promiscuità. Il sistema a fondamento di tali istituzioni era naturalmente ispirato al concetto di penitenza, finalizzato alla rigenerazione morale dei soggetti. Ma si trattò di eccezioni; infatti, la situazione generale delle prigioni nel mondo era e restò deplorevole, disumana.
A testimonianza impressionante di tale situazione restano numerosi scritti, fra cui sono da ricordare quelli famosi dell’inglese John Howard (1726-1790), ai quali si accompagna l’altrettanto famoso libricino “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria (1738-1794).
L’Howard non si limitò a denunciare il tragico stato delle prigioni nel mondo, ma formulò realistiche proposte ispirate ai modelli del predetto carcere olandese e della citata Casa di correzione di Porta Portese a Roma, costruita nel 1703 da papa Clemente XI. Le idee di Howard, dopo la sua morte, dettero luogo alla teoria dei sistemi penitenziari, dalla quale nacque una polemica che durò fino al Congresso penitenziario di Praga del 1930.
Si ebbero, così, in ordine di tempo, il sistema pensilvanico o filadelfiano, il sistema auburniano e il sistema irlandese o progressivo.
Il primo sistema, che iniziò ad attuarsi nel 1790 nello stato di Pennsylvania (prigione di Walnut-Street in Filadelfia), era ispirato ad una interpretazione quacquera del pensiero di Howard; consisteva, infatti, nella segregazione continua ed assoluta del condannato, che avrebbe dovuto portarlo, attraverso la penitenza, alla sua rigenerazione morale.
Il secondo sistema, che iniziò ad attuarsi nel 1816 nello Stato di New York (prigione di Auburn), era modellato sulla ricordata Casa di correzione di Roma: isolamento notturno e vita in comune durante il giorno con l’obbligo del silenzio e con la sottoposizione ad una rigorosa disciplina, per evitare i temuti danni della promiscuità.
Il terzo sistema, che fu sperimentato in Irlanda nel 1859 (prigione di Luck), consisteva in quattro stadi progressivi: isolamento continuo, regime auburniano, campo di lavoro all’aperto e liberazione anticipata in prova.
Come si vede, col decorrere del tempo, si passò concettualmente dal sistema della penitenza a quello del riadattamento sociale del condannato, da conseguirsi mediante la religione, il lavoro e la disciplina, elementi del trattamento segnalati come fondamentali dall’Howard.
I tre sistemi, come si è accennato, furono oggetto di una lunga polemica in sede di studi e, soprattutto, di dibattiti congressuali.
Tanti nomi illustri, nell’arco del XIX secolo, si impegnarono nella polemica, come gli italiani Volpicella, Mancini, Morichini, Porro, Petiti di Roreto, Peri, Peruzzi, ecc. e gli stranieri E. C. Wines, Mittermayer, Lucas, Baer, Guillame, Sollohub, ecc. Convinti filadelfiani erano i belgi, con a capo prima Ducpétiaux e poi Stevens, direttori generali delle carceri. Convinto sostenitore del sistema auburniano e, per le lunghe pene, di quello irlandese, fu Martino Beltrani-Scalia seguito, poi, da Alessandro Doria, direttori generali delle carceri italiane, il primo dal 1879 al 1898 (salvo due interruzioni) e il secondo dal 1902 al 1912, epoca in cui l’Amministrazione penitenziaria dipendeva dal ministero dell’Interno.
La nuova corrente di pensiero in tema di penalità, che prese le mosse dall’indirizzo antropologico del medico carcerario Cesare Lombroso, fu successivamente elaborata da Raffaele Garofalo e da Enrico Ferri, prendendo il nome di Scuola positiva di Diritto penale, in contrapposto alla scuola tradizionale, che venne definita per contrasto Scuola classica.
La Scuola positiva influì sulla predetta polemica a cominciare dal Congresso internazionale penitenziario di Cincinnati del 1870. Dell’incidenza del nuovo movimento di idee nel nostro Paese è testimonianza il Regolamento per le carceri e i riformatori governativi del 1891, che seguì all’emanazione del Codice penale Zanardelli del 1889 e che fu opera magistrale del nominato direttore generale Beltrani-Scalia, opera che fu perfezionata, nel settore minorile, dal suo successore Doria col Regolamento per i riformatori governativi.
Gli studi e i Congressi nazionali e internazionali continuarono a dibattere la materia penale e penitenziaria, sotto la spinta dei nuovi orientamenti nel campo giuridico e criminologico, che ponevano sempre più la loro attenzione sulla esecuzione penale.
Il Ferri, dopo che il suo famoso progetto di Codice penale del 1921 fu insabbiato, si adoperò perché fossero create le premesse di una riforma penale che, anche se ancora imperniata sui concetti classici della pena, realizzasse la possibilità di modificare giurisdizionalmente la stessa nel corso della sua esecuzione, in relazione all’esito del trattamento penitenziario. Egli appoggiò, quindi, gli studi ordinati fin dal 1917 dal ministro dell’Interno on. Orlando relativi al passaggio dell’Amministrazione penitenziaria dal ministero dell’Interno a quello della Giustizia, sede che appariva più opportuna per l’attuazione del predetto intento.
Il 15 gennario 1923, mentre era ministro guardasigilli l’on. Oviglio, discepolo del Ferri, avvenne l’auspicato trapasso. Questo, dopo alcune altre disposizioni di legge, si perfezionò col regio decreto 27 ottobre 1927, n. 2187, e l’Amministrazione penitenziaria centrale assunse la denominazione di “Direzione generale per gli istituti di prevenzione e di pena” (r.d. 5 aprile 1928, n. 828).
La riforma penale Rocco del 1930 si mantenne, equidistante nei confronti del dibattito tra Scuola classica e quella positiva, ispirandosi all’indirizzo tecnico-giuridico. Essa, infatti, attuò il cosiddetto sistema del “doppio binario”: ha conservato, cioè, la pena nella sua essenza e nelle finalità tradizionali, ponendo, però, accanto ad essa (ad integrazione o surrogazione) le misure di sicurezza. In aderenza agli orientamenti dottrinali, il nuovo legislatore penale previde l’intervento del giudice nell’esecuzione penitenziaria, che denominò “giudice di sorveglianza”, attribuendogli rilevanti poteri decisori nel processo di sicurezza successivo al giudizio di cognizione ed affidandogli funzioni di vigilanza, deliberative e consultive nell’esecuzione delle pene detentive.
Alla riforma penale seguì il Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena, approvato con regio decreto 18 giugno 1931, n. 787, emanato in forza dell’art. 1 della legge 31 gennario 1926, n. 100, sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche. La riforma si completò con le norme istitutive del Tribunale per i minorenni del 1934, con il Regolamento per le Case di rieducazione per i minorenni del 1939 e con l’ordinamento giudiziario del 1941.
Animatore della riforma penitenziaria e minorile fu Giovanni Novelli, direttore generale per gli istituti di prevenzione e di pena dal 1930 al 1943. Il codice Rocco ospitò in numerosi articoli i principi di fondo del nuovo sistema penitenziario, lasciando vasto campo al regolamento carcerario per la loro realizzazione. Compito che il Novelli assolse in modo impareggiabile.
La nuova normativa penitenziaria, infatti, attuò nel campo dell’esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza detentive il principio penalistico dell’individualizzazione ai fini del reinserimento sociale dei condannati e degli internati, mediante la previsione della specializzazione degli stabilimenti, completata con la ripartizione dei soggetti in ciascuno di essi in gruppi omogenei e con la disciplina particolare di ogni stabilimento a mezzo dei regolamenti interni.
La nuova normativa, inoltre, regolamentò in modo tassativo gli interventi del giudice di sorveglianza nell’esecuzione penitenziaria a titolo di vigilanza e a carattere deliberativo, onde evitare ogni possibile conflittualità con gli organi centrali e periferici dell’Amministrazione penitenziaria.
La legislazione penitenziaria del 1931 continuò ad adottare per le pene detentive il sistema auburniano, già accolto dalla precedente legislazione, estendendolo alle misure di sicurezza privative della libertà; continuò, altresì, ad adottare per le lunghe pene il sistema progressivo, prevedendo uno “stage” dei condannati alle stesse negli stabilimenti di riadattamento sociale prima di fruire della liberazione condizionale. Provvide, inoltre, a disciplinare l’assistenza post-carceraria, mediante la regolamentazione dei Consigli di Patronato e della Cassa delle ammende, enti istituiti dal Codice penale.
Nel 1937 venne approvato il nuovo Regolamento per il Corpo degli Agenti di custodia (r.d. 30 dicembre, n. 2584 e successive modificazioni), il quale, nel disciplinare i compiti dei componenti del Corpo, pose l’accento sulla finalità rieducativa delle pene e delle misure di sicurezza, sottolineando che se tale finalità “è eventuale e secondaria nell’esecuzione” delle prime, “è essenziale” nell’esecuzione delle seconde.
Da questi rapidi accenni sulla storia della penalità e del penitenziarismo si è potuto vedere come il concetto di penitenza nell’esecuzione delle pene detentive fu gradatamente abbandonato, mentre il termine “penitenziario”, distaccandosi da tale suo significato originario, è stato ed è usato per comprendere, oltre il settore dell’esecuzione delle pene detentive, anche quello della carcerazione preventiva e delle misure di sicurezza privative e limitative della libertà personale.
BOX
Nasce il “carcere razionale”
Si chiamava “Panopticon” (dal greco “visione generale”) il primo istituto carcerario concepito con intenti razionali.
Nacque sul finire del 1700, secondo il concetto studiato dall’inglese Geremia Bentham, di professione filosofo.
Fino ad allora i luoghi ove incarcerare i colpevoli (o i supposti tali) erano poco più di fetide segrete in cui venivano gettati uomini e donne senza l’ombra di un confort; il mangiare doveva essere fornito dai familiari o da terze persone, giacché l’autorità che incarcerava non provvedeva alla bisogna.
Con il Panopticon, nasce il concetto di edilizia carceraria secondo canoni ancora oggi seguiti, seppure con ovvie variazioni.
Bentham prefigurò una prigione tutta diversa, piena di luce e sorvegliata da un “Ispettore invisibile”. Ad ogni carcerato era assegnata una attività produttiva.
Si trattata di una costruzione costituita da un corpo centrale a più piani(la “rotonda” di molti istituti dei giorni nostri) che si apriva all’interno di un anello con le celle che occupavano, a raggera, l’intero spessore dell’anello stesso.
Le celle avevano due finestre: una verso l’interno, in corrispondenza della torre; l’altra verso l’esterno in modo tale da permettere alla luce di attraversare il locale da parte a parte: bastava mettere un sorvegliante ad ogni piano nella torre centrale in modo tale che potesse vedere, stagliate in controluce, le sagome dei detenuti. In realtà le varie finestre della torre centrale erano munite di una sorta di persiane che impedivano di far capire ai prigionieri quando venivano osservati e quando no. C’era anche un rudimentale citofono, costituito da tubi, che consentiva al sorvegliante di rivolgersi ad un detenuto.
Secondo il concetto di Bentham, un siffatto tipo di costruzione aveva una sua efficacia, “sia se si tratti di punire criminali incalliti, sorvegliare i pazzi, riformare i viziosi, isolare i sospetti, impiegare gli oziosi, guarire i malati, addestrare quelli che vogliono poi entrare nell’industria o fornire istruzione”. Insomma, sempre secondo Geremia Bentham, i detenuti dovevano essere sempre sotto gli occhi dell’Ispettore “in modo tale da perdere la capacità di fare del male e finanche il pensiero di volerlo fare”.
C’è ancora un dettaglio: nei progetti di Bentham: la torre centrale ove risiede l’Ispettore, era aperta anche ai visitatori, che potevano essere parenti e amici dei prigionieri, ma anche semplici curiosi.
E. G.
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