La senescenza non va considerata solo come decadimento fisico: è un processo in cui cultura e natura si fronteggiano quasi agonisticamente, nel momento più solenne di un essere umano
La vecchiaia è prima di tutto uno stadio della vita, quello finale. Con l’iniziale condivide la delicatezza: l’inizio, come alla fine, la vita è più fragile ed esposta. La vecchiaia è insieme evento personale, “privato”, e pubblico. È però prima di tutto un fatto intimo, riguarda il rapporto che ogni uomo ha con la propria esistenza.
Solo in epoca relativamente recente la vecchiaia è diventata una questione di rilevanza generale: con la creazione dello stato sociale. Prima – fino a poco più di un secolo fa – era un problema dei singoli, delle famiglie, al massimo delle associazioni caritative ed assistenziali.
La vecchiaia è una parte ineliminabile – checché si fantastichi sull’eterna giovinezza che sarebbe a portata di mano della ricerca scientifica – della vita dell’uomo. Solo gli dei non invecchiano. Eterni giovinetti, essi vivono – come dice Epicuro - una vita beata, indifferenti alla sorte dei mortali. La vita degli uomini invece si svolge nel tempo e segue una parabola che ha inizio e fine. Nonostante il detto: “chi muore giovane è caro agli dei”, una vita che si limita alla giovinezza non è completa, rimane come un’opera solo abbozzata. La vecchiaia dell’uomo – a differenza di quella dell’animale - può mantenere in sé contemporaneamente due dinamiche contraddittorie: il decadimento biologico e il perfezionamento della vita.
La fine dell’esistenza è problema che non riguarda solo i vecchi. Anzi. Il vecchio ha spesso un atteggiamento più distaccato e pacato nei confronti della propria fine vicina di un giovane che, pur sentendola lontana, ci pensa con timore ed inquietudine. Nella vecchiaia ci si può trovare all’improvviso, oppure si può imparare ad invecchiare prima di essere vecchi.Ma bisogna essere entrati a fondo nella propria vita per sentirla mutare un poco giorno per giorno. Ogni momento della esistenza a partire dalla maturità, non solo della vecchiaia, propone il dilemma tra decadimento e perfezionamento, ma nella vecchiaia questa divaricazione diviene più estrema, più difficile da gestire.
Dice Kierkegaard che il futuro è l’illusione dei giovani, il passato quella dei vecchi. Se un giovane impara ad essere un po’ “meno giovane”,da vecchio sarà un po’ meno vecchio. Ogni età ha difficoltà a conciliarsi effettivamente col suo presente. Se ci si educa fin da giovani a non evadere dal momento che si sta vivendo, da vecchi si avrà meno l’alibi del passato, lo si idealizzerà meno, si apprezzerà ogni momento di vita per se stesso. Per quanto passata, la vita, fino a che c’è, non lo è mai del tutto. Nessuno è tanto vecchio – osservava Cicerone – da non poter sperare di vivere ancora un altro anno.
La vecchiaia è età contemplativa per eccellenza. Il mondo intorno, da cui è attratta la curiosità del giovane, interessa meno. È come un romanzo già letto, un film già visto. Difficile che un vecchio possa essere sorpreso dagli avvenimenti del mondo. A come vanno le cose ci si abitua, ma la vita è di per sé un fenomeno sempre sorprendente. Ciò che per il vecchio resta misterioso è la propria interiorità, il mutare dei suoi umori, dei suoi pensieri di momento in momento. Un gioco di specchi o di echi che rimanda ad un principio della vita che resta nascosto dietro questo infinito variare, inafferrabile. Se si è preparato fin dalla gioventù, il vecchio ama immergersi in questo mistero cercando più che mai di venirne a capo.
I vecchi sanno che cosa è il tempo. Hanno visto cadere illusioni, i loro coetanei e loro stessi cambiare d’aspetto, anno dopo anno. Non così i giovani, che vivono in un mondo fatto di ruoli e personaggi fissi, i quali possono agire, entrare ed uscire, ma non mutano in scena il loro aspetto. Per il bambino, o anche l’adolescente, è quasi impossibile pensare davvero che il nonno o il padre siano stati dei bambini o dei ragazzi come lui.
Un vecchio giunto ad un’età venerabile è interessante come un esperimento osservabile nelle sue estreme conseguenze. Se lungo i suoi anni è effettivamente maturato, il vecchio conduce una vita serena, e anche la sua morte è tranquilla. Nella Bibbia si dice che i patriarchi muoiono in pace dopo una vita lunghissima. Per esempio Abramo, a centosettantacinque anni, “in felice canizie, vecchio e sazio di anni”. Ma la serenità è un risultato difficile. Il vecchio assomiglia ad un funambolo che cammina su un filo sempre più sottile. Per questo la virtù principe della vecchiaia è l’equilibrio.
La vecchiaia richiede dignità. Non c’è niente di più riprovevole di un vecchio dominato da basse passioni, come “il vecchio malvissuto” che incita la folla ad abbandonarsi al saccheggio durante il tumulto del pane, descritto da Manzoni nei Promessi Sposi. Non c’è niente di più patetico di un vecchio che tenta di fare il giovane. Un uomo non dovrebbe sentirsi dire dagli altri che è diventato vecchio, dovrebbe saperlo da sé.
Quando ci sono, le passioni dei vecchi sono particolarmente smodate e suscitano pena ed indignazione, oppure compatimento e riso, quando non disgusto.
Un esempio di vecchiaia squilibrata è quello del biblico re Saul, invidioso di David - niente è peggio dell’invidia dei vecchi nei confronti dei giovani - o quello che ha ispirato il protagonista del Falstaff di Verdi. Una vecchia che si veste come una giovanetta suscita il riso, scrive Pirandello nel suo Saggio sull’Umorismo, ma se veniamo a sapere che essa si abbiglia così per piacere ad un marito più giovane al quale non sa rinunciare, allora non ridiamo più. In certi casi la condizione senile può essere anche tragica. Un vecchio non dovrebbe rimanere impigliato alle persone e alle cose del mondo che gli stanno intorno.
Il nostro tempo teme la vecchiaia e spesso la rimuove. Oppure la esibisce, ne fa spettacolo. Raramente la rispetta. Certe invereconde “rivincite dei vecchi” che scimmiottano la gioventù, messe in scena specialmente dalla TV, rasentano l’oscenità. Al contrario, l’antichità ha spesso veramente onorato la vecchiaia.
Filemone e Bauci sono due vecchi, marito e moglie, che hanno attraversato insieme tutta la vita. La loro storia è narrata da Ovidio nelle sue Metamorfosi. Giove e Mercurio, i due dei, decidono di scendere dall’Olimpo e di prendere per un poco sembianze umane. Travestiti da mendicanti, bussano alle porte delle case di un paese, venendo respinti da tutti. Quando giungono alla povera capanna in cui abita la coppia di vecchi sono accolti con generosità. A differenza dei loro compaesani, Filemone e Bauci mettono tutto quel poco che hanno, nella loro povertà, a disposizione dei finti mendicanti. Hanno conservato la semplicità, la apertura agli altri che, già non comune nella giovinezza, è veramente rara nella vecchiaia. Giove e Mercurio, commossi, alla fine rivelano la loro identità e invitano la coppia a chiedere una ricompensa. Questi pregano solo di poter morire insieme. Saranno accontentati. Un giorno, mentre Filemone sta raccontando a degli ospiti la loro avventura, vede Bauci ricoprirsi di fronde e di corteccia, e Bauci lo stesso avvenire a Filemone. La loro non sarà proprio una morte, bensì una metamorfosi: saranno due alberi, per sempre vicini.
Disponibilità ed apertura al nuovo sono essenziali per mantenere negli anni un rapporto intenso con la vita. “Invecchio imparando sempre molte cose” dice Solone - vissuto tra il settimo e il sesto secolo avanti Cristo, poeta e legislatore di Atene, annoverato tra i Sette Sapienti della Grecia - in un suo frammento che ci è pervenuto. Quella della vecchiaia è una partita che deve essere giocata in modo che il perfezionamento prevalga il più possibile sul decadimento. Per invecchiare bene bisogna amare molto la vita, ciò che non vuol dire essere attaccati ad essa. Di tutte le sfide che l’uomo possa raccogliere nella sua esistenza, quella della vecchiaia è la più umana.
L’uomo, a differenza dell’animale che è sempre totalmente arreso all’andamento ciclico del tempo biologico, gioca con la vecchiaia una partita complessa, che si attua con strategie sostitutive e di compensazione. Gli richiede tutta la sua volontà,la sua immaginazione, la sua duttilità. “Il corpo si appesantisce per la fatica dell’ attività - osserva Cicerone nel suo “Della Vecchiaia”- “lo spirito invece, esercitandosi, si fa più leggero”. Egli inoltre consiglia ai vecchi di ”avere uno spirito teso come un arco e non lasciarsi vincere dalla vecchiaia, arrendendosi alla debolezza”.
Presso le società tribali il vecchio, se è stato un guerriero o cacciatore valoroso, fa parte del consiglio degli anziani che detiene il governo politico della comunità ed amministra anche la giustizia. A Roma, fin dalle origini, l’organismo che esercitava il potere politico era il Senato (Senatus). Come dice il nome, un’assemblea di vecchi (senes). A Sparta la “Gherusia”, che deteneva il potere, era formata da vecchi (ghérontes). Anche se è un po’ prolisso e noioso nei suoi interventi in assemblea, il vecchio Nestore, che partecipa nonostante l’età avanzata alla guerra di Troia – come racconta Omero nell’Iliade - è considerato saggio e come tale rispettato ed ascoltato da tutti gli Achei.
Quando il vecchio è troppo indebolito anche per partecipare al consiglio degli anziani, si occupa dei problemi quotidiani del villaggio, insegna e intrattiene i bambini, racconta loro i miti e le storie tramandate. Così contribuisce a rinsaldare la coesione sociale.
Nel dialogo che si intitola Parmenide – uno dei più importanti ed impegnativi tra i Dialoghi di Platone – sono presentati tre uomini che si trovano ciascuno in un diverso momento della vita. Parmenide, il filosofo di Elea, è descritto all’età di sessantacinque anni “già vecchio, tutto bianco di capelli, bello e nobile d’aspetto”. Lo accompagna Zenone, il suo scolaro e continuatore del suo pensiero, che ha quarant’anni. Il dialogo vede come interlocutore Socrate, che ha l’età di vent’anni. Parmenide, fra i tre, è presentato da Platone con parole di maggiore ammirazione.
Confrontando questi esempi con i modelli umani giovanilisti che vanno per la maggiore oggi, si direbbe che la nostra civiltà non ha – come si sostiene comunemente – allungato la vita dell’uomo, ma, almeno nella considerazione sociale, la ha abbreviata.
Dal punto di vista naturale, biologico, la vita umana si svolge lungo un arco che va dalla assoluta debolezza infantile a quella senile. Sempre dal punto di vista biologico la maturità si ha poco dopo che l’organismo ha cessato di crescere, vi è un breve momento di equilibrio e poi inizia la decadenza. Dal punto di vista culturale non è così: il culmine è raggiunto quando il massimo di elaborazione dell’esperienza si congiunge ad un ancora sufficiente – anche se non massimo - vigore fisico e mentale.
I processi di maturazione individuale sono piuttosto imprevedibili. Ci sono uomini precoci, come, per esempio, Pico della Mirandola, Rimbaud o Piero Gobetti, che prima dei trentenni hanno già espresso il massimo; ma altri, come Tiziano, Bismark o Tolstoi, che hanno dato il meglio di sé quando erano già vecchi o vecchissimi.
Se la vecchiaia non può concedersi grandi piaceri, non è nemmeno tormentata da grandi desideri. Il protagonista del romanzo incompiuto di Italo Svevo, “Il vecchione”, si trova a letto. Al buio, prima di addormentarsi, non riesce a trattenere una risata. La moglie accanto a lui, che lo ha sentito, gli domanda che cosa ha da ridere. Lui risponde di aver pensato che se venisse il diavolo a proporgli il baratto della sua anima in cambio della soddisfazione di un desiderio, egli non saprebbe che cosa chiedere.
La vera grande passione della vecchiaia è la coscienza: la vita presente a se stessa. Una coscienza lucida e curiosa, che non si arrende, è ciò che rende luminosa questa età. Ma per mantenerla tale bisogna mantenere viva la sua fiamma, perché bruci tutto quello che c’è da bruciare, e nulla resti inutilizzato delle potenzialità della vita.
La vecchiaia un tempo era una questione da filosofi, da aristocratici indagatori della vita, ma oggi è un grande fenomeno di massa. È diventata “problema” per i medici e gli scienziati, per i sociologi, gli psicologi, gli economisti, e naturalmente per i politici. Mai la percentuale di vecchi è stata così alta come oggi nella nostra società. L’Europa invecchia, l’Italia invecchia anche di più. Alla fine del XIX secolo una persona su tre riusciva a toccare il traguardo dei 60 anni e solo una esigua minoranza (6-7 per cento) raggiungeva gli 80 anni. A distanza di 90 anni, nel 1990, il 93% di una generazione di donne è arrivata a toccare il traguardo dei 60 anni (uomini: 86%) ed il 62% gli 80 anni (uomini: 39%); nello stesso arco di tempo la speranza di vita alla nascita è aumentata di 31 anni per gli uomini e di 37 per le donne. Ha toccato il traguardo dei 73,6 anni per gli uomini e 80,2 per le donne.
Ciò che è in questione è l’equilibrio demografico. Dopo circa tre secoli di crescita impetuosa il vecchio continente subisce un arresto ed in prospettiva una diminuzione della sua popolazione. Non è la prima volta che ciò accade. La fine dell’età antica venne in parte provocata da una marcata diminuzione della popolazione dell’impero romano anche per la diffusione di terribili pestilenze. Intorno alla metà del milletrecento la peste nera provocò una drastica riduzione della popolazione europea. In proporzioni minori e in aree più circoscritte ciò ebbe a ripetersi di tanto in tanto anche nei secoli seguenti (per esempio in Germania, durante la Guerra dei Trent’anni), fino a che la medicina e l’igiene moderne non hanno debellato o ridotto i pericoli di epidemie catastrofiche (salvo nuove possibili insorgenze, come quella dell’Aids e della Sars). La diminuzione di popolazione di oggi - compensata per lo più dall’immigrazione - è dovuta non a catastrofi, ma al benessere.
I vecchi di un tempo erano gli individui più forti, che avevano oltrepassato con successo le soglie più severe di selezione della vita. Non quelli di oggi, la grande maggior parte dei quali in altre epoche sarebbe già morta. La nostra civiltà ha rovesciato il criterio naturale. Tende a stabilizzare l’esistente: mantiene di più quello che c’è, riduce sia le “entrate” - le nascite – che le “uscite” - le morti. Da ciò deriva l’invecchiamento, in termini assoluti, della popolazione.
In Italia il livello della fecondità era all'inizio degli anni '50 ancora superiore al valore che assicura la sostituzione dei due genitori (2,1 figli in media per donna); al 1993 il nostro Paese è, tra quelli della Unione europea, quello che detiene il primato della più bassa fecondità del mondo (1,22 figli per donna).
Uno studio del 1990 (Golini e Lori: “L’invecchiamento della popolazione italiana in un contesto internazionale”), rilevava: “La grande svolta dell'invecchiamento si è avuta in questo secolo: il numero delle persone con meno di 20 anni, che durante i primi ottanta anni del secolo si era mantenuto ad un livello abbastanza costante di 15-17 milioni), dovrebbe nel corso dei prossimi quaranta anni registrare un forte decremento che lo porterebbe ad attestarsi, intorno al 2020, su poco meno di 9 milioni. Al contrario, gli ultrasessantenni che al 1950 ammontavano a poco meno di 6 milioni hanno nel corso di quaranta anni (1950-90) quasi raddoppiato la loro consistenza numerica; tale aggregato dovrebbe, secondo le stime delle Nazioni Unite (UN, 1993), registrare un aumento di 4,3 milioni di unità e raggiungere nel 2020 quasi i 16 milioni, pari al 29,3% della popolazione totale. Lo scambio numerico giovani-vecchi dovrebbe verificarsi in Italia, primo Paese nello storia dell'umanità, nel 1995; più avanti negli anni, nel corso del XXI secolo, si verificherà poi per tutti gli altri Paesi”.
Il neonato nell’Occidente del benessere non è più gettato allo sbaraglio nel mondo, come avveniva secoli fa e come ancora avviene in gran parte del mondo che si dibatte sotto la soglia della povertà. L’individuo umano, dalla nascita allo stato adulto, oggi ha bisogno più che mai di essere allevato, curato, educato. A suo vantaggio devono essere spese energie e risorse immense. Si capisce che prima di decidere di metterne al mondo uno, ci si pensi molto. Oggi la maternità e la paternità sempre più “si progettano”, si decidono all’interno di processi e strategie relazionali sofisticati e complessi. Proprio nell’età della così detta “massificazione”, cioè dell’appiattimento e dell’omologazione dei comportamenti, dei gusti e dei consumi, più importante si fa l’individualità, il suo carattere unico ed irripetibile. Nell’epoca che ha inventato la statistica e la legge dei grandi numeri la singola vita è considerata preziosa, anzi, senza prezzo. Non deve ingannarci il fatto che la nostra attenzione sia spesso presa da episodi che attestano il contrario, cioè la noncuranza o il disprezzo della vita dei singoli. L’indignazione che questi casi suscitano semmai conferma - e non smentisce - il fatto che la vita umana singola abbia per noi in generale una importanza molto maggiore che in qualsiasi epoca precedente. È scandalo oggi quello che un tempo era normalità.
Una maggiore considerazione del valore della vita è stata resa possibile dallo sviluppo di una organizzazione sociale che ha potenziato quasi infinitamente i risultati del lavoro umano. Ma proprio da questa razionalizzazione oggi proviene il maggiore pericolo. Risulta difficile, in una società organizzata sulla base del calcolo razionalizzante ed ottimizzante, non comprendere tutto entro la logica del calcolo. Abituati a chiederci sempre “a che cosa serve questo?”, e “quanto costa?”, restiamo perplessi davanti a ciò che evidentemente non serve eppure ha un alto prezzo, come il vecchio. La vecchiaia sembra essere una voragine che inghiotte a perdere risorse sociali immense per il mantenimento, l’assistenza, le cure, ecc.
La logica del calcolo ottimizzante sembrerebbe essere più vicina a quella della natura. I nazisti, nella loro politica di sterminio, non solo degli ebrei e degli zingari, ma anche degli handicappati, dei malati di mente eccetera, ritenevano di non fare altro che applicare un criterio naturale di selezione biologica. Anche senza arrivare a questi estremi, per una civiltà che ha sviluppato enormemente la cultura dei mezzi, è difficile ragionare in termini di fini, perché i fini umani devono valere per loro stessi. Ancora più difficile è ritenere che la vecchiaia possa essere considerata oltre che la fine della vita, anche un fine. Un fine è qualcosa che si desidera e si persegue, la vecchiaia, invece, si teme, si evita, e, fino a che si può, si nasconde.
Ma la vecchiaia va considerata nella compresenza dei suoi due aspetti, non solo come l’età del decadimento, ma anche quella del perfezionamento. Il decadimento è naturale, il perfezionamento un processo culturale, “umano”. In nessuna età, come nella vecchiaia, natura e cultura si fronteggiano e fanno valere “agonisticamente” i loro opposti criteri. Una comunità umana si distingue da quelle animali quando esce in qualche modo dalla monotona ripetizione del ciclo biologico e dal dominio dell’istinto, e si pone come fine un’ideale perfezione che sta in un certo senso fuori dal tempo. Se è così, il vecchio è il simbolo e l’incarnazione vivente di questo confronto tra natura e cultura nella sua forma più radicale ed esplicita. In questo senso è la manifestazione più compiuta della comune umanità. Poiché la vecchiaia è l’età che si trova più vicina ai limiti della vita, l’uomo che si trova in questa età va guardato come si guarda il viaggiatore nelle regioni estreme, l’esploratore del “Polo Sud” dell’esistenza.
Dalla sua nascita l’uomo congiunge in sé due processi: il biologico e il culturale. Fino ad un certo punto l’accrescimento fisico e culturale vanno insieme, poi iniziano ad andare in un senso opposto l’uno dell’altro. Da un certo momento in poi, la maggiore comprensione della vita va di pari passo con la diminuzione delle sue energie fisiche. Ma le individualità più riuscite sanno trattenere più a lungo la natura, di per sé proiettata nella sua marcia cieca verso la fine, come la Sherazade delle “Mille e una Notte”.
Ma, se guardiamo oggi ai nostri vecchi, è raro purtroppo che troviamo tra loro “i nostri campioni” nella comune lotta dell’uomo contro la ciclicità del tempo, gli incantatori della natura che vorremmo avere ad esempio. Le immagini che ci offrono i mezzi di informazione sono tanto spesso quelle del declino, dell’abbandono, del solitario e avvilente naufragio. La vecchiaia di massa è principalmente “un problema”: effetto della schizofrenia di una civiltà che, mentre allunga la vita biologica, riduce quella sociale, il prestigio, la funzione del vecchio.
Ma i naufragi, che nella vecchiaia non si possono più nascondere, sono in genere avvenuti ben prima, fin dalla gioventù. Sono anche il prodotto di una organizzazione sociale e produttiva che non favorisce la maturazione individuale, abitua le persone ad omologarsi, a vivere un’esistenza ripetitiva ed individualmente deresponsabilizzata, a considerarsi come puri mezzi. La nostra civiltà non contrasta, ma riproduce l’andamento ciclico naturale della nascita e della morte nel ciclo della produzione e del consumo. Fuori delle funzionalità produttiva e riproduttiva, con poche risorse a disposizione per il consumo, molte persone in età avanzata subiscono un’eclissi sociale e restano smarriti e come svuotati.
Ma la vecchiaia non è – almeno non principalmente - un problema sociologico, o psicologico, o economico, né che possa essere affrontato in modo esauriente in base ad un qualche altro approccio scientifico. Non bastano le cure e l’assistenza, la organizzazione di punti d’incontro per anziani, intrattenimenti e viaggi. Il vecchio non deve essere spupazzato, affinché dimentichi il più possibile la sua condizione. È un uomo o una donna nel momento più solenne, vorrei dire più “sacro”, della sua esistenza, che sta davanti, potendole vedere quasi insieme, alla propria vita e alla propria morte. Così il vecchio deve vedere se stesso, così va considerato da tutti, e per questo profondamente rispettato.
Chiedersi quanto i vecchi gravano sulla società è insensato, come domandarsi quanto pesa la testa su un corpo. Ridurre la quota di ricchezza sociale a loro disposizione è ignobile. Ma non avere alcuna considerazione, da giovani, per la vecchiaia, o, al massimo averne pena, evitarla e temerla: tutto questo è sciocco e miope. Come non riconoscere la dignità e la funzione sociale dei vecchi, se non altro quali possibili avanguardie dell’umanità, che sfidano la natura nelle regioni crepuscolari dell’esistenza; non esigere, e preparare la propria vecchiaia in modo che sia l’età del compimento della propria vita come un’opera, in grado di compensare più a lungo possibile con il perfezionamento la sfida del tempo e le manifestazioni della decadenza fisica. In questa battaglia tra natura e cultura alla fine la natura, la decadenza, ha il sopravvento. Ma quello che importa non è l’impossibile vittoria – che ci farebbe uscire dall’umano. Ciò che conta è non perdere la passione della coscienza, l’impegno ad essere presenti a se stessi. Importante è arrivare alla fine senza lasciarsi prendere alla sprovvista e - come dice Marco Aurelio - “uscire dalla vita ad occhi aperti” .
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