home | noi | pubblicita | abbonamenti | rubriche | mailing list | archivio | link utili | lavora con noi | contatti

Giovedí, 22/10/2020 - 14:46

 
Menu
home
noi
video
pubblicita
abbonamenti
rubriche
mailing list
archivio
link utili
lavora con noi
contatti
Accesso Utente
Login Password
LOGIN>>

REGISTRATI!

Visualizza tutti i commenti   Scrivi il tuo commento   Invia articolo ad un amico   Stampa questo articolo
<<precedente indice successivo>>
maggio/2004 - Interviste
Jihad
Terrorismo o guerra santa?
di Belphagor

Mentre il pericolo di attentati aumenta e si espande, la guerra in Iraq si dimostra definitivamente una scelta sbagliata, controproducente, utile solo a Osama bin Laden e ai suoi sodali

Ormai è evidente anche a chi non aveva voluto vederlo. La guerra in Iraq, con la successiva invasione e occupazione, oltre che al di fuori della legalità internazionale, dal punto di vista della lotta al terrorismo è stata, e continua ad essere, peggio che inutile, controproducente, dannosa. Un disastro, con immani distruzioni, migliaia di vittime, e la diffusione di un fenomeno terroristico che diviene sempre più feroce, pericoloso. In Iraq (dove prima della guerra gli estremisti islamici erano tenuti a bada dalla dittatura di Saddam Hussein, che li detestava e ne era detestato), e ovunque altrove nei cinque continenti. In particolare in Europa.
I perché di questa guerra hanno fatto, giustamente, discutere, in America e nei paesi amici (che sono molti, tenendo conto della distinzione tra “amico” e “lacché”), dato che le motivazioni fornite apparivano tutt’altro che convincenti: le armi di distruzione di massa che avrebbe posseduto Saddam, e le sue supposte connessioni con il terrorismo islamico, con la al-Qaida di Osama bin Laden. Dopo il breve conflitto in Afghanistan, la caduta del regime dei Talibani, e lo smantellamento delle basi dello Sceicco Nero, George W. Bush e il suo clan della Casa Bianca affermavano l’esigenza e l’urgenza di colpire Baghdad, per le suddette ragioni: molti governi si erano dichiarati scettici, per non dire diffidenti, altri, invece, avevano entusiasticamente aderito alla campagna bellica di Washington: in testa, quello spagnolo di José Maria Aznar, e quello italiano di Silvio Berlusconi. Prima sostenendo la “legittimità” dell’intervento americano-britannico, e poi, terminata la fase iniziale della guerra, con l’invio di un contingente militare.
In realtà, come è stato ammesso con incredibile disinvoltura, le terribili armi di Saddam non esistevano, e non vi erano basi terroriste nell’Iraq controllato dal dittatore iracheno. E non è tutto. A dare un colpo definitivo alle decantati certezze dell’amministrazione Bush e dei suoi sostenitori europei, sono venute, nel marzo scorso, le rivelazioni di Richard Clarke, per cinque anni (prima con Clinton e poi con Bush) capo del Consiglio nazionale di sicurezza, contenute in un libro, “Against all enemies” (Contro tutti i nemici), e da lui confermate davanti alla Commissione incaricata di indagare sugli attentati dell’11settembre 2001. Clarke non è un pacifista, ha sempre sostenuto il partito repubblicano, è un professionista di lunga esperienza che, dopo le dimissioni dal suo incarico, tiene dei corsi di scienze politiche legate alla sicurezza. Clarke racconta che fino dal gennaio 2001 aveva chiesto insistentemente di affrontare il problema di al-Qaida e i suoi collegamenti, ma Condoleeza Rice, consigliere per la sicurezza, aveva di continuo trovato pretesti per rinviare: la prima riunione a livello ministeriale su questo tema era stata tenuta solo il 4 settembre, sette giorni prima degli attacchi aerei a New York e a Washington. E anche allora, dice Clarke, non fu molto produttiva: “Il segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, appariva distratto, e sposò la tesi del suo vice, Paul Wolfowitz, secondo il quale sul fronte del terrorismo c’erano altre priorità. Come l’Iraq”. Vi è di più: proprio per l’11 settembre 2001, Condoleeza Rice aveva preparato una lunga relazione sulla sicurezza nella quale al-Qaida e Osama bin Laden neppure erano citati. Naturalmente, la relazione non fu mai letta, e la Casa Bianca ha rifiutato di mostrarne il testo alla Commissione d’inchiesta. “La minaccia terroristica - dice Clarke - non si sconfigge solo con la forza bruta”. Altrimenti, aggiunge, si rischia di finire cone accadde alla Francia in Algeria: “Ai miei colleghi della Casa Bianca, che dopo l’11 settembre mi chiedevano un suggerimento di lettura che li aiutasse a capire il problema, ho sempre suggerito di procurarsi una cassetta del film La battaglia di Algeri. Lì si capisce come si può vincere una battaglia e perdere la guerra”. Il fatto che l’americano Clarke suggerisca la visione del film di una regista “comunista” come Gillo Pontecorvo sembra far escludere che il consiglio possa essere trasferito dalla Casa Bianca a Palazzo Chigi.
“Con la guerra in Iraq - ha scritto su La Stampa il senatore Edward Kennedy, commentando le ultime accuse al presidente e ai suoi collaboratori - fondata dunque su un inconsistente pretesto, il presidente Bush ha trascurato la vera guerra al terrorismo, concedendo ad al-Qaida due anni, ben due anni, per riorganizzarsi e riassestarsi nelle regioni di confine dell’Afghanistan. Come dimostrano gli attentati di Madrid e altri recenti eventi, al-Qaida si è servita di questo tempo per dislocare cellule in tutto il mondo e creare legami con numerosi gruppi terroristici di altri paesi… La scriteriata guerra irachena ci ha fatto perdere di vista la vera guerra che dobbiamo vincere, e anzi l’ha resa maggiormente insidiosa, lasciando l’America sempre più isolata nel mondo”.
È ovvio che, con le elezioni presidenziali del prossimo novembre, Gorge Bush voglia chiudere al più presto le polemiche sull’Iraq. E per questo motivo, davanti alla Commissione d’inchiesta, Condoleez Rice ha cercato di dargli una mano sacrificando la propria credibilità. Ad esempio, a proposito di alcuni rapporti dei servizi segreti (Cia e Fbi), precedenti di oltre un mese l’11 settembre, su infiltrazioni di al-Qaida negli Stati Uniti, e sui corsi di pilotaggio seguiti da suoi membri, la Rice ha risposto: “Non ricordo se ho parlato di questo con il presidente. Non ricordo se ci venne detto che avremmo dovuto fare qualcosa contro le cellule di al-Qaida. Il presidente sapeva che l’Fbi si occupava del problema”. Quanto all’avvertimento di un piano per usare aerei in un attacco terroristico, esso era stato ricevuto, ma solo in seguito i suoi collaboratori le avevano mostrato il relativo memorandum.
È verosimile tanta insipienza? Forse sì, almeno in parte, considerando che la guerra in Iraq era già nei piani di Bush e dei suoi sostenitori (con in prima fila le grandi società petrolifere, l’industria degli armamenti, e le aziende incaricate della “ricostruzione”, come la Halliburton, molto vicina agli interessi del vicepresidente Cheney), e del resto questo conflitto è stato pervicacemente millantato come una guerra al terrorismo. Tanto che, quando, dopo un anno dalla “pace”, in Iraq si è continuato a combattere, le autorità di occupazione non hanno trovato di meglio che dare ai guerriglieri l’etichetta di “terroristi”. Conferendo così ai terroristi veri, che certamente hanno approfittato dell’occasione per infiltrarsi nel caos iracheno, uno status da loro sempre vanamente rivendicato. Davvero un risultato straordinario, che Osama bin Laden da solo non sarebbe riuscito a raggiungere. E anche se a parole lo Sceicco Nero e le altre centrali del terrorismo islamico invocano il ritiro degli americani e dei loro alleati dall’Iraq, in realtà mirano - per mantenere e allargare la loro strategia di morte - a una prolungata permanenza degli “infedeli”.
Comunque, in quel caos di sangue si trovano anche i nostri militari, che hanno già pagato un alto prezzo in una missione caratterizzata - non certo per loro colpa - dall’ambiguità. Un mandato per scopi umanitari, approvato frettolosamente dalla maggioranza parlamentare per compiacere l’“amico Bush”, si è trovato ad affrontare una situazione che neppure la collaudata professionalità, e umanità, delle nostre Forze armate è in grado di modificare. In questo caso le dichiarazioni sugli “impegni assunti” si attorcigliano su se stesse. “Non è possibile una fuga dalla missione. Nonostante tutto credo che non cambi il senso della nostra presenza in Iraq. I nostri soldati sono lì per una missione di pacificazione e di ordine pubblico”, ha ripetuto il premier dopo la battaglia di Nassirija del 4 aprile scorso. E il leghista Roberto Calderoli: “Bisogna andare avanti, perché alla guerra non si può rispondere con le bandiere con le marce, ma con le armi”. Mentre altri, come Paolo Ricciotti, di Forza Italia, ritengono utile “discutere sulle forme e i modi di supporto da parte della Nato, che può essere forza di pace, di prevenzione e di controllo”.
Poi, forse, un giorno qualcuno ci dirà a che cosa, e a chi, è servita questa guerra.

* * *

Intanto, la minaccia del terrorismo islamico rimane. Ed è una minaccia molto seria. Secondo un recente rapporto del Sismi, in Italia si trovano circa 350 elementi pronti ad entrare in azione, appartenenti a diverse cellule: il Gruppo combattente marocchino, il Gruppo combattente tunisino, il Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, e Al Tafkir wa’l-Hegira, formazione di origine egiziana. La loro presenza è stata individuata in Piemonte, Lombardia e Triveneto, e in Campania, qui con funzioni, almeno finora, prevalentemente logistiche. Cellule dotate di collegamenti esterni, e non solo con al-Qaida, e in comunicazione tra loro, in particolare, sembra, attraverso l’Istituto culturale islamico di Milano. Cellule attive anche nell’opera di proselitismo tra i musulmani presenti in Italia, attività incrementata dalla guerra in Iraq, e dai suoi impatti politici ed emotivi.
Allarme, ma non allarmismo, dicono i responsabili dell’intelligence e della sicurezza, che nel loro costante lavoro di indagine e di controllo non tralasciano la minima pista. Con un occhio - anche questo va fatto - all’evolversi degli eventi al di fuori del territorio nazionale, e alle possibili implicazioni interne. La strage sui treni dell’11 marzo a Madrid è, certo, un dato inquietante. Anche perché uno dei principali capi del Gruppo combattente marocchino, implicato negli attentati di Madrid, avrebbe operato per un lungo periodo in Lombardia, con funzioni di guida nell’area del Mediterraneo.
Al di là di quanto possono rivelare le indagini più estese e approfondite, resta il fatto inquietante che questo tipo di terrorismo resta un nemico senza volto. Per dargliene uno, bisogna ricorrere a quello astutamente ieratico del famigerato Sceicco Nero, con la sua organizzazione di morte. Ma fu proprio Osama, il 21 ottobre 2001, in un’intervista alla televisione al-Jazira, a ridimensionarne il ruolo: “Le cose non stanno come le dipinge l’Occidente, per cui ci sarebbe un’organizzazione con un nome specifico, al-Qaida. Questa denominazione è molto vecchia. È nata senza che noi lo volessimo. Il fratello Abù Ubaida al-Bansiri creò (in Afghanistan) una base per addestrare i giovani a combattere il perverso, arrogante, brutale, terroristico impero sovietico. Quel campo di addestramento fu chiamato al-Qaida, la base”.
Poco più di un mese dopo gli attentati alle Twin Towers e al Pentagono, Osama ricordava agli Stati Uniti che al-Qaida era nata con il loro appoggio, in armi e fondi. Ironie della storia, la Cia che incoraggia i primi passi di quella che sarà la centrale del terrorismo islamico.
Sono tempi di “guerra fredda, e nessuno immagina ciò che accadrà in seguito. E, come spesso accade, gli apprendisti stregoni si danno da fare. Uno, in particolare, ormai dimenticato ma a suo tempo molto importante. Dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan, nel 1979, il palestinese Abdallah Jusuf Azzam, docente universitario al Cairo, militante dei Frateli Musulmani, avversario dell’ipotesi di uno Stato palestinese laico, si trasferisce in Pakistan, e dichiara la jihad contro gli “atei” di Mosca. Un progetto che incontra l’immediata approvazione degli americani. Azzam ottiene subito consistenti appoggi dal governo pakistano, sicuro alleato degli Stati Uniti (mentre l’India, storico nemico del Pakistan, è vicina al blocco sovietico), e dall’Arabia Saudita, che invia petrodollari e un suo inviato, il giovane imprenditore miliardario Osama bin Laden. Membro di un’influente famiglia vicina ai regnanti Saud, ben introdotto nell’Isi, il servizio segreto pakistano, Osama ottiene la fiducia della Central Intelligence Agency, che invia sul posto agenti, istruttori, e armi: e dimostra le sue doti manageriali, coordinano l’afflusso sempre maggiore di volontari e di mezzi. La guerra afgana si prolunga, l’Armata Rossa e le truppe del regime filosovietico sono sempre in maggiori difficoltà nel contenere i mujahidin, costantemente riforniti di armi e uomini attraverso la frontiera con il Pakistan. È a questo punto che a contrastare la leadership di Abdallah Jusuf Azzam, fautore di un califfato afgano-pakistano, retto dalla sari’a (legge islamica dettata dal Corano), appare un altro personaggio, tuttora considerato l’ideologo, e vero capo, dello jihadismo: Ayman al-Zawairi, un medico egiziano che progetta invece una “guerra santa” a tutto raggio, contro i “nemici” dell’Islam, e contro i musulmani “apostati”. Il 24 novembre 1989, quando i sovietici hanno ormai abbandonato la partita, a Peshawar, l’auto guidata da Azzam viene fatta saltare in aria. E bin Laden? Osama, per convinzione o per calcolo, si allea con al-Zawairi, che preferisce figurare come il braccio destro del ricco saudita.
Da allora, tutto è cambiato. In peggio, beninteso. Di anno in anno, l’internazionale jihadista ha proliferato come un tumore maligno, diventando un avversario sempre in agguato, pronto a colpire ovunque, senza preavviso, e apparentemente senza uno scopo comprensibile. Se è vero che Osama bin Laden è stato in questi anni un abile imprenditore della strategia terrorista, organizzando e gestendo i finanziamenti raccolti attraverso il tradizionale sistema della hawala (offerte volontarie), la rete di sostegno alla jihad si estende ben oltre la sua obiettiva capacità di controllo. Questa rete comprende società sparse in tutto il mondo (musulmano e no), joint ventures che riguardano attività diverse, dalle società immobiliari alle industrie del legname e alla carta, dagli allevamenti ai generi alimentari, alle pietre preziose. Con al primo posto il traffico di droga, e il riciclaggio di denaro sporco. E per quanto riguarda l’immagine e la propaganda, l’holding jihadista dispone ovunque di radio, siti web, agenzie che diffondono bollettini, internet-caffè, centri religiosi e “culturali”.
Contro una rete così ramificata e diversificata, le guerre, le esibizioni “imperiali”, servono a poco o a nulla. Anzi, appare evidente che finiscono col diventare strumenti del nemico, fornendogli visibilità e nuovi obiettivi da colpire. D’altra parte, pur sapendo che non esistono soluzioni semplicistiche, si deve sottolineare che i maggiori successi nella lotta al terrorismo islamico sono stati ottenuti dall’intelligence (servizi e Forze di polizia) europeo, in particolare da quello italiano. Ma, da sole, prevenzione e repressione non sono sufficienti.
È necessario avere, tutti, le idee molto chiare. La “guerra santa” predicata dagli estremisti islamici è una fandonia che va smascherata con la forza dei fatti. E, se c’è dell’intelligenza.



BOX


Consulenti o mercenari?
L’Iraq dei soldati di ventura

La drammatica vicenda del sequestro dei quattro italiani usati come ostaggi dai miliziani delle “Falangi di Maometto”, ha posto in luce una realtà sulla quale autorità governative e militari avevano sempre taciuto: perché la ignoravano, o perché si preferiva tenerla nascosta. In Iraq, insieme alle truppe di occupazione, operano circa 20mila (un calcolo ufficiale è inesistente, e forse impossibile) di civili armati, soldati senza divisa provenienti da vari paesi, dipendenti da agenzie private specializzate in intelligence, azioni di commando, sistemi di sicurezza, e attività simili. Sono americani, inglesi (vi sarebbero trecento gurka nepalesi, veterani dell’esercito britannico), sudafricani, spagnoli, cileni, e di altre nazionalità. Anche italiani, come si è appreso. Che cosa fanno? Esattamente non si sa. E del resto non si sa nemmeno quale sia il loro statuto (ad esempio, sotto la responsabilità di chi sono entrati in Iraq), e da quali autorità dipendano.
Se ne è cominciato a parlare quando quattro americani senza uniforme furono uccisi, alla fine di marzo, a Falluja, e i loro corpi vennero dilaniati e bruciati da una folla inferocita. Dapprima le autorità militari statunitensi parlarono genericamente di “civili”, poi si apprese che si trattava di ex “teste di cuoio” al servizio della Blackwater Security Consulting, un’agenzia paramilitare privata, con sede a Washington, che ha centinaia di uomini in Iraq. Al pari della Diligence Limited Company, diretta da Mike Baker, un ex agente della Cia. E varie altre. Che incrociano reciprocamente le loro misteriose attività, tanto che a volte ne è difficile l’identificazione. I quattro (che la Farnesina ha escluso lavorassero per il governo italiano) sarebbero stati dipendenti Dts Security, società americana con sede nel Nevada, che ha quale titolare un’italiana. Ma Salvatore Stefio è anche il direttore della Presidium International Corporation, società italiana specializzata in intelligence e addestramento militare, con sede legale alle Seychelles.
Si sa che i compensi di questi soldati senza divisa, che preferiscono essere chiamati “consulenti” piuttosto che “mercenari”, sono alti, fino a mille dollari al giorno, e oltre, in situazioni particolari. E i profitti delle aziende paramilitari sono elevati, in diretto rapporto con l’accrescersi dei conflitti.
Certo, la pietà è dovuta a tutti i morti e anche chi rischia la propria vita per guadagnare di più ha diritto a un massimo di garanzie per la propria incolumità. Resta il fatto che queste migliaia di “guerrieri” dei quali ufficialmente si parla solo quando vengono catturati, o muoiono, costruiscono un ulteriore punto interrogativo in una guerra che di perplessità (a dir poco) ne suscita già abbastanza.

<<precedente indice successivo>>
 
<< indietro

Ricerca articoli
search..>>
VAI>>
 
COLLABORATORI
 
 
SIULP
 
SILP
 
SILP
 
SILP
 
SILP
 
 
Cittadino Lex
 
Scrivi il tuo libro: Noi ti pubblichiamo!
 
 
 
 
 

 

 

 

Sito ottimizzato per browser Internet Explorer 4.0 o superiore

chi siamo | contatti | copyright | credits | privacy policy

PoliziaeDemocrazia.it é una pubblicazione di DDE Editrice P.IVA 01989701006 - dati societari