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marzo / aprile/2004 - Interviste
Forza dell Ordine
“Ammazzato come un cane”
di Anna Maria Turchetta Radici

Appuntato dei Carabinieri Romano Radici, nato a Roma il 5 agosto 1943 deceduto la mattina del 6 dicembre 1981 mentre effettuava un controllo a Roma su due ragazzi seduti su una panchina dei giardini di via Marmorata alla Piramide per mano di terroristi dei Nar

La mattina del 6 dicembre 1981 mio marito uscì di casa alle 5 del mattino per recarsi in servizio. Era domenica e dalla sera prima era d’accordo che alla fine del turno ci avrebbe raggiunto per pranzare tutti insieme. Verso le ore 12, mentre si ultimavano i preparativi del pranzo, venne accesa la tv ed in un attimo la nostra vita è cambiata. Non riuscivamo a capire ciò che diceva il giornalista, il nostro sguardo era ipnotizzato sulla foto che appariva sul video: mio marito. Da quel momento i nostri ricordi sono i flash di un incubo, la macchina dei Carabinieri che ci viene a prendere e ci porta presso l’istituto di Medicina legale, quella stanza fredda e buia e il tavolo dove era adagiato il corpo di mio marito. Le lacrime, l’attonimento, non riuscivano a coprire quel continuo mormorio: “È stato ucciso dai terroristi”, “L’hanno ammazzato come un cane”, “Aveva solo 38 anni”, “Come farà la moglie a tirare sù da sola due creature?”
E noi pensavamo: “I terroristi?” Cosa c’entrano con mio marito, queste sono cose che si sentono solo in tv; lui stava facendo solo onestamente il suo lavoro, per pochi soldi, che spesso non bastavano ad arrivare alla fine del mese.
Ed i flash continuano, una marea di gente che ci abbraccia e piange con noi, i funerali, il giorno dopo, con tante persone importanti che ci vengono a salutare come se ci conoscessero da sempre; ma noi li avevamo visti solo alla televisione.
Poi il risveglio. Ma l’incubo non era finito, anzi da quel momento è iniziata la dura realtà. Dopo tanta gente, la solitudine, la rabbia, il dolore, il non riuscire ad accettare quel destino crudele che mi aveva reso vedova a 38 anni e orfani i nostri figli nel momento della loro vita in cui il papà è un punto di riferimento, il perno della casa su cui ruota l’equilibrio di una famiglia.
Il dolore e la rabbia sono continuati nel corso degli anni in cui si sono svolti i tre processi.
Il governo italiano mandò in rappresentanza le sue più alte cariche il giorno del funerale, così sono state fatte le foto e i filmati per giornali e tv. Ci ha elargito i famosi 100 milioni di lire, il prezzo della vita di un uomo, poi ci ha completamente abbandonati.
Ricordiamo ancora che i primi soldi per pagare i nostri avvocati di parte civile sono stati raccolti tra i colleghi di mio marito, il restante lo abbiamo pagato di tasca nostra. Solo i colleghi non ci hanno mai abbandonato ed ancora oggi, dopo 22 anni, sono ancora affettuosamente presenti.
Ma la nostra rabbia per questo menefreghismo da parte dello Stato non è diminuita; i tre processi hanno confermato i 20 anni al complice Ciro Lai (che sembra li abbia scontati) e l’ergastolo all’assassino Pasquale Belsito, latitante fino allo scorso anno.
Abbiamo appreso della sua cattura in Spagna, da un trafiletto riportato solo da qualche quotidiano. Noi, la famiglia, la parte lesa, non siamo degni di essere messi al corrente, da parte del nostro governo, sulle sorti di coloro che ci hanno cambiato la vita. Che l’hanno tolta a mio marito volontariamente, per dei motivi politici che non comprendiamo; ad un uomo, un padre di famiglia, che non ha potuto vedere crescere i propri figli, stare accanto alla sua donna ed abbracciare il suo primo nipote. A noi hanno sottratto il marito, il padre, il nonno.

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