La lunga storia dell’ordine pubblico in Italia dalla Liberazione alle manifestazioni dei “no-global”, in un recente libro di due studiosi della materia. Dal clima di “guerra civile” fino alle grandi battaglie del Movimento per la riforma e la smilitarizzazione. Un lavoro che farà discutere
“Potrebbe forse qualcuno preferire una quiete nata dalla rivolta mediante la distruzione di una parte e la vittoria dell’altra, piuttosto che la pace amica sorta dalla riconciliazione?” Si chiede Platone riflettendo sullo stato all’inizio del dialogo delle “Leggi”. È l’interrogativo che dobbiamo rivolgere anche a noi stessi.
In Italia, dal dopoguerra ad oggi, non c’è stata la “distruzione di una parte”, ma con ciò si può veramente dire che si sia imposta “la pace amica”? La “quiete” di per sé non è lo stesso della pace.
Realizzare la pace interna vuol dire per uno Stato annientare veramente entro di sé il livido mostro della guerra civile, facendo sì che tutti i cittadini, non solo una parte, non solo la maggioranza, non si sentano dominati ed oppressi da una potenza estranea e nemica. In Italia questo mostro è stato veramente annientato, oppure i suoi germi rimangono, sia pure allo stato latente, pronti ad insorgere e a minacciare la nostra convivenza? Porsi questo interrogativo vuol dire ripensare con coraggiosa radicalità non solo la storia passata del nostro Paese, ma anche il nostro presente.
Una maggiore consapevolezza storica dell’evoluzione nel tempo della concezione e della pratica di quello che è comunemente chiamato “ordine pubblico” è essenziale per il consolidamento di una matura coscienza civile. Del rapporto delicato tra Stato e cittadino nell’esercizio delle sue libertà di espressione si parla sempre troppo poco, spesso in modo superficiale o prevenuto, per lo più nella cronaca giornalistica, ogni volta che si creano situazioni di tensione, come quella più recente del 2001 a Genova, in occasione del vertice dei G8. Eppure una più diffusa e matura coscienza teorica e storica del problema, nella società e tra le stesse Forze di polizia, contribuirebbe certamente di per sé a risolverlo.
Il sistematico lavoro di Donatella della Porta e di Herbert Reiter (Polizia e protesta – L’ordine pubblico dalla Liberazione ai “no-global” Editrice Il Mulino Bologna 2003, _ 24) viene ad occupare una posizione di rilievo, non solo nella pubblicistica sociologica e storica, ma anche in un panorama sociale e culturale, quale è oggi quello che domina in Italia, minacciato dalla perdita di memoria. L’uscita di questo libro costituisce perciò un avvenimento importante. Certamente per gli “addetti ai lavori”, ma anche per un pubblico più ampio che desidera disporre di un quadro ricco ed approfondito della faticosa, spesso dolorosa, evoluzione politica e sociale dell’Italia dal dopoguerra ad oggi. Il momento non potrebbe essere più opportuno, dato che oggi una tendenza sostanzialmente distensiva ormai ventennale in atto tra Forze di polizia e movimenti di protesta - che gli autori chiamano di de-escalation - sembrerebbe poter subire una inversione. Oltre che un interesse storico culturale, c’è dunque anche una grande urgenza imposta dall’attualità, di ripensare a fondo un aspetto raramente affrontato con un respiro più ampio di quello della cronaca e della polemica spiccia, anche nei suoi presupposti teorici e storici.
L’ordine pubblico non è quello che si dice un “problema particolare”. È una cartina di tornasole che rivela l’evoluzione del rapporto complessivo tra Stato e cittadino, dell’equilibrio sempre critico tra “potere” e “diritti”. Esaminare l’evoluzione nel tempo di quello che viene genericamente chiamato “ordine pubblico”, o con un termine inglese, “protest policing”, in un paese come l’Italia, vuol dire in un certo senso fare la storia della nostra “democrazia reale”, della nostra capacità o meno di perseguire veramente la pace e non solo la “quiete”, al di là delle enunciazioni retoriche di principio.
Alla base dell’esame storico gli autori, premettono una alternativa tra due modelli teorici di concezione della Polizia, l’una della “community policing”, “Polizia della comunità”, di tradizione anglosassone, l’altra della “Polizia del re”, di origine continentale. L’alternativa è radicale: nel primo caso la Polizia si modella sul presupposto che “la sovranità sta in basso”, e il servizio della Polizia consiste essenzialmente nel garantire primariamente i diritti del popolo, nel secondo “la sovranità sta in alto”, e la Polizia allora è essenzialmente strumento del potere, svolgendo un ruolo, di repressione o di mediazione secondo gli orientamenti di quello.
La tesi sostenuta dagli autori è sostanzialmente questa: in Italia il passaggio dalla “Kings police”, dalla Polizia al servizio del potere, alla “Polizia della comunità”, che comporterebbe – aggiungiamo noi - la autentica eliminazione del germe della guerra civile, non è mai completamente avvenuto, per quanto passi distensivi nel senso della applicazione di una concezione non repressiva dell’ordine pubblico siano stati compiuti dal dopoguerra ad oggi. Poiché il presupposto non è stato cambiato, né nella legislazione, né nel senso comune, non solo quello delle Forze di polizia, il rischio di “ritorni al passato”, alla guerra civile strisciante, non è scongiurato.
Il libro ripercorre le vicende delle Forze di polizia in Italia a partire da quella che possiamo considerare la svolta epocale, di “rifondazione” per il nostro Paese, costituita dalla Seconda Guerra Mondiale e dalla Liberazione, fino ad oggi, avvalendosi di un ricco apparato documentario e bibliografico, di testimonianze dirette e di ampi riferimenti alla letteratura scientifica sull’argomento.
Lo “scelbismo”
La fine del regime fascista, la sconfitta militare, la successiva nascita della Repubblica, furono elementi di forte discontinuità che forse avrebbero potuto consentire al nostro Paese di “cambiare binario”, con l’abbandono della tradizione di una Polizia fortemente militarizzata e centralizzata, “strumento del sovrano”, a vantaggio di una Polizia espressione dal basso, dei cittadini. Ma, anche a causa del rapido mutamento della situazione mondiale, con l’inizio della guerra fredda, l’occasione di un rinnovamento profondo della concezione dell’ordine pubblico e dell’organizzazione delle forze di Polizia in Italia non fu colta.
Il fascismo aveva plasmato in profondità lo Stato italiano ed in particolare le Forze di polizia. Il ruolo della Polizia era stato centrale per un regime che aveva fatto della repressione sistematica e capillare di ogni opposizione politica e sociale il cardine della sua identità. Ovvio che il suo crollo comportasse non solo una perdita di prestigio per la Polizia e per i Carabinieri, ma anche che si producesse al loro interno un profondo disorientamento, una demoralizzazione i cui effetti sarebbero stati molto visibili durante il periodo della Liberazione e anche successivamente, fino al 1948.
All’indomani della Liberazione si propose subito il dilemma, la cui soluzione in un senso o nell’altro avrebbe profondamente condizionato la vicenda politico sociale italiana a lungo, probabilmente fino ad oggi, tra “riforma” e “riorganizzazione” delle Forze di polizia. In altri paesi, come il Giappone o la Germania, o, più tardi, la Spagna, dopo la caduta dei loro regimi totalitari o autoritari si ebbe una profonda riforma in senso democratico delle Forze di polizia. In Italia, nonostante diverse prese di posizione in favore di una svolta decisa in questo senso, ciò non avvenne. Né fu affrontata l’anomalia tutta italiana delle “cinque polizie”. Vi furono naturalmente degli interventi – e non poteva non essere in una situazione in cui praticamente tutte le strutture dello Stato italiano erano state lese, più o meno profondamente dalla guerra – ma non collocati all’interno di una visione organica di riforma. Si trattava, insomma, quasi solo di interventi tampone, rivolti cioè a risolvere problemi urgenti di ordinaria amministrazione.
La rottura con il passato fascista non fu né chiara, né decisa, come chiedevano anche gli alleati occupanti. L’epurazione, quando ci fu, fu molto blanda: “Il coinvolgimento di tutte le Forze di polizia nella repressione politica durante il fascismo fu infatti negato dai governi succedutisi dopo l’armistizio e rimane fino ad oggi largamente rimosso dall’immagine e dall’autoimmagine delle Forze di polizia”, scrivono gi autori. La responsabilità del sostanziale fallimento dell’epurazione fu di Giuseppe Romita, socialista e ministro degli Interni del primo governo De Gasperi.
Ma non si trattava solo di riconsiderare la posizione dei singoli individui compromessi con il passato regime. La tradizione della Polizia italiana era quella di un’organizzazione di tipo centralistico e militarista, che si armonizza facilmente con le politiche autoritarie. L’alternativa avrebbe potuto essere una Polizia organizzata in modo decentrato sul tipo di quella britannica, disarmata nei servizi di ordine pubblico. Gli sforzi degli Alleati per orientare il nuovo governo italiano verso questo esito, che si concretizzarono anche nella formazione di una police mission, non ebbero successo. Eppure i suggerimenti della missione alleata erano in sintonia con le rivendicazioni espresse da un’agitazione diffusasi nelle questure italiane nella primavera del 1946. Gli “agenti democratici”, che nel 1947 rivolsero una petizione alla Costituente, oltre a rivendicazioni sul trattamento, la richiesta di poter costituire un sindacato di categoria e di poter eleggere delle commissioni interne, affermava la necessità di una riforma in senso democratico del regolamento e la formazione della Polizia su basi civili. Il Pci inserì queste rivendicazioni nel suo programma elettorale, ma questa piattaforma, come del resto le proposte parlamentari della sinistra sul tema della riforma delle Forze di polizia, non contenevano una concezione dell’ordine pubblico veramente alternativa. Vi erano limiti culturali e politici di fondo anche nell’ispirazione della sinistra, che forse derivano da una - fino ad un certo punto comune a destra e sinistra - inconfessata mitizzazione ottocentesca della Polizia come strumento del potere.
La vecchia Celere
La vecchia filosofia che ispirava l’organizzazione e l’operatività del Corpo non venne messa in discussione praticamente da nessuno. Il socialista Romita, mirando a dimostrare ai conservatori che “democrazia non vuol dire disordine”, riorganizzò la Polizia sulla base di una sostanziale continuità con il passato. La democraticità della “sua” Polizia rimase in larga parte una petizione di principio. La nuova Polizia venne organizzata su basi militari con finalità consone ad una guerra civile strisciante, cioè principalmente repressive della piazza, come è dimostrato anche dalla dotazione di mezzi e di armamento. In particolare la formazione dei Reparti della Celere accentuavano la ispirazione militarista del Corpo. A Romita si deve anche la integrazione nella Ps della Pai, la Polizia coloniale fascista, considerata espressione ancora più organica del vecchio regime, riguardo alla quale gli Alleati avevano manifestato una certa diffidenza. L’inserimento di partigiani nella Polizia ebbe d’altra parte poco successo. Durante il periodo dei governi di unità antifascista la Polizia italiana si riarmò (con l’acquisto, anche illegale, di mitra, autoblindo, ecc.) e si riorganizzò mantenendo sostanzialmente, nel suo “sapere”, cioè nel suo modo di percepire se stessa, la sua vecchia identità dell’epoca fascista.
Con l’inizio della guerra fredda e la rottura dell’unità antifascista, la situazione si cristallizzò ulteriormente. Gli anni dell’immediato dopoguerra videro le Forze di polizia completamente subordinate ad un potere politico che intendeva usarle per contenere e restringere gli spazi non solo dell’opposizione politica, ma anche le possibilità di espressione delle tensioni sociali. Queste venivano interpretate immancabilmente in chiave ideologica, come manifestazioni politiche artatamente organizzate dai “socialcomunisti” in vista dell’insurrezione rivoluzionaria. Lo scontro politico- ideologico si sovrapponeva e ingessava quello sociale in quella che gli autori definiscono la “guerra civile fredda”.
Un ruolo decisivo per consolidare la opzione “continuista”, militarista e anticomunista che prima si era già affermata, ma non ancora apertamente imposta, venne svolto da Mario Scelba, divenuto ministro dell’Interno nel 1947, con un passato antifascista e di fede repubblicana. Con Scelba la concezione e la pratica dell’ordine pubblico avrebbero subito un’ulteriore svolta in senso interventista e militarista. I problemi più gravi dell’immediato dopoguerra (uso diffuso di armi da guerra, banditismo endemico, ecc.) erano stati in certa misura superati, ma lo scontro sociale avrebbe subito un grave inasprimento. Scelba, applicando l’orientamento politico del governo De Gasperi, incoraggiò la Polizia ad intervenire attivamente nei conflitti sociali per garantire la “libertà di lavoro”. All’interno della Polizia Scelba operò per una attenta selezione del personale. Come egli stesso ebbe a dichiarare in un’intervista del 1971, degli 8000 ex partigiani che erano entrati in Polizia dopo la fine della guerra, “aveva fatto piazza pulita”.
Il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza fascista (Tulps) venne mantenuto in vigore, nonostante fosse per diversi aspetti in contrasto con la Costituzione e la repressione di piazza fu spesso violenta e sanguinosa. Nei soli due mesi di novembre e dicembre 1947, in otto interventi di ordine pubblico si contarono 2 morti tra le Forze di polizia e 14 tra i civili. Un episodio a suo modo estremo ed emblematico fu quello dell’eccidio di Modena, il 9 gennaio del 1950, quando, in occasione di uno sciopero di protesta contro la serrata di una fabbrica, 6 dimostranti vennero uccisi e 15 feriti, secondo le cifre ufficiali. In realtà pare che i feriti fossero centinaia.
Il “sapere della Polizia” faceva sì che essa percepisse sé stessa principalmente come strumento di repressione al servizio del potere. Ogni manifestazione di piazza, di per sé, era da essa sentito come una minaccia per l’ordine pubblico, che poteva, al massimo, anche se pacifica e formalmente legale, venire tollerata. L’identificazione tra manifestanti e “facinorosi” era in ogni caso immediata e totale. Allo stesso tempo, la Polizia poneva in ogni caso sé stessa al di sopra di ogni possibilità di critica, essendo anche in ciò “coperta” politicamente dai governi centristi che si susseguirono per tutti gli anni Cinquanta.
Repressione preventiva
Dopo il periodo dello scelbismo, che coincide con la fase più acuta e cruenta dello scontro sociale e politico seguita alla rottura dell’unità antifascista, che costò al Paese più di un centinaio di morti negli scontri di piazza nell’arco di pochi anni, si ebbe una relativa attenuazione della tensione sociale e una diminuzione del numero delle vittime. Ciononostante, la presenza delle Forze di polizia rimase massiccia ed intrusiva, improntata al principio della “repressione preventiva”, che si concretizzava attraverso interventi duri e non selettivi contro gli scioperi e le manifestazioni politiche. Ma anche su un altro piano di dubbia valenza costituzionale le Forze dell’ordine erano molto attive: conducevano un’attività informativa e di schedatura politica capillare sul territorio. Tutte le attività politiche, sociali, culturali, e i loro soggetti, venivano schedate dagli uffici politici delle questure e dai Carabinieri. Per esempio, come ricordano gli autori, “nel 1957 vennero inviate 13.958.820 informative ai ministeri, alle autorità di Ps ed enti vari. Praticamente non si elargiva pensione, non si poteva essere assunti alle poste o alle ferrovie o in qualsiasi branca della Pubblica amministrazione, prima che i Carabinieri non abbiano indagato sulla vita, le opinioni politiche...” (citazione da Bertocci 1960).
Le Forze di polizia in quegli anni reclutavano personale in genere con basso grado di istruzione e in larga prevalenza meridionale. All’interno della Ps - come del resto negli altri Corpi - vigeva una rigida disciplina militare. Un invadente paternalismo dava indicazioni e controllava tutti gli aspetti della vita, anche privata (abitudini, contegno, abbigliamento, rapporti di amicizia ed affettivi) delle guardie. A lungo fu in vigore il divieto del matrimonio prima dei 30 anni di età. Tutto ciò contribuiva a fare della Polizia un Corpo rigidamente militarizzato e separato dalla società civile.
La fine del centrismo venne annunciata da un tentativo di spostare a destra l’asse politico del Paese condotto dal governo Tambroni. La reazione di piazza fu vasta e la repressione, specie a Genova, a Reggio Emilia ed in Sicilia, sanguinosa.
Gli anni del “centrosinistra”
Il successivo inizio della fase del “centrosinistra” allentò un poco la tensione e la presenza “militare” nelle manifestazioni politiche e sociali delle Forze di polizia. Ma la volontà politica dei governi di centrosinistra era debole, segnata da forti contraddizioni. I provvedimenti che vennero presi dai governi di centrosinistra non modificarono sostanzialmente la situazione e il “sapere della Polizia”, per quanto venisse posta maggiore attenzione ai problemi della formazione e della professionalità dei poliziotti. Nonostante le numerose proposte parlamentari di riforma della Polizia, del suo disarmo in servizio di ordine pubblico, di riforma del Tulps fascista in sintonia con la Costituzione, non sortirono effetti di grande rilievo. Le minacce di colpo di Stato (piano Solo del generale dei Carabinieri De Lorenzo) ebbero l’effetto di scoraggiare ancora di più l’impegno riformatore dei socialisti che partecipavano al governo. In ogni caso le innovazioni erano improntate ad uno spirito tecnocratico che non metteva in discussione la concezione generale del ruolo delle Forze dell’ordine nei confronti dei cittadini e il rigore interno nei confronti delle guardie (nel 1965 si abbassava l’età per richiedere l’autorizzazione per il matrimonio da 30 a 28 anni!). Qualche sforzo di rinnovare l’immagine della Polizia venne compiuto. Il capo della Polizia Vicari – che, come notano gli autori, era stato nella segreteria particolare di Mussolini - “fece affiggere bene in vista e nel punto dove più larga era l’affluenza del pubblico, un cartello con la frase: Nello Stato democratico la Polizia è al servizio dei cittadini”. Allo stesso tempo aumentò l’impegno per una maggiore professionalizzazione.
Tutto ciò però non metteva minimamente in discussione la concezione “dell’ordine pubblico” e la natura militare della Polizia, la possibilità di poliziotti, carabinieri, finanzieri, ecc. di costituire propri sindacati, di avere una vita privata non controllata in ogni suo aspetto, insomma non modificava la rigida separatezza dalla società civile in cui questi Corpi erano posti. Ma anche l’opposizione di sinistra non era molto più decisa nella proposta di riforma, che si limitava quasi esclusivamente alla richiesta di modifica del Tulps in senso compatibile con la costituzione. Tra gli interventi, l’unico che si segnala è quello di Ignazio Pirastu, che prospettava “l’abolizione dei prefetti, la rigorosa osservanza dei legittimi compositi di Ps e Carabinieri, il disarmo della Polizia in ordine pubblico, l’abolizione delle squadre politiche e degli schedari politici e il trasferimento agli organi regionali e ai sindaci di parte dei poteri di Polizia”, che non ebbe però alcun esito. Nel complesso il bilancio della stagione del centrosinistra, prima del ’68, viene considerato dagli autori sostanzialmente deludente. La maggiore elasticità della politica di intervento, il suo carattere spesso – ma non sempre – più morbido, non era effetto di un cambiamento di concezione del ruolo – sostanzialmente di scontro - delle Forze di polizia in una società democratica, ma di compromessi politici transitori e sostanzialmente reversibili.
Il ’68 e l’autunno caldo
Il quadro della situazione cambia radicalmente con il ’68. Il nuovo ciclo di protesta suscita una reazione di ritorno al passato nella strategia delle Forze dell’ordine. Ricomincia la sequela dei morti in piazza a causa dell’uso di armi da fuoco da parte della Polizia, o per altri tipi di intervento pericoloso per l’incolumità dei dimostranti (lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo, caroselli, ecc.). Ad Avola, a Battipaglia, durante manifestazioni di lavoratori, la Polizia spara e si hanno ancora vittime. Proprio nel Sud, del resto, si era avuto in assoluto il maggior numero di morti tra i lavoratori dal dopoguerra in incidenti di piazza. Ma anche nel Nord, studenti, lavoratori o qualche volta anche semplici passanti (Saltarelli, Pardini, Tavecchio, ecc.) tra il ‘68 e i primi anni Settanta cadono a causa degli interventi delle Forze di polizia durante manifestazioni. Anche la Polizia, del resto, avrà le sue vittime. Tuttavia nel periodo del centrosinistra già si era notata una maggiore tolleranza e selettività nei confronti delle manifestazioni sindacali. Ma erano ancora poco utilizzate le strategie di mediazione che sarebbero state adottate ben più decisamente negli anni Ottanta. Anche la repressione per via giudiziaria fu massiccia: durante l’autunno caldo 14.000, per lo più lavoratori e studenti furono denunciati, quasi la metà dei quali dall’Autorità di pubblica sicurezza.
Di fronte all’emergere imponente del nuovo fenomeno della contestazione studentesca le Forze di polizia incontrarono nuove ed impreviste difficoltà. Abituate dagli anni Cinquanta ad avere a che fare con dirigenti politici della sinistra e quadri sindacali, queste si trovano all’improvviso davanti ad una nuova leva di giovani attivisti sui quali non sanno praticamente nulla. In piazza, i comportamenti degli studenti, a differenza di quelli del movimento operaio tradizionale, sembravano strani ed imprevedibili.
In ogni modo, la escalation militare dell’intervento, i cupi fuochi della guerra civile strisciante, si ravvivano, di pari passo con la politicizzazione del movimento degli studenti, che usciva dalle università e cercava alleanze in primo luogo con la classe lavoratrice. La concezione di fondo per la quale ogni manifestazione di piazza è di per sé un elemento di turbativa “dell’ordine pubblico” e non, invece, una vitale espressione – si concordi o meno con i suoi contenuti – del “popolo sovrano”, la preferenza per la quiete invece che per la pace, continuavano ad essere largamente dominanti. La questione di un mutamento nella ispirazione e nelle finalità di fondo delle Forze di polizia, della loro formazione e organizzazione, insomma, la questione della riforma della Polizia non era comunque posta praticamente da nessuno, nemmeno dall’opposizione. Gli interventi, fino a che non nacque all’interno della istituzione il Movimento per la riforma della Polizia, riguardarono sempre aspetti particolari dell’organizzazione militare. La contestazione politica da parte delle opposizioni rimase sempre circoscritta ai singoli episodi considerati di repressione brutale. Ciò contribuisce a spiegare come mai il “sapere della Polizia” ispirato al principio della “guerra civile fredda” non fosse sostanzialmente cambiato dal primo dopoguerra, nonostante gli enormi mutamenti politici, sociali e culturali intervenuti in Italia nei decenni fino agli anni Settanta.
Ma già nelle prime lettere pubblicate dal periodico diretto da Franco Fedeli, “Ordine pubblico”, ampiamente citato nel libro insieme alle altre testate che nel tempo Fedeli ha fondato - ultima questa stessa rivista - si percepisce il crescere di un malessere che inizialmente si scaglia contro gli “impacci” legali e rivendica più “mano libera” per la Polizia sulle piazze, ma gradualmente descrive una sensibilità nuova, che male tollera il paternalismo soffocante, spesso addirittura la umiliante servitù privata alle dipendenze dei superiori, dentro la Polizia. La militarizzazione, con tutto ciò che ne consegue (disciplina rigida, assenza di diritti sindacali, divieti e controlli sulla vita privata dei singoli, ecc.) viene sentita come una grave e sempre meno tollerabile limitazione. I poliziotti cominciano a percepire se stessi come “lavoratori”. Questo fatto, forse più di ogni altro, dimostrava che il semplice “ritorno al passato” di fronte al nuovo, imponente ciclo di protesta non era sostenibile. La strage di piazza Fontana, del dicembre del ’69, l’inizio della “strategia della tensione”, volta ad allarmare i ceti medi facendo crescere tra di essi la domanda di “legge ed ordine”, apriva la stagione del terrorismo.
Il Movimento per la riforma della Polizia
Il malcontento diffuso nella Polizia espresse un Movimento per la riforma, la smilitarizzazione, la sindacalizzazione che, dapprima clandestino, ricevette via via il riconoscimento politico dell’opposizione e di una parte della stessa maggioranza (i socialisti, la sinistra democristiana) e soprattutto la compatta solidarietà della Confederazione Cgil-Cisl-Uil. Dopo un tempo immemorabile in cui aveva dominato la ostilità e la diffidenza reciproca tra i lavoratori e la Polizia in Italia, finalmente un muro cadeva. Il neonato sindacato di Polizia venne accolto nella Confederazione Unitaria, che mise a disposizione le sue strutture organizzative. Le sedi sindacali cominciarono a venir frequentate (incredibile a dirsi!) anche dalle assemblee dei “lavoratori della Polizia”. Si giunse al punto (altra cosa che solo qualche anno prima sarebbe sembrata pazzesca) che in tutta Italia milioni e milioni di lavoratori scioperarono per sostenere la richiesta di riforma del Movimento democratico per la riforma della Polizia. Allo stesso tempo però “negli anni Settanta le istituzioni reagirono alla radicalizzazione dei movimenti della sinistra libertaria con una strategia coercitiva basata sull’uso massiccio della forza che, in molte occasioni, riportò alla tradizione degli anni Cinquanta...”, osservano gli autori. La durezza e talvolta il carattere “preventivo” dell’intervento vennero applicati più selettivamente, soprattutto nei confronti di manifestazioni o di spezzoni di cortei di “extraparlamentari”, ma continuava la capillare attività informativa di Carabinieri e Digos. Negli anni settanta sono ancora tanti i casi di morti in piazza tra i dimostranti, sebbene con numeri non paragonabili a quelli degli ultimi anni Quaranta e Cinquanta. La situazione politica era cambiata profondamente nella seconda metà degli anni Settanta, per la “non sfiducia” del Pci al governo Moro, la rottura tra sindacato e studenti nel 1977, l’aggravarsi del fenomeno del terrorismo, sia “rosso” che “nero” stragista, al rapimento e uccisione dello stesso Moro e della sua scorta. Ma intanto la mobilitazione e la nuova coscienza maturata all’interno della Polizia, la identificazione della figura del poliziotto con quella del lavoratore, una diffusa presa di coscienza anche nei quadri intermedi della necessità di dare anche all’Italia una organizzazione della Polizia civile, moderna, professionalmente preparata, fecero maturare le condizioni affinché finalmente, all’inizio degli anni Ottanta, la smilitarizzazione e la riforma della Ps venisse varata dal Parlamento. Allo stesso tempo la escalation della protesta viveva la sua fase discendente.
Gli anni della de-escalation
Le strategie adottate dalla Polizia durante gli anni Ottanta e Novanta si possono porre nel quadro del “soft policing”, cioè di un’attuazione complessivamente “dolce” degli interventi nelle dimostrazioni di piazza, una “dolcezza” però non generalizzata, ma selettiva, in relazione alla tipologia dei manifestanti. Viene privilegiata la cooperazione con i sindacati e i soggetti politici e sociali ritenuti “affidabili”. Comprensione e solidarietà si manifesta spesso nelle Forze dell’ordine nei confronti dei lavoratori in lotta per i loro problemi (lavoro, casa, ecc.), considerati “buoni”. Diffidenza o addirittura ostilità, viceversa, nei confronti di quei manifestanti che si mobilitano per “questioni di principio” o “problemi astratti”, che sono percepiti come “cattivi”. Allo stesso tempo però non diminuisce l’attività di raccolta di informazioni sui cittadini da parte dei Carabinieri e della Digos delle diverse questure, allo scopo di offrire al governo un panorama aggiornato delle dinamiche politiche, sociali e culturali delle diverse situazioni. Questo fa sì che – come affermano gli autori – le Forze di polizia, o almeno i loro Reparti informativi, svolgano una funzione “epistemologica” – non si sa quanto appropriata e compatibile con la Costituzione - per conto del governo, che pure potrebbe disporre di ben altri strumenti di effettivo rigore scientifico per conoscere le dinamiche in atto nella realtà del Paese. Sui presupposti teorici e gli schemi operativi dell’approccio epistemologico di Carabinieri e Digos alla realtà della società complessa di oggi – sia detto per inciso - sarebbe interessante avere elementi più precisi, ma si può supporre che sia difficile disporne. Ciò che conferma in ogni caso, nonostante la costituzione e la riforma, il ruolo di “Polizia del sovrano” o “occhio del potere” che dir si voglia, delle Forze dell’ordine, persistente nonostante tutto, nel nostro Paese.
Negli anni Ottanta e Novanta sulle piazze vengono attuate strategie di dialogo e di corresponsabilizzazione che permettono una de-escalation. “Nel sapere della Polizia – scrivono Della Porta e Reiter – sembra esserci un restringimento della concezione dell’ordine pubblico ai casi di effettivo pericolo per la sicurezza”. Nuovi problemi, prima quasi trascurabili si affacciano all’orizzonte: la violenza sportiva, il commercio abusivo, l’immigrazione clandestina, ecc. Alla relativa “depoliticizzazione” della protesta corrisponde un aumento della violenza gratuita, soprattutto negli stadi, dove ci sono anche alcune vittime. Allo stesso tempo vi è una maggiore omogeneità della società ad esaltare il carattere pacifico della protesta e a condannare la violenza di piazza. Ma la nuova fase distensiva è dovuta essenzialmente ad atteggiamenti discrezionali delle Forze di polizia, non alla effettiva revisione delle leggi. “Se la riforma della Polizia – scrivono gli autori - ha avuto importanti conseguenze in termini di smilitarizzazione, con riferimenti anche a una concezione della ‘Polizia dei cittadini’, buona parte dell’armamentario dei poteri della Polizia di restringimento dei diritti di riunione e manifestazione in caso di presunti pericoli per l’ordine pubblico, è rimasto intatto”.
L’esaurimento della carica della riforma
La frantumazione corporativa del sindacato è indicata come una delle ragioni di fondo dell’esaurimento della spinta propulsiva del movimento interno che fu il vero protagonista in Italia dell’unica vera, anche se riconosciuta dagli autori come parziale, riforma delle Forze dell’ordine in più di cinquant’anni. E qui credo di dover rilevare una delle poche lacune di una trattazione peraltro precisa e complessivamente esauriente, per quanto può esserlo ovviamente una materia così vasta e complessa (l’altra importante lacuna mi sembra la assoluta mancanza di riferimenti al Movimento per la smilitarizzazione e la sindacalizzazione della Guardia di Finanza, che pure ha avuto ed ha una sua rilevanza nel panorama delle dinamiche interne delle Forze di polizia). È questa: non si trova menzione nel libro di Donatella Dalla Porta ed Herbert Reiter dell’episodio della denuncia dei maltrattamenti subiti dai sequestratori del generale americano Dozier dopo il loro arresto, compiuta dal capitano della Ps Riccardo Ambrosini e dall’agente Gianni Trifirò, entrambi esponenti del Siulp. In particolare, l’isolamento di Ambrosini, che era stato uno degli animatori più decisi della lotta per la riforma e che ricopriva incarichi di dirigenza nazionale e regionale nel sindacato di Polizia, da parte della federazione sindacale unitaria, per quanto avvenisse sulla spinta di un’ondata di rigetto all’interno della stessa Polizia, che non accettava di essere messa sotto accusa specie dopo un grande successo di immagine come quello della liberazione di Dozier, fu un grave errore politico. I maltrattamenti ci furono, se vennero negati fu per considerazioni di opportunità politica. Fu una facile concessione allo spirito corporativo, ancora molto forte nella Polizia, che nell’immediato permise di evitare lacerazioni nella base del Siulp, ma che comportò un pesantissimo passo indietro nella capacità della Polizia di compiere il passaggio definitivo allo spirito della “community police”. Di una Polizia, cioè, trasparente, che non si considera al di sopra della legge ed è disposta a farsi giudicare e ad ammettere di avere sbagliato quando è necessario. Questo errore venne pagato sulla lunga distanza con la perdita di carica ideale da parte del Movimento che aveva dato impulso alla riforma, premessa per la successiva frantumazione corporativa e perfino clientelare del sindacato.
Dalla de-escalation al nuovo “ciclo della protesta”
L’esaurimento dello spirito della riforma, il venire meno della tensione unitaria anche per ragioni più generali di quadro politico e sindacale, oltre che l’inazione dei governi – anche di quelli dell’Ulivo - riguardo ai problemi di organizzazione della Polizia, hanno comportato che, di fronte al profilarsi di un nuovo ciclo di protesta, riapparissero comportamenti dubbi o deprecabili, poco professionali, quando non apertamente illegali, nelle Forze di polizia, che si ritenevano ormai sepolti nel passato. La morte di Carlo Giuliani a Genova, le vicende accadute nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto in occasione del G8, sono un tragico segnale di allarme.
Sui problemi “dell’ordine pubblico” vi è certamente un ritardo culturale generale nel nostro Paese, oltre che politico. La riforma del 1981 non ha risolto completamente la questione della militarizzazione, che di per sé più direttamente richiama l’idea di “guerra”, “interna” o “civile” che sia. Carabinieri e Guardia di Finanza continuano infatti ad avere organizzazione e mentalità militare. La legislazione, per quanto applicata per lo più con moderazione e in uno spirito prevalentemente collaborativo, resta in gran parte quella antica, come la pratica informativa riguardo i cittadini, più adatta ad una occhiuta “Polizia del sovrano” che ad una autentica Polizia democratica. Inoltre l’anomalia tutta italiana delle “cinque Polizie” non è stata toccata. I problemi di coordinazione tra le diverse Polizie restano aperti (o anche aggravati da provvedimenti del tipo di quello preso dal governo D’Alema di elevare l’Arma dei Carabinieri al rango di “Quarta Arma”). Restano gli inutili doppioni, la concorrenza (spesso non proprio “sana”) invece che la coordinazione tra i diversi Corpi di Polizia, i disguidi, gli sprechi in termini di uomini e di risorse che essi comportano.
Quiete o pace
Di fronte ad un nuovo “ciclo di protesta” come quello aperto dal movimento no-global i rischi di ritorno al passato sono forti. Gli autori, nelle conclusioni, ribadendo che l’unica vera riforma della Polizia in Italia, in oltre mezzo secolo, è stata quella del 1981, ottenuta grazie alla mobilitazione in primo luogo interna, ma anche fortemente sostenuta all’esterno dalle organizzazioni sindacali e dai partiti della opposizione. Considerano però anche questa riforma incompleta e non irreversibile, soprattutto per le carenze di una strumentazione giuridica e le ambiguità ancora persistenti nel “sapere della Polizia”. Decisivo dovrebbe essere il passaggio delle Forze di polizia nel nostro ordinamento da una concezione – pur con tutti i distinguo e la duttilità posti in atto nell’ultimo ventennio - ancora sostanzialmente “riduttiva” del cosiddetto “ordine pubblico”, ad una che riconosce la libera, pubblica manifestazione del pensiero e della protesta in quanto tale, come un bene sociale, una risorsa per tutta la comunità, che va di per sé salvaguardato e protetto. Insomma il passaggio dall’obiettivo della “quiete” a quello della “pace”.
Il fatto che in uno stesso giorno più di cento milioni di persone in tutto il mondo manifestino la loro protesta ci da il segno di quanto sia cambiata la situazione “dell’ordine pubblico”, non solo nel nostro Paese, nell’ultimo mezzo secolo. Le forme di partecipazione e di protesta “dal basso” tendono ad arricchirsi ed articolarsi, a fronte anche di urgenze planetarie immense ed inedite, rispetto alle quali gli strumenti tradizionali della partecipazione politica sembrano insufficienti. Nuove minacce, del terrorismo, della manipolazione mediatica delle masse, dei poteri occulti, mettono a rischio la tenuta della stessa democrazia. E qui, con l’auspicio che il nuovo ciclo di protesta possa stimolare l’avvio di una nuova riflessione culturale e il crearsi di una nuova sensibilità, più adeguata alla realtà dei problemi del cosiddetto “ordine pubblico”, - che fino ad oggi non hanno trovato molta disponibilità in entrambi gli schieramenti politici, di maggioranza e di opposizione - si conclude l’ampia e preziosa panoramica storica sull’evoluzione del rapporto tra “potere e diritti” in Italia dal dopoguerra ad oggi.
Resta, alla fine, ancora aperto il grande interrogativo che implicitamente la sovrasta: se sia cioè definitivamente estinto, o sia ancora vivo, sia pure allo stato latente, nel nostro Paese, il “mostro della guerra civile”. Se la situazione in Italia sia oggi tale da escludere che anche una parte solo minoritaria della popolazione si senta ancora larvatamente o potenzialmente “in guerra”, e le Forze di polizia reciprocamente con essa.
Dovremmo ricordarci di ciò che Hobbes, in un passo del suo “Leviatano”,dice. “La natura della guerra - osserva il filosofo inglese - non consiste nell’effettivo combattere, ma in una disposizione in tale senso per tutto il tempo in cui non c’è sicurezza per una disposizione contraria”. Sul ruolo delle Forze di polizia nella società di oggi, sulla possibilità concreta di affermazione definitiva della “disposizione contraria”, cioè della effettiva “pace civile” nel nostro Paese - che darebbe finalmente legittimazione universale del nostro Stato - a distanza di più di mezzo secolo da una malaugurata, tragica“guerra civile fredda” forse mai definitivamente sepolta, oltre che sulle questioni di grande valore storico e di attualità proposte dagli autori di “Polizia e Protesta”, varrà sicuramente la pena di tornare.
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