In caso di attacco terroristico (anche di natura chimica) le due città si sono dotate di piani e di strutture per fronteggiare ogni possibile emergenza
Organizzazione dei punti di raccolta per i feriti, centralizzazione delle informazioni su disponibilità di posti letto negli ospedali e coordinamento dei mezzi di soccorso. Ma anche corsi di formazione per insegnare a medici e infermieri cosa fare in caso di un attacco chimico o di un attentato terroristico compiuto con grandi quantità di esplosivo. Fino al punto più doloroso, ovvero dove sistemare i corpi delle eventuali vittime.
Una cosa è certa: anche se tutti sperano di non doversi mai confrontare con una situazione drammatica come la strage di Madrid, non c’è dubbio che l’11 marzo rappresenta un innalzamento del livello di guardia per i rischi legati all’allarme terrorismo. Un pericolo che riguarda tutta l’Europa, ma che in Italia si è fatto più chiaro dopo le minacce per il nostro Paese contenute nella rivendicazione della strage spagnola e dopo che una direttiva del Viminale indica Roma, Bologna, Milano, Perugia e Napoli come cinque possibili obiettivi.
Nessuno lo dice esplicitamente, ma l’impressione è che ormai si viva aspettando il peggio. Protezione civile, ministero della Salute, Viminale, ma soprattutto Prefetture e Regioni sono al lavoro non solo per garantire la sicurezza dei cittadini, ma anche per prepararsi a fronteggiare quello che, in gergo tecnico, viene definito un “trauma di massa”, ovvero un disastro in grado di provocare un numero di feriti che supera le capacità delle strutture sanitarie. Qualcosa di molto simile, per l’appunto, ai 202 morti e 1.400 feriti di Madrid, o a quanto avviene in Israele e in tutti quei paesi in cui la convivenza con il terrore è diventata purtroppo una realtà quotidiana.
A Roma summit tra i vari responsabili sanitari e delle Forze dell’ordine si sono susseguiti nel tentativo di stilare un piano adeguato a una possibile emergenza. L’ipotesi presa in esame è proprio quella di un attentato simile per proporzioni a quello della stazione madrilena di Atocha e con conseguenze analoghe.
La prima ad attivarsi è stata l’Agenzia di salute pubblica che, su disposizione del presidente Domenico Gramazio, ha convocato l’assessore regionale alla Sanità Marco Verzaschi, i commissari straordinari dell’Arpa e dell’ospedale Spallanzani (specializzato nella lotta al bioterrorismo) Rosaria Marino e Raffaele Perrone Donnorso, il responsabile del 118 e tre esperti del Dipartimento di emergenza, uno dell’Università Cattolica e due dell’ospedale San Giovanni.
L’impressione è che Roma ancora non disponga di un vero e proprio piano, anche se si sta correndo ai ripari. Nonostante le promesse, i mezzi a disposizione del 118 non sono aumentati a sufficienza rispetto a quelli presenti durante il Giubileo del 2000, così come fino a oggi non sono stati predisposti e sperimentati piani di emergenza all’interno degli ospedali, per organizzare l’assistenza clinica, adeguare il numero di medici e infermieri, attrezzare locali a disposizione sia per le vittime che per i familiari.
Ma non si è pensato neanche a come fare per rispondere a un’improvvisa necessità di un maggior numero di camere operatorie.
Alla fine, però, la macchina organizzativa si sarebbe finalmente messa in moto. Un piano delle Ferrovie dello Stato prevede ad esempio che in caso di attacco alla stazione Termini i feriti vengano disposti sulle banchine dei binari e nei due saloni di ingresso.
Nella riunione indetta da Gramazio, inoltre sono stati invece definiti alcuni particolari del piano di intervento e deciso di allertare i servizi sanitari cittadini. Massima importanza è stata data in particolare ai sei ospedali classificati come Dea (Dipartimento emergenza e accettazione) di secondo livello (Sant’Eugenio, San Giovanni, San Camillo, San Filippo Neri e i due Policlinici, Gemelli e Umberto I) vale a dire quelli maggiormente attrezzati per fronteggiare un’emergenza, con la possibilità di effettuare Tac e risonanze magnetiche, ma soprattutto con sale operatorie libere per le urgenze e personale specializzato.
Proprio l’ospedale San Camillo sarà il primo punto di raccolta dei feriti, prima del loro smistamento negli altri ospedali cittadini. “È stata anche avviata una ricognizione tre volte al giorno dei posti letto liberi, in modo da avere un quadro costantemente aggiornato della situazione interna agli ospedali”, dice Gramazio.
Rinforzati anche i collegamenti con i dirigenti dei vari servizi sanitari nel territorio mentre tute e maschere sono state già state consegnate alle centrali operative del 118 e il personale istruito su come usarle.
Roma, ma più in generale il Lazio, può inoltre contare su tre elicotteri attrezzati per interventi sanitari, uno dei quali dotato di tute e ambienti isolati per piloti e operatori, mentre un quarto elicottero sarebbe in arrivo. Accordo fatto, infine, anche con l’Esercito per un eventuale utilizzo dell’ospedale militare del Celio.
Ci sono però punti sui quali si sta ancora lavorando. Si sa ad esempio che sarebbero già state individuate due possibili strutture in cui raccogliere i corpi delle vittime di un attentato, mentre sarebbero in corso trattative con il Campidoglio per risolvere gli inevitabili problemi di traffico che rallenterebbero drammaticamente i tempi di intervento delle ambulanze: “Vogliamo creare corridoi di emergenza per permettere ai mezzi di soccorso di arrivare il più velocemente possibile sul luogo della tragedia”, ha spiegato uno dei partecipanti al vertice.
Anche a Bologna, altro possibile obiettivo dei terroristi, si lavora contro il tempo. Verso la fine di marzo all’ospedale Sant’Orsola si è tenuto un seminario sulla gestione dei “traumi di massa” al quale hanno partecipato due esperti israeliani, Moshe Michaelson e Gila Hyams, rispettivamente direttore del Dipartimento di emergenza e coordinatrice del Reparto traumatologia dell’ospedale di Haifa.
Tra i temi affrontati l’organizzazione degli spazi adatti per ricevere i feriti, il loro smistamento e i particolari problemi creati da attacchi terroristici.
Una città come Bologna non si può comunque considerare impreparata: “Purtroppo possiamo contare sull’esperienza, dolorosa, che ci deriva dall’attentato del 1980 alla stazione”, spiega l’assessore regionale alla Sanità Giovanni Bissoni. Da tempo sono pronti due piani d’emergenza, che sono stati controllati e aggiornati. Il primo riguarda gli interventi da attuare proprio in caso di attentato ed è basato sul miglior impiego possibile di uomini e mezzi, ma anche sulla costruzione di una rete informativa tra gli ospedali della regione. “In caso di una macroemergenza scatterebbero contemporaneamente interventi diversi”, spiega Giovanni Gordini, direttore Unità operativa rianimazione del 118. “Gli ospedali sanno che devono riorganizzare immediatamente il proprio lavoro, richiamando il personale assente, attrezzandosi a ricevere i feriti e creando, se necessario, aree apposite in cui sistemarli”.
Un capitolo a parte riguarda i soccorritori che arrivano sul luogo dell’attentato. I medici hanno frequentato corsi per impare a fronteggiare questo tipo di emergenza. Sanno, infatti, di poter essere costretti a prendere decisioni molto difficili. “Normalmente è dovere di ogni medico spendere tutte le energie per salvare un paziente, anche se la situazione è disperata”, dice Gordini. In caso di attentato non sarebbe così e il personale sarebbe chiamato a comportarsi come se si trovasse in guerra. “La prima scelta che si deve fare, in questi casi, riguarda la gravità dei feriti, scegliendo di non dedicarsi ai pazienti che comunque non sopravviverebbero e privilegiando quelli che possono essere curati”, aggiunge infatti Gordini. “Purtroppo si tratta di una scelta dolorosa, dettata dalle esigenze”.
Un aspetto importante riguarda poi la raccolta di informazioni personali sulle vittime, in modo da ridurre al minimo la disperazione di chi non ha più notizie di una persona cara.
Infine è previsto che una struttura da campo venga montata sul posto, destinata ad accogliere sia i feriti più leggeri che i corpi delle vittime, in attesa di un loro trasferimento. Questo mentre i feriti più gravi vengono trasportati verso i due principali ospedali della città, Maggiore (specializzato in traumi) e Sant’Orsola o quelli minori. “Pensiamo che dal momento in cui scatta il primo allarme a quello in cui il primo ferito entra in ospedale possano passare non più di venti minuti”, conclude Gordini. Un risultato possibile anche al potenziamento degli operatori a disposizione del 118.
Non manca, infine, anche un piano per far fronte a un’eventuale attacco chimico. In questo caso si è sfruttata l’esperienza e le strutture preparate alla fine del 2002 per fronteggiare la Sars. La differenza è che adesso si ragiona sull’ipotesi di dover rispondere a un possibile contagio di vaiolo, carbonchio, o di possibili virus di febbri emorragiche. “In ogni Asl abbiamo creato un responsabile organizzativo che sa come intervenire per mettere in moto i soccorsi”, spiega Pierluigi Mancini, responsabile del servizio di Sanità pubblica della regione Emilia Romagna. “Un attacco di questo tipo prevede la possibilità di poter ricoverare i pazienti in strutture adeguate, che possano disporre di camere isolate e dotate di adeguati sistemi di condizionamento dell’aria. La pressione di questi locali deve essere inferiore rispetto all’esterno, in modo da impedire, ad esempio, che il virus si diffonda semplicemente aprendo la porta. Oggi di posti letto con queste caratteristiche ne abbiamo poco più di cento, e pensiamo che siano sufficiente ad affrontare una possibile emergenza”.
Anche a Bologna, come a Roma, personale sanitario è stato addestrato all’uso di tute e maschere, ma anche a cosa fare nel caso un ammalato sia entrato in contatto con altre persone prima del ricovero. “Come abbiano già fatto con la Sars - conclude Mancini - anche in questo caso personale specializzato sarebbe in grado di risalire a tutte le persone di cui si sospetta il contagio riuscendo a metterle in isolamento. Si tratta tutto sommato di normali misure di salute pubblica”. Normali, nella speranza di non doverle mai mettere in atto.
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