Ventidue anni fa il corpo del presidente del Banco Ambrosiano venne trovato appeso sotto il ponte dei Black Friars, a Londra: ufficialmente, si parlò subito di suicidio. Ma la verità era ben diversa, e dietro quel delitto si nascondevano verità ancora oggi scottanti
Ci sono voluti vent’anni, per stabilire ufficialmente quello che tutti avevano intuito subito: il banchiere Roberto Calvi, trovato appeso per il collo sotto il Black Friars Bridge, nella City di Londra, la mattina del 18 giugno 1982, non si era suicidato. Lo avevano strangolato, e poi gli assassini si erano premurati di simulare un’impiccagione che sembrasse suicidio, ma apparisse a chi di dovere quello che in realtà era. Un’esecuzione e un ammonimento a chi sapeva troppe cose, e, come Calvi, avrebbe potuto rivelarle.
Una lunghissima inchiesta quella sulla morte di Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, uno dei “banchieri di Dio” legati al Vaticano, e non solo al Vaticano. Un’inchiesta frenata sino dall’inizio (anche da qualche “manina” massonica presente nella Polizia della City), ostacolata da menzogne e depistaggi, passata di mano, e infine assunta dai sostituti della Procura romana Maria Monteleone e Luca Tescaroli, che hanno chiesto il rinvio a giudizio di Pippo Calò, cassiere della Mafia, l’imprenditore Flavio Carboni, l’usuraio Ernesto Diotallevi, e l’austriaca Manuela Kleinszig, all’epoca amica di Carboni. Con il contorno di una decina di indagati, tra i quali, prevedibili, Licio Gelli, ex capo della Loggia P2, e Francesco Pazienza, faccendiere e agente segreto implicato in un tale numero di trame da perderne il conto.
Esce, quindi, un’ipotesi di suicidio alla quale nessuno ha mai veramente creduto. Roberto Calvi è stato ucciso – come provano due accurate perizie – e per ucciderlo, mandanti ed esecutori lo hanno attirato in un lungo percorso che da Roma lo ha condotto, per vie traverse, fino a Londra, sotto quel ponte dei Frati Neri.
Il come e il perché appartengono alla storia dei “misteri italiani”, non sempre davvero misteriosi, ma sui quali vi è tuttora chi ha interesse a celare la verità.
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I giornalisti, con un eccesso di fantasia, lo avevano soprannominato “il banchiere dagli occhi di ghiaccio”. In realtà lo sguardo di Roberto Calvi era piuttosto cauto, attento, spesso preoccupato. Un uomo che parlava poco, non brillante, di rado disinvolto in pubblico. Abile ma non eccelso finanziere, più che elaborare strategie, seguiva ed eseguiva quelle indicate da altri.
Nato a Milano nel 1920, figlio di un funzionario della Banca Commerciale Italiana, diplomato in ragioneria, durante la guerra aveva partecipato alla campagna di Russia, nei Lancieri di Novara. Alla fine del conflitto era entrato come impiegato alla Comit, ma nel 1947 era passato al Banco Ambrosiano, la “banca dei preti”, fondato nel 1896 da monsignor Giuseppe Tovini, controllato dalla Curia milanese. Lì aveva fatto carriera: assistente del direttore centrale, poi egli stesso salito a quella carica, direttore generale nel 1971, e infine nel novembre 1975 presidente e consigliere delegato. Nel frattempo, nel 1969, Roberto Calvi aveva stretto rapporti di amicizia e di affari con Michele Sindona, banchiere siculo-americano, avventuroso esperto in marchingegni finanziari spericolati ai limiti della legalità, e spesso oltre quei limiti. Un personaggio che andava per la maggiore, sia negli Stati Uniti (ben ammanigliato con gli ambienti del Partito repubblicano), sia in Italia, nella Democrazia cristiana, in particolare della corrente di Giulio Andreotti (che più volte ne elogerà pubblicamente le attività). E negli Usa e in patria due solidi referenti: la Massoneria “coperta”, e la Mafia.
Attraverso Sindona, Calvi era entrato in rapporto con monsignor Paul Marcinkus, vescovo statunitense distaccato presso la Santa Sede, presidente dell’Istituto di Opere di Religione, Ior, la cassa del Vaticano. Con Sindona e Marcincus, nel 1971 aveva fondato a Nassau, nel “paradiso fiscale” delle Bahamas, la Cisalpine Overseas Bank. Sempre Michele Sindona aveva messo in contatto Roberto Calvi con Licio Gelli, e il 23 agosto 1975, a Ginevra, il banchiere era stato affiliato alla Loggia P2. Nel settembre 1975 la Cisalpine Overseas Bank aveva acquisito una quota della Bafisud, la banca di Umberto Ortolani a Montevideo.
Da allora, Calvi-Marcinkus-Gelli-Ortolani costituiscono una sorta di comitato d’affari che opera attraverso banche e consociate estere, spostando capitali con operazioni più o meno occulte, pagando tangenti, manovrando fondi “neri” (provenienti da evasioni fiscali) e “sporchi” (ripuliti per conto della criminalità organizzata, Mafia e altri). Dopo il crack degli istituti finanziari di Sindona, Calvi è il banchiere di questa associazione che ha la sua forza operativa nella Loggia P2.
Nel 1981, nel carcere di Lodi, Roberto Calvi dirà ai magistrati milanesi: “Il Banco Ambrosiano non è mio. Io sono solo al servizio di qualcun altro… Di più non posso dirvi”. Comunque, il pacchetto azionario di controllo del’Ambrosiano era stato affidato a 13 società anonime domiciliate a Panama e nel Liechtenstein. E nella compagine azionaria del Banco era presente anche lo Ior di Marcinkus, che svolgeva così una funzione di copertura della miriade di operazioni effettuate da Calvi e dai suoi soci piduisti. Come quella indirizzata nel 1976 al controllo della Rizzoli-Corriere della Sera, dopo le elezioni politiche che avevano registrato un’avanzata del Partito comunista italiano: secondo la testimonianza , raccolta dal giudice Carlo Palermo nel 1984, di Arrigo Molinari, ex questore vicario di Genova, iscritto alla Loggia P2, Calvi, Gelli e i servizi segreti avrebbero ricevuto in quel periodo cospicui finanziamenti da rappresentanti delle multinazionali.
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Nel novembre 1977 Michele Sindona è latitante a New York, ma non dispera di poter sistemare i suoi affari disastrati, e tornare in pista. E studia le sue mosse. Sente di essere stato messo da parte, e ritiene che il suo amico Roberto Calvi si stia comportando male nei suoi confronti: non lo aiuta sul serio, magari pensa di scalzarlo definitivamente per prendere il suo posto. Si impone una contromossa. Sindona fa partire così una campagna denigratoria contro Calvi, servendosi di Luigi Cavallo, personaggio coinvolto con i servizi segreti, titolare dell’Agenzia A: dei manifesti affissi nel centro di Milano accusano il banchiere di aver lucrato sulla vendita all’Ambrosiano di pacchetti azionari, e di essere responsabile di truffa, appropriazione indebita, frode fiscale e falso in bilancio. Nel marzo 1978, con la mediazione di Gelli, e l’esborso di 500mila dollari, Calvi e Sindona avevano concluso un armistizio, e il presidente dell’Ambrosiano era volato a New York per incontrare il suo ex amico.
Ma anche per lui la situazione si complica. Il 17 aprile 1978, undici ispettori del Servizio di vigilanza della Banca d’Italia si presentano al Banco Ambrosiano per dei controlli che si concluderanno dopo sette mesi, il 17 novembre. Risultato: gli ispettori rilevano “accorgimenti volti ad eludere controlli dell’Organo di Vigilanza”, “artificiosi giri di partite dei conti”, irregolari favoritismi a beneficio di società appartenenti a Sindona, Ortolani, Rizzoli, Giuseppe Battista (esperto finanziario), Giovanni Fabbri (editore), Mario Genghini (imprenditore edile), Roberto Memmo (finanziere italo-americano), che risulteranno tutti negli elenchi della Loggia P2. La relazione indica anche il ruolo anomalo del presidente e consigliere delegato Roberto Calvi, divenuto “arbitro di ogni iniziativa di rilievo”, mentre l’azione di controllo dei sindaci risulta “insufficiente e poco incisiva”. Vi è di più, e di peggio: “Il Banco ha consolidato una rete finanziaria che gli consente di gestire notevoli flussi di fondi, al riparo dei controlli delle autorità valutarie italiane”, ed è agganciato a società operanti all’estero “le cui attività di bilancio sono rimaste del tutto sconosciute non avendo l’azienda fornito alcun riferimento utile al riguardo”.
Mentre si conclude l’ispezione della Banca d’Italia, l’Ambrosiano risente di una crisi di liquidità, e in suo soccorso intervengono l’Eni (presidente, dalla fine di gennaio 1979, Giorgio Mazzanti, vicepresidente Leonardo Di Donna), con un finanziamento di 10 milioni di dollari, e la Banca Nazionale del Lavoro (direttore generale Alberto Ferrari) con due prestiti, rispettivamente di 50 e 20 milioni di dollari: i nomi di Mazzanti, Di Donna e Ferrari appariranno negli elenchi della Loggia P2.
La preoccupante relazione della Banca d’Italia viene trasmessa, il 23 dicembre 1978, al magistrato Emilio Alessandrini, che sta già indagando sull’Ambrosiano, ma il 29 gennaio 1979 Alessandrini viene ucciso da due killer di Prima Linea, Marco Donat Cattin e Sergio Segio. In marzo, i magistrati Luciano Infelisi e Antonio Alibrandi, della Procura di Roma, incriminano il governatore della Banca d’Italia, Paolo Baffi, e il vicedirettore e responsabile del Servizio di vigilanza, Mario Sarcinelli, per favoreggiamento e interesse privato: Sarcinelli sarà arrestato, Baffi dovrà dimettersi, e per più di un anno ogni azione nei confronti di Roberto Calvi e dell’Ambrosiano sarà sospesa. Le accuse contro Baffi e Sarcinelli si riveleranno del tutto infondate. Più tardi, Francesco Pazienza dirà di aver saputo da Calvi che l’offensiva contro il vertice della Banca d’Italia era stata decisa all’inizio del 1979 dalla Superloggia di Montecarlo, filiale della Loggia P2.
Il 1979, pur profilandosi all’orizzonte un’inevitabile traumatica conclusione, vede l’attività del Banco Ambrosiano assumere un andamento sempre più spinto. Roberto Calvi stipula con Carlo Pesenti, suo rivale nella finanza cattolica, un accordo (garantito da Licio Gelli e Umberto Ortolani) per “dar corso a una ben definita cooperazione in Italia e all’estero” (e nel marzo 1982 Pesenti acquisterà il 3,62% del Banco, al prezzo di 100 miliardi di lire, in realtà garantiti da Calvi). A Lima, capitale del Perù, “paradiso fiscale” e centro del traffico di cocaina, si apre il Banco Ambrosiano Andino, dove Calvi trasferisce le attività del Banco Comercial di Managua, sospese dopo che la rivoluzione sandinista ha rovesciato il regime di Somoza. Si calcola che gli indebitamenti del Banco Andino costino almeno 400 milioni di dollari. A Buenos Aires si installa il Banco Ambrosiano de America del Sur, con una filiale in Brasile, a San Paolo.
La mancanza di liquidità è ormai cronica, e l’Eni, attraverso il responsabile finanziario dell’ente Florio Fiorni (Mazzanti si è dimesso dalla presidenza), legato a Bettino Craxi e a Giulio Andreotti, eroga un prestito quinquennale di 50 milioni di dollari. Da questa operazione scaturisce una tangente che in seguito farà parlare, e alla quale si riferisce una nota rinvenuta nell’archivio di Licio Gelli: “Ubs Lugano, c.633369 Protezione, numero corrispondente all’on. Claudio Martelli per conto di Bettino Craxi, presso il quale in data 28-10-80 è stata accreditata dal dott. Roberto Calvi, per la sigla dell’accordo con l’Eni fatta dal dott. Fiorini, la somma di dollari 3.500.000. Alla fine dell’atto che avverrà il 20-11-1980, che sarà fatto tra il dott. C.R. (Calvi Roberto, n.d.r.) e D.D.L. (Di Donna Leonardo, n.d.r.) sarà versato un altro importo di dollari 3.500.000”. L’inchiesta sul conto “Protezione”, avviata dai magistrati di Milano, passa, per “competenza territoriale” sulla Loggia P2, alla Procura di Roma (ancora la stessa dell’offensiva della Banca d’Italia), e nel giugno 1983 sarà archiviata. Dieci anni dopo, l’inchiesta sarà ripresa , e il 29 luglio 1994 la terza sezione penale del Tribunale di Milano condannerà Craxi, Martelli, Di Donna e Gelli per concorso in bancarotta fraudolenta.
Comunque, la Banca d’Italia (dal 20 settembre 1979 ne è stato nominato governatore Carlo Azeglio Ciampi) riprende a chiedere conto a Calvi delle sue attività all’estero, ottenendone risposte elusive. Ma nel luglio 1980 la Procura di Milano dispone che al presidente dell’Ambrosiano sia ritirato il passaporto: un colpo duro per un banchiere che ha il fulcro dei suoi movimenti finanziari nei paradisi off-shore. Il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Ugo Zilletti, massone “all’orecchio” del Gran Maestro, e un altro membro del Csm, il magistrato Domenico Pone, iscritto negli elenchi della Loggia P2, intervengono per la restituzione del documento. Senza successo. E il 20 maggio 1981, lo stesso giorno della diffusione degli elenchi della Loggia di Licio Gelli, Calvi viene arrestato, mentre il Maestro Venerabile si rifugia all’estero per sfuggire a un mandato di cattura.
Da questo momento per Roberto Calvi ha inizio uno stato di guerra che vede schierati tutti, amici e avversari, senza che sia sempre chiaro chi siano gli uni e gli altri. Privo della presenza di Gelli, il banchiere si rivolge a monsignor Paul Marcinkus facendogli arrivare tramite la moglie Clara un biglietto nel quale ha scritto: “Questo processo si chiama Ior”. Alessandro Mennini, funzionario dell’Ambrosiano, figlio di Luigi Mennini, consigliere dello Ior, avverte la signora Calvi: “Questo nome non deve essere pronunciato nemmeno in confessionale”. Si intrecciano i giochi incrociati. Francesco Pazienza incontra Marcinkus in Vaticano: il vescovo lo incarica di “calmare” Calvi, assicurandogli che “stiamo facendo quello che dobbiamo fare”. A questo scopo Mennini padre sarebbe volato in Svizzera, a incontrare non si sa chi. E Pazienza (che come Marcinkus è legato ai serizi segreti americani) telegrafa a Calvi in carcere: “Ho visto Paolo. Ti saluta tanto. Tutto bene. Abbracci”. Tutto bene? Non esattamente.
Probabilmente la situazione è troppo complessa per un uomo come Roberto Calvi, che Sindona, l’avventuriero spregiudicato rotto a tutti gli intrighi, chiamava ironicamente il ragiunatt, il ragioniere. Il Banco Ambrosiano, la più importante banca privata italiana, è diventato nei fatti lo strumento finanziario della Loggia di Licio Gelli. E Gelli, a sua volta, dipende da altre entità, politiche e finanziarie. Quanto allo Ior di Marcinkus, è ormai molto distante da quelle “opere di religione” che dovrebbero essere la sua ragione sociale. Il vescovo americano gode di forti appoggi negli Stati Uniti, ha la fiducia di Giovanni Paolo II (che gli ha affidato anche la direzione dei servizi segreti vaticani), ma conta ai vertici della Chiesa dei potenti nemici (fra i quali l’Opus Dei) che vorrebbero estrometterlo dal suo incarico e non esitano a muovere delle pedine per colpirlo. Il solito Francesco Pazienza (che gioca sempre su due tavoli, e forse anche di più), in una delle testimonianze rese durante uno dei suoi numerosi processi, dirà più tardi di aver reperito, “durante il mio impegno nei servizi”, presso un avvocato di Zurigo, “delle carte pericolosamente compromettenti per monsignor Paul Marcinkus”, agendo per conto del generale Giuseppe Santovito, capo del Sismi: “Anziché consegnare le carte al generale Santovito, che le avrebbe consegnate al segretario del cardinale Casaroli, senza che io ne traessi alcun vantaggio, mi rivolsi all’on. Piccoli (allora segretario della Dc, n.d.r.)”. Da Flaminio Piccoli, Pazienza avrebbe ottenuto un avallo per passare una parte della documentazione a Calvi. A quale scopo? Apparentemente, per ricattare in qualche modo un Marcinkus che, vedendo avvicinarsi la tempesta, cercava di defilarsi.
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Nel 1974 la famiglia Rizzoli (il padre Andrea, i figli Alberto e Angelo), editori e produttori cinematografici, aveva acquistato la proprietà del Corriere della Sera (in possesso del gruppo Agnelli, del gruppo Moratti, e di Giulia Maria Crespi) al costo di circa 50 miliardi di lire, spinta da Eugenio Cefis, presidente della Montedison; Cefis metteva a disposizione un finanziamento a costo zero attraverso la Montedison International di Zurigo, e si era impegnato a coprire la metà del deficit del quotidiano. Il motivo di tanta premura? Il presidente della Montedison giudicava la linea del Corriere “troppo di sinistra”, e auspicava quindi un mutamento di rotta. Ma dietro questa manovra si preparava ben altro. E si deve rilevare che l’accordo Rizzoli-Montedison era stato condotto da Gioacchino Albanese, braccio destro di Cefis, il cui nome apparirà negli elenchi della Loggia P2.
Ben presto l’operazione Corriere della Sera mette la Rizzoli Editore, fino a quel momento azienda molto florida, in difficoltà economiche che la costringono a cercare finanziamenti: questi, tramite Umberto Ortolani (dal 1973 in rapporti di Loggia e di affari con Licio Gelli), arrivano all’inizio del 1976 dal Banco Ambrosiano, dalla Banca Nazionale del Lavoro, dal Monte dei Paschi di Siena. Dirà Angelo Rizzoli: “Purtroppo ci rendemmo presto conto che Ortolani esigeva delle vere e proprie tangenti che non esiterei a chiamare taglie, nelle operazione finanziarie da lui patrocinate … Se qualche volta l’Ambrosiano mostrava di non essere favorevole a qualche finanziamento, il Gelli interveniva e riusciva immediatamente a ottenere un cambiamento di orientamento”.
Con l’acquisto del 5 per cento del Banco Ambrosiano (acquisto finanziato dallo stesso Calvi) e con altre operazioni finanziarie pilotate, la rete della Loggia P2 si stringe definitivamente sulla Rizzoli. E alla fine del 1976 il credito della Montedison International viene rilevato dal Banco Ambrosiano Holding del Lussemburgo, mentre Eugenio Cefis nega il contributo promesso due anni prima per coprire il deficit del Corriere della Sera. Nel luglio 1977, quando la Rizzoli deve versare al gruppo Agnelli 22,5 miliardi di lire (pagamento dilazionato della quota del Corriere), l’Ambrosiano si impossessa del 51% del capitale della casa editrice, con denaro proveniente dallo Ior, che conserva nella sua cassaforte i relativi certificati azionari.
Nel Corriere della Sera, diretto da Franco Di Bella (iscritto alla Loggia P2), a sostegno della nuova linea che dovrà assumere il quotidiano affluiscono giornalisti affiliati alla Loggia. E non solo giornalisti. Tra i collaboratori vi sono medici, ammiragli, parlamentari; persino Silvio Berlusconi, editore del concorrente Il Giornale Nuovo, pubblica articoli di politica economica, mentre il Corriere sostiene le sue prime iniziative nel campo della televisione commerciale.
Il 5 ottobre 1980, il quotidiano di via Solferino pubblica con grande rilievo la prima intervista ufficiale a Licio Gelli, firmata dal piduista Maurizio Costanzo. Ormai da qualche tempo la segretezza della Loggia comincia a incrinarsi, e Gelli ritiene opportuno uscire spavaldamente allo scoperto. Già con il titolo (dettato dall’intervistato), “Parla per la prima volta il signor P2”, e con il sommario (idem), “Licio Gelli, capo indiscusso della più segreta e potente loggia massonica, ha accettato di sottoporsi a un’intervista esponendo anche il suo punto di vista”. A illustrare il testo, due ritratti, Cagliostro e Garibaldi. La Loggia P2, dice Gelli, è “un centro che accoglie e riunisce solo elementi dotati di intelligenza, di un alto livello di cultura, di saggezza, per rendere migliore l’umanità”. Presentando alcuni punti del suo Piano di Rinascita (senza citarne l’esistenza), come la modifica radicale della Costituzione, la Repubblica presidenziale, l’abrogazione dello Statuto dei lavoratori, l’introduzione della pena di morte, il Venerabile auspica che la direzione del nuovo governo sia affidata al Psi, con un Presidente della Repubblica democristiano.
Il quotidiano del Pci, l’Unità, commenta: “Tutti sappiamo chi è questo Gelli, i suoi legami con Sindona e l’eversione, il suo stesso dichiararsi Burattinaio”. E il deputato radicale Marco Boato: “Oggi sappiamo per ammissione del suo capo che questa P2 esiste, e che è una vera e propria associazione segreta, e perciò, secondo la Costituzione, da sciogliere”. Ma Luigi Nebiolo, direttore del Radiocorriere Tv, scrive a Gelli: “Carissimo, ho appena finito di leggere l’intervista al Corriere. Coraggiosa, intelligente, esauriente, polemica… Parole come le tue sono un incoraggiamento a continuare con fedeltà e entusiasmo”. Quanto a Maurizio Costanzo, viene ricompensato con la direzione di un nuovo quotidiano della Rizzoli, dal nome emblematico, L’Occhio, pubblicizzato con l’immagine di un occhio al centro di un triangolo. Simbolo massonico, che peraltro non porterà fortuna al nuovo giornale (impostato su una linea editoriale populista-reazionaria), destinato ad avere vita molto breve.
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Al Tribunale di Milano, il 29 maggio 1981, si apre il processo a Roberto Calvi, che durante la notte del 9 luglio, nel carcere di Lodi, inscena un tentativo di suicidio, senza gravi conseguenze. Esponenti del Psi, guidato da Bettino Craxi, denunciano una “persecuzione giudiziaria” contro il banchiere da parte dei magistrati milanesi in accordo con il Pci, e attaccano “lo strapotere dei magistrati”. Intanto, il 30 giugno, il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi stabilisce per le banche italiane il divieto di possedere banche estere attraverso società finanziarie, e un decreto governativo, in seguito allo scandalo P2, obbliga gli istituti di credito a cedere partecipazioni, dirette o indirette, in società editoriali. Il 20 luglio 1981, Calvi è condannato per reati valutari a 4 anni di reclusione e a 15 miliardi di lire di multa, e gli viene concessa la libertà provvisoria in attesa del processo d’appello.
Roberto Calvi torna alla presidenza di un Banco Ambrosiano che è in pieno marasma, e cerca di parare colpi che gli vengono da varie parti. Francesco Pazienza lo mette in contatto con i suoi colleghi dei servizi segreti (tutti piduisti, anche se Pazienza, massone, non risulterà iscritto alla Loggia), con Giuseppe Ciarrapico (“tramite sicuro, diretto, ed efficace con Giulio Andreotti”), con gli affaristi craxiani Ferdinando Mach di Palmstein e Sergio Cusani, e, fatale incontro, Flavio Carboni, familiare di Ciriaco De Mita e di Armando Corona, prossimo Gran Maestro del Grande Oriente. Parte della sua ultima estate Calvi la passa in Sardegna, tra una villa e uno yacht, a cercare di tessere, con l’ausilio interessato e ambiguo di Carboni e Pazienza, trame e controtrame. E attorno a lui, probabilmente già condannato, si intrecciano manovre di vario tipo: dai servizi segreti allo Ior, dai politici alla Massoneria, fino alla criminalità organizzata (Mafia, Camorra, Banda della Magliana). Gli “amici” approfittano di questa sorta di crepuscolo degli dei per spremere ancora le esangui risorse dell’Ambrosiano: sono le ultime erogazioni, “prestiti” a fondo perduto, denaro che servirà anche, ma questo Calvi lo ignora, a pagare il suo viaggio verso la fine.
Tornato nella sua abitazione romana, il banchiere saggia alcuni dei contatti, politici e finanziari che pensa di poter utilizzare. Infine, scoraggiato, si lascia convincere a partire, con un passaporto falso. Trieste, la Jugoslavia, l’Austria, la Svizzera, e, ultima tappa, Londra, dove crede di trovare degli “amici”. E infatti li troverà, sono già lì che lo attendono.
p. s. - L’ultima riunione del Consiglio d’Amministrazione del Banco Ambrosiano si svolge a Milano il 17 giugno 1982, presieduta dal vicepresidente vicario Roberto Rosone, che il 27 aprile era stato bersaglio di un attentato da parte di Danilo Abbruciati (ucciso da una guardia giurata), malavitoso legato alla Banda della Magliana e al cassiere della Mafia Pippo Calò. Nel corso della riunione del Consiglio, fallito il tentativo, effettuato dall’imprenditore andreottiano Giuseppe Ciarrapico, di sostituire Calvi con il finanziere italo-svizzero Orazio Bagnasco, di fronte all’ammontare dei debiti illegali accumulati attraverso le consociate estere, viene deliberato lo scioglimento degli organi amministrativi, al quale seguirà la nomina di un commissario della Banca d’Italia.
Nel tardo pomeriggio dello stesso giorno, Gabriella Corrocher, segretaria personale di Roberto Calvi, cade da una finestra della sede dell’Ambrosiano, restando uccisa. Un suicidio, si dirà.
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