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marzo / aprile/2004 - Laboratorio
Laboratorio
Il caso Matteo
di

Matteo Federici è reo di aver espresso un’opinione; reo perché un poliziotto non ha diritto di cittadinanza in questo Paese.
Infila, nell’angusto pulmino celere, una manciata di poliziotti, in assetto di ordine pubblico, esausti per una giornata di servizio allo stadio, mal retribuiti e vilipesi; aggiungi che la partita è stata pure deludente ma che stavolta, almeno, non ci sono stati incidenti; tieni presente che sono annoiati dalla monotonia logistica che li ricondurrà molto lentamente a casa, ed ecco che si ottiene una soluzione soporifera.
Il chiacchiericcio, giusto per ammazzare il tempo, degenera nel pregiudizio. Improvvisamente, come palliativo alla noia, si prospetta una magnifica ed insperata occasione. Il viaggio diventa più interessante perché, ingenuamente, il pivellino interviene nel discorso degli “scafati”. Ohibò, il giovane allievo crede di essere “dei nostri” ma così diventa oggetto di uno “sfottò”, pregevole occasione per chi, da tempo, non ha più “la valigia alla stazione”.
La soluzione soporigera, grazie alla spalmatina di vetero nonnismo, ha riportato l’adrenalina al giusto livello. Il pretesto è nato dalla diversa veduta politica sugli ultras, ormai anche il tifo si colora di nero o di rosso, e non stiamo parlando del Milan. In fondo, anche nel passato, si favoleggiava che Battisti simpatizzava per “quelli” mentre Morandi per quegli altri.
Dalla faziosità però si sfocia, viscidamente (qualche psicologo sarebbe entusiasta dell’interessante caso di associazione di idee), al G8. Giunti al commento dei fatti di Genova, i colleghi si infiammano (manca solo che viene rievocato “Reggio brucia ancora”) ormai siamo all’estrema semplificazione globalizzazione-anarchici-terroristi, il reato si è consumato; si è trasformato in “lesa maestà”, in “una questione politica”, nella enfatizzata “difesa delle prerogative dello Stato e dei suoi rappresentanti”, forse non in questo ordine preciso e non volontariamente, ma la conclusione è in unica affermazione: “se sei di sinistra cosa ci stai a fare in Polizia?”
Matteo è ormai catalogato (altro che mobbing) e viene isolato perché è dall’altra parte, è un diverso, è un nemico. Sì, perché vige il principio: “o sei con noi o sei contro di noi”.
L’ordine pubblico (Genova insegna) è una questione di contrapposizione, una parte che pretende ed un’altra che resiste ma non è una lite civile, è la guerra urbana.
Una volta, tanto tempo fa, il manifestante trovava negli occhi del celerino la comprensione; sotto la divisa c’era il contadino depauperato della propria terra e delle proprie radici, anche lui, in fondo era alla ricerca di una propria dignità. Oggi viviamo in un mondo virtuale, tutto viene deciso dall’alto; ieri c’era il questore, autorità provinciale di Ps quotidianamente impegnato nel mantenimento dell’ordine pubblico, in strada oggi ci sono i rampanti funzionari di ministero.
Qualcuno, addirittura vagheggia, ipoteticamente, rammentando le precedenti polemiche dell’opposizione (ovviamente tutti comunisti) sulla blindatura della città che: “se non ci fosse stata l’esagerazione delle batterie anti-aereo, avremmo avuto l’11 settembre anticipato”.
Il clima è questa suggestione collettiva alimentata dalla malaria immaginaria che attraversa il Paese, nessuno comprende l’altro; si ascolta passivamente la televisione di Vespa, Mentana e Liguori che fanno a gara nel pronunciare, in anteprima, la medesima velina passata da un’unica fonte, degna di fede pubblica, la questura.
Fonte, ovviamente, autenticata con l’imprimatur dell’addetto stampa, che magari è ex sindacalista, noto per il suo passato immacolato di democratico e pure di sinistra; in fondo il ministero dell’Interno non è proprio così “ad escludendum”.
Il vero interrogativo è: “chi cerca la verita?” È giusto contestare le istituzioni per manifestare un pensiero contrario a quello dei governanti? È sacrosanto che i paesi poveri contestino le decisioni prese dai potenti nei loro confronti?
È giusto associare, mistificando e demonizzando, cittadini qualunque che hanno ancora voglia di esprimere un’opinione dissenziente. Dio li benedica purché esistano queste persone, con la mente sana e, soprattutto, non impasticcata dall’ovvietà imperante; maledica invece l’untore del signore che incessantemente confonde l’opinione pubblica, mischiando delinquenti che devastano e sobillano e che usano l’anti-globalismo per fini oscuri.
Altro interrogativo: qualcuno ha realmente cercato di dare risposte a queste inquietanti domande? È possibile che in questo Paese non si può considerare il dramma per quello che è? Il dramma di due giovani, uno in difesa dello Stato e l’altro contro che, a torto o ragione, un giovane non ha più la vita e un altro giovane ce l’ha segnata per l’eternità. Nonostante ciò, nessuna soluzione è stata dottata, nessuna analisi è stata perpetuata, nessuna responsabilità è stata individuata. Nonostante ciò, il G8 è la pagina di storia italiana più brutta scritta negli ultimi tempi ma nessuno è in grado di leggerla, soprattutto togliendosi quelle famose lenti rosa.
La perquisizione di notte della Polizia, con un protagonista di eccezione, il comandante di Reparto Mobile in prima fila, è l’episodio che, più di tutti, cancella inesorabilmente il movimento riformatore dei poliziotti. Un movimento nato con non pochi sacrifici ed analoghe espulsioni di poliziotti “democratici”, persino con la direttiva di un celebre ministro dell’Interno, non ancora noto con l’appellativo “picconatore del Quirinale”, il quale consentì, con un atto di modernità eccezionale per quei tempi, la democratizzazione della Polizia di Stato. Riforma accolta come una disgrazia dalle note forze reazionarie di questo Paese.
La pagina della riforma sembra svanita, esiste solo nei cuori di qualche insanabile “ottimista della ragione” (non è la frase pubblicitaria di un poeta ma di Gramsci). La stampa di quei giorni è servita a riscaldare la baracca di qualche vagabondo, quelle ombre urbane che nessuno nota, vittime della società liberale ed epigono della società solidale.
In questo clima, Matteo Federici per una opinione espressa in uno sgangherato Fiat 370 subisce la contestazione disciplinare della deplorazione, con tutti i canoni della “santa” inquisizione. La sentenza è emessa dal vice direttore della Scuola, alla faccia del rispetto dell’articolo 111 della Costituzione che prevede un giudice terzo ed imparziale; alcuni testimoni vengono ammessi altri no a mezzo di una valutazione arbitraria in disprezzo del principio della prova; la partecipazione sindacale nella Commissione è in minoranza e subisce ovviamente la sudditanza psicologica del ruolo. In conclusione, a nessuno viene in mente che non si può processare un individuo per una semplice opinione, per altro senza contestualizzarlo nelle suggestioni dell’ambiente di lavoro.
In realtà, qui si apre un altro fronte dolente. Il regolamento di disciplina è vecchio di vent’anni ed era, presumibilmente, già desueto alla sua approvazione frettolosa per i tempi ristretti della riforma. Infatti non si prevede la riabilitazione, il patteggiamento, le nuove norme procedurali civili ed amministrative e così via discorrendo. Hanno provato a revisionarlo, il termine “riforma” era troppo forte per i notabili del ministero, ma la delega è scaduta per insofferenza e pressappochismo dell’Amministrazione. Il Diapartimento di Ps è così autoreferente che non ha neanche consultato i sindacati per un loro parere preventivo ma si è limitato, pedissequamente come tutti i suoi atti, in un quieto “remake” del vecchio e già rivisto e ritrito.
Forze il romanzo “Il gattopardo” è il più letto da talune persone, specie nella parte “cambiare qualche cosa per non cambiare nulla”.
Antonio Ciaramella
Direttivo nazionale Siulp

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