Un libro di Rita Di Giovacchino sui fatti più terribili che si verificano in Italia dall’inizio degli anni Settanta: dal “golpe” borghese fino alla “banda della Magliana”, passando per il duplice processo ad Andreotti
21 settembre 1990: un giovane magistrato siciliano, Rosario Livatino, viene ucciso dalla mafia.
9 agosto 1991: Antonino Scopelliti, procuratore generale di Cassazione, anch’egli impegnato nella lotta alla criminalità organizzata, cade in un agguato della 'ndrangheta.
17 febbraio 1992: l’arresto di Mario Chiesa fa esplodere Tangentopoli.
23 maggio 1992: strage di Capaci.
19 luglio 1992: strage di via d’Amelio.
Sono solo pochi, drammatici eventi che hanno aperto gli anni Novanta in Italia e che hanno segnato la fine di un’epoca. Un’epoca torbida, di trame e di segreti, di eversione rossa e nera cominciata con i primi anni Settanta quando un attentato al treno la Freccia del Sud provocò sei morti e centotrentanove feriti, quando a Palermo scomparve il giornalista Mauro De Mauro e quando, sempre a Palermo, la mafia uccise il magistrato Pietro Scaglione. Su tutti questi episodi, sulle ferite della nostra democrazia, sulle ragioni e sulle complicità dei delitti, oggi abbiamo molti documenti, molte notizie ma poche certezze definitive.
Rita Di Giovacchino, giornalista che da molti anni si occupa di cronaca giudiziaria per un importante quotidiano romano, ha contribuito alla ricerca di queste certezze con il suo recente volume “Il libro nero della prima repubblica” (Fazi editore, pag. 443, 18 euro), che è un’indagine e una testimonianza al tempo stesso.
È diviso in tre parti, precedute da un prologo e seguite da un epilogo.
Il prologo è dedicato ai due processi contro Giulio Andreotti, sette volte Presidente del Consiglio. Imputato a Palermo con l’accusa di associazione mafiosa e a Perugia con quella di mandante dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli. Nel primo caso il senatore è stato assolto due volte ma non con formula piena, perché il fatto non sussiste. A Palermo è stato bensì assolto ma solo a partire dal 1982. Da quella data in avanti i magistrati hanno ritenuto le prove “contraddittorie e insufficienti”. Prima del 1982 non è stato possibile condannarlo perché non esisteva nel Codice il reato di associazione mafiosa. Esisteva il reato di associazione a delinquere per il quale, tuttavia, Andreotti non è stato assolto ma prescritto perché le accuse erano decadute a causa del lungo tempo trascorso.
Nel secondo caso è stato condannato con l’accusa più grave: mandante dell’omicidio Pecorelli, ma l’accusa poi è stata annullata dalla Cassazione.
La prima parte del volume della Di Giovacchino descrive i terribili anni Settanta: la morte del giornalista Mino Pecorelli, la storia del tentato golpe del comandante Jiunio Valerio Borghese, il Principe nero ex comandante della X Mas. E, ancora, la storia di Gladio, una struttura segretissima che violava le norme costituzionali e che in pochissimi conoscevano. Poi seguono le vicende di Licio Gelli, della P2 e del banchiere Michele Sindona.
Nella seconda parte invece è ricostruita l’intera vicenda di Aldo Moro: l’agguato in via Fani, i cinquantacinque giorni di prigionia nel “carcere del popolo”, i tentativi di salvare la vita allo statista democristiano, gli interrogativi mai sciolti del rapimento.
La terza parte è dedicata ad una agenzia del crimine: la banda della Magliana, che passa lentamente dai sequestri di persona, in verità poco redditizi, alla speculazione edilizia, soprattutto in Costa Smeralda, più sicura e più vantaggiosa economicamente.
È la volta dei delitti di Palermo. Scrive Rita di Giovacchino: “Tra gli ultimi anni Settanta e i primi Ottanta, Cosa nostra… intervenne anche nella soluzione di contrasti ‘’esterni’ per assicurarsi protezione e impunità… I boss alzarono il tiro: sotto i colpi di lupara e kalashnikov caddero poliziotti, magistrati, politici, giornalisti in un vortice che culminerà con l’omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa…”
L’epilogo ci riporta alla morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: “Erano le diciassette e cinquantasei del 23 maggio 1992 sull’autostrada A29, all’altezza di Capaci, quando la violentissima deflagrazione spalancò il manto stradale disintegrando una Fiat Croma blu; la seconda macchina, una Croma bianca, si schiantò contro il muro di sassi e cemento provocato dall’esplosione; la terza, un’altra Croma blu, finì in quel groviglio di lamiere contorte…” Cinquantasette giorni dopo, il 19 luglio, un altro terribile boato scosse Palermo: un’autobomba dilaniò Borsellino, candidato a diventare Procuratore nazionale Antimafia. Sarebbe venuto poi l’attentato al popolare giornalista Maurizio Costanzo, salvatosi per un soffio dopo l’esplosione in via Fauro, a due passi dal teatro Parioli. E poi ci sarebbe stato l’attacco ai monumenti di Firenze a via dei Georgofili, a Roma nei pressi della Basilica di San Giovanni e della Chiesa del Velabro.
“Il libro nero della prima repubblica” è un libro che, come afferma il senatore Massimo Brutti nella prefazione, è stato scritto per ricordare e far ricordare. È un libro che dovrebbero leggere soprattutto le giovani generazioni per sapere ciò che è stato perché solo conoscendo il passato è possibile costruire il futuro. Per usare le parole di Camus nell’epigrafe iniziale del testo: “Chi potrebbe rispondere alla terribile ostinazione del crimine se non l’ostinazione della testimonianza?”
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Abbiamo rivolto all’autrice alcune domande.
Perché ha deciso di scrivere un libro impegnativo e, per molti aspetti, pericoloso come questo?
L’idea in verità è stata del mio editore che all’epoca non conoscevo. Il senatore Andreotti era stato condannato a ventiquattro anni per omicidio. La notizia aveva provocato, comprensibilmente, grande scalpore. Ora la condanna è caduta, Andreotti è stato definitivamente assolto in Cassazione, ma non mi pento di aver accettato la proposta o perlomeno non mi pento del libro che ho scritto. Era una storia che bisognava avere il coraggio di raccontare, anche perché quel processo, se non ha consentito di far luce sull’omicidio Pecorelli, ha certamente illuminato una zona buia della nostra storia recente.
Le vicende di mafia occupano gran parte del “libro nero”. Questa sua attenzione nasce dall'esperienza professionale o ritiene davvero che la criminalità organizzata abbia avuto un ruolo di così grande rilievo nella storia d'Italia?
L’ultima parte del libro è dedicata alla crisi del sistema dei partiti e alle stragi di Capaci e via d’Amelio che hanno traumaticamente posto fine alla prima repubblica. Credo che sia importante approfondire cosa sia davvero successo in quel periodo di transizione per capire lo strano destino di Andreotti che da grande manovratore appare quasi una pedina nelle mani di quei poteri forti che non hanno più bisogno della Dc.
La mia tesi è che la mafia è stata utilizzata per contrastare il comunismo. Un ruolo che è servito a stabilizzare il sistema politico attorno al partito di maggioranza relativa. Ma la mafia è stata utilizzata anche quando questo sistema politico, con la caduta del muro di Berlino, non era più funzionale ai nuovi assetti internazionali. Le stragi di Capaci e via d’Amelio, diversamente da quelle degli anni Settanta e Ottanta, avevano finalmente un obiettivo destabilizzante e non stabilizzante.
Lei ha scritto: "…C'era il sole e c'era l'ombra… noi sudavamo e battevamo i denti. Il senatore no. Lui non conosce né il caldo né il freddo… Non ha mai saltato un pasto o tradito un'emozione". Chi è il senatore con lo sguardo imperscrutabile e con le proverbiali orecchie appuntite?
Un grande mistero. Un politico finissimo, non uno statista: per lui il potere è un fine, non un mezzo per raggiungere il fine. Forse per questo è stato protagonista delle più diverse alchimie politiche e di governo: l’uomo della svolta a destra nel ’72, dopo essere stato un moderato sostenitore del centro sinistra negli anni Sessanta e poi di nuovo molto amato dai comunisti negli anni Ottanta per la sua politica filoaraba.
Nella lunga permanenza al ministero della difesa ha certamente stabilito contatti con i servizi segreti di tutto il mondo, anche con la Cia, che ha saputo utilizzare a suo vantaggio. Ma non credo possa essere considerato uomo degli americani. Anzi a partire dall’87, almeno a leggere certe note dell’Agenzia di recente desecretate, era molto poco amato oltreoceano, gli preferivano di gran lunga Craxi, nonostante l’incidente di Sigonella. Ecco credo che sia stato in quel momento che si è giocato il suo destino: lui puntava ad andare al Quirinale, ma il suo tempo era scaduto… Le radici del potere di Andreotti non erano oltreoceano, semmai oltre Tevere.
Ad un certo punto nella seconda parte del libro lei riporta due spezzoni di dialogo sul caso Moro: uno tra il maresciallo Incandela, fidato collaboratore del generale Dalla Chiesa, e Francis Turatello, esponente della mala marsigliese. L'altro tra il boss Tommaso Buscetta e lo stesso Incandela. Questi dialoghi confermerebbero che Dalla Chiesa era entrato in possesso dei documenti Moro. E questo sarebbe il movente di una lunga serie di omicidi tra cui quello di Pecorelli e dello stesso Dalla Chiesa. Lei crede a questa tesi?
Uno dei motivi per i quali Andreotti è stato assolto a Perugia per il delitto Pecorelli è che le affermazioni di Incandela non sono state tenute in gran conto. A delegittimarle è stato Nando Dalla Chiesa, il figlio del generale per timore che le affermazioni del maresciallo nuocessero all’immagine del padre. Così il testimone chiave è diventato un mitomane.
Io non credo che il maresciallo abbia mentito anche se non avendo visto quelle carte non è stato in grado di spiegarne il contenuto. Neppure credo che le affermazioni di Incandela potessero nuocere al generale Dalla Chiesa: che, come credo, era davvero entrato in possesso di scritti che rivelavano l’esistenza di Gladio e aveva l’obbligo di riferire la notizia soltanto al Presidente del Consiglio, non ai magistrati, essendo in gioco non soltanto la sicurezza dello Stato ma quella di tutta l’alleanza atlantica.
Ritengo che Dalla Chiesa aveva scoperto cose ancor più gravi: forse aveva individuato la prigione di Moro e proposto un blitz per liberarlo che non gli hanno consentito di fare. Su questo episodio esistono testimonianze ineccepibili, come quella del professor Carlo Alberto Moro. Lo ha anche scritto in un suo libro, indicando la località sul litorale romano.
Perché nel 1980 lo Stato scese a patti con le Brigate Rosse e pagò un riscatto per la liberazione dell’assessore democristiano Cirillo, rinnegando la linea della fermezza che solo due anni prima aveva adottato con intransigenza per il sequestro di Moro, presidente dello Scudo Crociato?
È una bella domanda, alla quale è difficile dare una risposta accettabile anche moralmente. Fatto è che quel rapimento delle Brigate Rosse era stato gestito da Giovanni Senzani, un uomo legato al Sismi, protagonista di molti viaggi in America e a Parigi dov’era in contatto con la misteriosa scuola dell’Hiperìon che, secondo magistrati e commissioni parlamentari d’inchiesta, probabilmente nascondeva una centrale di controspionaggio.
Alcune pagine finali del libro sono dedicate a uno dei più spietati killer di Cosa nostra: Nino Gioè. Perché?
Gioè è uno dei sette killer che hanno atteso Falcone sulla collinetta di Capaci. La sua storia non è soltanto quella di un boss spietato. Dall’inchiesta di Caltanissetta emerge un suo ruolo importante nelle trattative tra mafia e apparati dello Stato tra il ’92 e il ’93. E a detta del cugino Frank Di Carlo, prima della strage di Capaci, il killer sarebbe stato addirittura contattato da agenti segreti angloamericani.
Anche la sua morte presenta elementi di oscurità. Quando sarà chiaro con chi si è incontrato, per quale motivo si è ucciso, se si è ucciso, sapremo molto di più non soltanto sulle ultime stragi ma anche sull’Italia nata da quelle macerie. L’Italia di oggi.
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