Domenico Ricci, appuntato dei Carabinieri. Aveva 44 anni e due figlioletti, quando in via Fani, a Roma, fu ucciso il 16 marzo 1978, insieme agli altri uomini della scorta dell’onorevole Aldo Moro
Mio marito entrò nell’Arma dei Carabinieri molto giovane, dapprima come motociclista poi passò al Nucleo Radiomobile, infine passò al Reparto Scorte e il suo primo incarico fu la guardia del corpo dell’on. Aldo Moro. Poi, quando un autista andò alla Camera dei Deputati, mio marito passò a fare l’autista al presidente Moro. Il capo-scorta dell’onorevole era un certo maresciallo Belfiore, in un secondo tempo sostituito dal maresciallo Leonardi, quindi essendo il più anziano fra il personale della scorta, mio marito era considerato come uno della famiglia, tutti si fidavano di lui, specialmente la signora Eleonora, sua conterranea. Era molto attaccato alla famiglia dell’onorevole Moro.
Già un anno prima della tragedia lo vedevo sempre cupo, pensieroso; quando gli chiedevo cosa non andava mi rispondeva sempre nello stesso modo: “Non ti preoccupare pensa ai bambini”. Passavano i giorni e diventava sempre più triste, ma mi tranquillizzava dicendomi che loro erano tranquilli. Un giorno una frase mi paralizzò, infatti mi disse: “Se mi succede qualcosa sappi ti danno cinquanta milioni di lire”. Rimasi di sasso, e lui per sdrammatizzare mi disse che l’aveva detto apposta per vedere la mia reazione.
Quel 16 marzo 1978, era una normalissima giornata. “Attenta ai bambini”, mi disse prima di uscire. I miei due figli andavano a scuola di pomeriggio, io ero intenta alle faccende di casa come ogni mattina; verso le ore 9,30, mentre i ragazzi stavano facendo i compiti, udii alla radio che era successo qualcosa alla scorta di Aldo Moro. E da quel momento in poi la mia vita e quella dei miei figli cambiò in modo drastico ed irreversibile. Le notizie erano un susseguirsi, ogni trasmissione radiofonica non faceva che confermare quanto io non volevo sentire, speravo fosse solo un sogno.
Purtroppo non fu così. Appena udita la notizia dalla radio, iniziò ad arrivare un nutrito numero di persone, dapprima un ufficiale dei Carabinieri e poi via via un fiume di gente, che sinceramente neanche conoscevo: tutti volevano esprimere il loro cordoglio. E proprio in quel momento mio figlio, il grande, correndo verso di me urlò “Mamma, mamma! L’ho riconosciuto dall’orologio! È papà!” In quel momento mi è crollato il mondo addosso.
Il giorno del funerale anche le più alte cariche dello Stato presenziarono, esprimendo e rappresentando più volte il cordoglio della Nazione, facendo promesse a me ed alle famiglie degli altri caduti: potevamo confidare in loro per il futuro. Tante belle parole, ma poi entra in gioco il tempo! Già, quando il tempo inizia a cancellare i primi ricordi delle famiglie dei caduti in quel tragico episodio, nessuno se ne ricorda.
In fondo cosa chiedevamo? Un po’ di conforto, una parola di coraggio, un piccolo sostegno, ma spesso ci siamo sentiti soli.
Mio marito era (e per me ancora lo è) il perno principale della famiglia. Io, per sua volontà, mi dovevo dedicare interamente alla famiglia ed alla casa, era una scelta condivisa tanto è vero che smisi anche di lavorare appena nacque il nostro primo figlio; per il resto lui mi aiutava in tutto. Quindi mi sono sentita doppiamente sola e , credetemi, ho dovuto fare i salti mortali per portare avanti l’educazione, la scuola dei miei due figli, e tutto ciò che riguardava la mia famiglia.
A volte l’Arma dei Carabinieri, durante le feste natalizie, si ricordava che gli orfani dei loro caduti avrebbero apprezzato un loro interessamento, e quindi mi recapitavano un piccolo ricordo per i miei ragazzi.
Posso assicurare che i politici di allora, che fecero quelle promesse, non mantennero dei buoni rapporti con noi vittime di quell’eccidio. Anzi, molto spesso le cose non erano facili da ottenere neanche quando le richieste erano da parte nostra. Infatti, esclusivamente le nostre insistenze nel richiedere qualche aiuto, suscitavano una leggera parvenza di interessamento da parte dei nostri interlocutori.
Portare avanti due figli da sola, senza il sostegno morale o senza nessun altro aiuto da parte di parenti ed amici, non solo è difficile, ma spesso crea solitudine, sconforto e perplessità; quindi fare le scelte giuste con il trauma di una perdita così grande in ambito famigliare non è molto facile.
Ho attraversato periodi molto difficili, il mio sistema nervoso era spesso al limite, sono stata supportata più volte da un neurologo, ma ahimè la vita andava avanti, ed io avevo due figli da crescere come desiderava il padre. Troppo spesso vedo nei miei interlocutori delle persone che a volte non hanno la benché mimina idea di cosa io abbia passato in questi anni bui. Qualcuno pensa che la morte di mio marito abbia fatto dei Ricci una famiglia protetta dallo Stato assistenzialista, ma io per ottenere alcuni dei miei diritti (ripeto diritti) ho dovuto lottare; spesso ho trovato porte chiuse, altre me le hanno chiuse in faccia, ovvio che ciò che io rivendicavo non era un interessamento personale, bensì era ciò che io necessitavo per curare l’educazione che mio marito ha sempre impartito ai figli finché fu in vita.
Poi venne il periodo dei processi, il disagio di trovarmi faccia a faccia con coloro che tolsero barbaricamente la vita a mio marito: che orrore! Loro erano lì, freddi negli sguardi, senza un benché minimo segno di pentimento, anzi una continua sfida nei miei confronti.
Già, il pentimento! Molti mi chiesero se il pentimento dei brigatisti veniva o viene da me accettato, ebbene finanche ai nostri giorni ci si rende conto che il fenomeno Br non è finito, anzi per nostra sfortuna è più che mai di attualità. Quindi il mio perdono, se ci fu, era quello insegnatomi dalla mia fede cristiana, ma momentaneamente non posso perdonare coloro che senza pietà hanno spinto la loro furia sul padre dei miei figli.
Ancora oggi non riesco a spiegare a me stessa perché a volte i giornali danno così tanto risalto alle vicende dei brigatisti, facendoli apparire come “persone umane” e completamente reintegrate in una società che molto spesso si dimentica dei sacrifici dei molti servitori dello Stato. Dall’altro lato noi, vedove e orfani, per far sentire la nostra voce dobbiamo raccomandarci ai pochi politici che ancora hanno il senso dello Stato, in cui i nostri cari hanno creduto fino alla morte.
Eppure durante tutta la mia vita mi sono sempre accontentata, spesso ho fatto molti sacrifici per andare avanti, a volte anche a scapito della mia salute.
La scelta di curare lo studio e l’educazione dei figli, ha posto in secondo piano la mia salute, e proprio per questo motivo nel 1992 mi hanno riscontrato una grave malattia cardiaca in stadio avanzato, per cui mi vedrò costretta ad essere operata a cuore aperto, entro breve tempo. E come dimenticare il mio passato cosparso di sedute neurologiche e psicologiche... ma parlare di questo potrebbe indurre ad un senso di commiserazione, e questo non mi renderebbe giustizia.
Molto spesso noi vedove ci siamo sentite colpite dal menefreghismo collettivo e per questo, per far sentire la nostra voce, si siamo riunite in un’associazione, denominata “Memoria”, ma a nostra volta ci vediamo costrette a manifestare il nostro malcontento perché ogni iniziativa nei nostri confronti deve essere portata avanti da noi stesse con grande forza d’animo, altrimenti il tutto si vanifica e non porta nessun riconoscimento nei nostri confronti. Questo ovviamente per rifarmi al discorso di come lo Stato sia stato “assistenzialista” nei nostri confronti.
Dopo un periodo di disgregamento familiare dovuto ad un allontanamento forzato, per ovvi problemi economici, del più piccolo dei due figli, attualmente la mia famiglia è di nuovo riunita.
I figli hanno un’ottima posizione, guadagnata grazie al loro attaccamento al lavoro che ha loro sempre inculcato il padre, hanno formato una loro famiglia ed hanno entrambi un bambino, e come me continuano a lottare per far riconoscere i propri diritti e di coloro che hanno subito un trauma che ha segnato la loro vita.
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