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febbraio/2004 - Interviste
Giustizia
Che rapporto difficile!
di Lorenzo Delli Priscoli

Talvolta sembra quasi che la Polizia giudiziaria veda nel pubblico ministero (e nell’Autorità giudiziaria in generale) un ostacolo nel perseguimento dei suoi fini, fra i quali quello di tenere in carcere i malavitosi

Nella mia esperienza di sostituto Procuratore della Repubblica mi sono spesso interrogato sulla possibilità di migliorare i rapporti tra pubblico ministero e Polizia giudiziaria, al fine di trarre il massimo profitto da tale collaborazione. L’impressione che ho subito avuto infatti, confermata con il trascorrere del tempo, è che tale rapporto è spesso caratterizzato da una reciproca diffidenza e da una difficoltà di comunicare, quasi come se si appartenesse a due mondi separati; allo stesso modo la sensazione è che con uno sforzo non eccessivo da parte di entrambe le parti potrebbero ottenersi notevoli miglioramenti.
In effetti talvolta sembra quasi che la Polizia giudiziaria veda nel pubblico ministero, e nell’Autorità giudiziaria in genere, un ostacolo nel perseguimento dei suoi fini, fra i quali vi è senza dubbio quello di tenere in carcere i malavitosi. La Polizia giudiziaria è espressione di una giustizia più istintiva, più vicina all’uomo della strada, che guarda con una certa insofferenza ai tanti ostacoli processuali che si frappongono nel perseguimento di questo fine. Manca spesso una solida cultura della prova, ad esempio spesso si dimentica che le dichiarazioni spontaneamente rese dall’indagato hanno una ben scarsa utilizzabilità; si tende in altre parole a dimenticare che altro è la verità sostanziale e altra quella processuale.
Di questi difetti, peraltro, lo ripeto, ispirati da un fine ultimo nobile, quale quello di assicurare la pace sociale cercando di mettere i soggetti che pongono in essere comportamenti contrari al diritto penale in condizioni di non nuocere alla collettività, sembra essere non tanto responsabile la stessa Polizia giudiziaria, quanto l’intero sistema giustizia, che forse trascura di perseguire un più continuo arricchimento professionale delle Forze dell’ordine, ma che soprattutto troppo spesso relega la Polizia giudiziaria ad un ruolo secondario, non rendendola partecipe dello svolgimento dell’intero procedimento penale, che si conclude non con l’arresto e con la denuncia a piede libero di un soggetto, ma con una sentenza, un decreto penale o con un decreto di archiviazione.
Così, ad esempio, all’inizio della mia esperienza mi sorprendeva il fatto che la Polizia giudiziaria utilizzasse le espressioni “pregiudicato” o “pluripregiudicato”, quando invece avrei avuto interesse a sapere se un determinato soggetto fosse stato o meno recidivo. Pregiudicato è infatti colui che ha precedenti di Polizia, non necessariamente anche colui che abbia già subito condanne. Ho poi compreso che la Polizia giudiziaria, non venendo istituzionalmente informata circa l’esito del procedimento penale, in molti casi non dispone delle informazioni necessarie per sapere se una determinata persona abbia o meno riportato condanne definitive. Ciò contribuisce inevitalmente a costituire una mentalità in cui l’arresto (o in subordine la denuncia all’Autorità giudiziaria) rappresenti non il punto di partenza di un’indagine ma il punto di arrivo, poco interessa così sapere se dopo anni arrivi o meno una sentenza di condanna o di assoluzione. È l’arresto dunque che dà prestigio, che fa statistica, curriculum, e una volta effettuato lo stesso in molti casi il caso viene considerato “chiuso” e il pubblico ministero, fino ad allora seguito ed assistito con entusiamo, viene, in non pochi casi, bruscamente quasi dimenticato e trascurato. Dal fatto di non essere edotta del seguito del procedimento deriva anche, a mio avviso, lo scarso interesse che non di rado viene mostrato dalle Forze dell’ordine per l’attività di testimonianza nei processi, che molte volte viene visto più come un intralcio alla propria attività ordinaria che come uno dei momenti più importanti del proprio lavoro. E così di frequente accade di assistere a testimonianze scarsamente incisive, svogliate e con molti vuoti, che contrastano con una attività investigativa compiuta il più delle volte con il massimo entusiasmo, impegno e precisione, venendosi a dimenticare che nel procedimento penale quello che conta è quello che viene riferito in dibattimenro e non quello che viene fatto o scritto durante le indagini.
Riterrei dunque che per migliorare questa situazione occorrerebbe coinvolgere maggiormente le Forze dell’ordine nel corso dell’intero procedimento, ad esempio trasmettendo loro copia della richiesta di archiviazione e delle sentenze.
Ancora troppo scarsa appare poi la coordinazione e la collaborazione tra pubblico ministero e Polizia giudiziaria.
Innanzitutto gli atti che vengono trasmessi dalla Polizia giudiziaria alla Procura non sempre sono di facile intelligibilità formale, perché manca una uniformità di criteri nella redazione degli stessi.
Così ad esempio ogni stazione dei Carabinieri ha il suo stile, la sua grafica, il suo modo di posizionare sul foglio gli elementi del fatto considerati rilevanti, e non di rado si perde tempo già solo per capire se ci si trovi davanti ad un “seguito” di un procedimento penale già aperto o ad una nuova notizia di reato, ad una denuncia a carico di soggetti noti od ignoti e, in quest’ultimo caso, se essa sia o meno suscettibile di utili sviluppi investigativi.
Inoltre, manca in molti casi nella Polizia giudiziaria la pena consapevolezza delle esigenze primarie del pubblico ministero nella ricezione dell’atto che sono, oltre a quelle già ricordate di comprendere se si tratti o meno di una notizia nuova e se a carico di noti o ignoti, il luogo e la data di commissione del reato, che non sempre vengono adeguatamente evidenziate. Tutto ciò rende più macchinosa e lenta la lettura della posta da parte del magistrato addetto a tale compito, con conseguente perdita di tempo per quest’ultimo. Un semplice suggerimento sarebbe quello di decidere a livello nazionale - con il suggerimento di esponenti della Procura - una modulistica chiara, semplice e soprattutto uniforme per tutta la Polizia giudiziaria.
Si avverte poi la mancanza di un responsabile del procedimento, un soggetto cioè che abbia sempre presente lo stato delle indagini, che si attivi perché queste vengano completate nei termini di legge e che intrattenga rapporti con altri eventuali organi di Polizia giudiziaria delegati per la stessa indagine, sollecitandoli ove fosse necessario (si pensi ad esempio ai procedimenti per ricettazione di assegni, ove le indagini molto spesso investono organi territorialmente diversi). Tale soggetto dovrebbe essere individuato nominativamente fin dall’inizio del procedimento con l’indicazione altresì di un numero di telefono (in molti casi infatti gli atti vengono firmati da un superiore gerarchico che è all’oscuro o quasi della vicenda; inoltre non di rado può sorgere un dubbio nel pubblico ministero che potrebbe essere rapidamente chiarito con una telefonata; sarebbe altresì una buona abitudine per il pubblico ministero quella di indicare a sua volta un numero di telefono cui la Polizia giudiziaria possa fare riferimento per eventuali dubbi, senza che questa sia costretta - come spesso accade - a recarsi di persona e senza appuntamento dal pubblico ministero per chiedere cose che potrebbero essere spiegate ugualmente per telefono con una minore perdita di tempo per entrambe le parti). Questo responsabile del procedimento potrebbe inoltre svolgere un ruolo di stimolo nei confronti del pubblico ministero, sollecitandogli eventuali richieste della Polizia giudiziaria (ad esempio una perquisizione) che non fossero state evase (magari solo per una dimenticanza; ferma naturalmente la possibilità per il pubblico ministero di non dare seguito alla richiesta).
Una volta terminate le indagini, spesso manca - talvolta per un male interpretato rispetto nei confronti dell’Autorità giudiziaria - una notazione conclusiva con la quale la Polizia giudiziaria esprima la propria opinione motivata circa la sussistenza o meno di elementi per sostenere con profitto l’accusa in giudizio, venendosi così inevitabilmente a perdere un patrimonio di idee di coloro che hanno sentito di persona le persone informate sui fatti e l’indagato. Tali considerazioni, che non sarebbero vincolanti per il pubblico ministero, potrebbero in molti casi fornire spunti utili se non altro, qualora si rivelassero non convincenti, per una richiesta di archiviazione. Inoltre la Polizia giudiziaria sarebbe più responsabilizzata e stimolata nello svolgimento delle indagini, e sarebbe “costretta” a non trascurare particolari importanti. Allo stesso scopo sarebbe utile che la Polizia giudiziaria redigesse un capo d’imputazione, perché è solo scrivendolo che ci si può rendere appieno conto se l’ipotesi di accusa si fonda o meno su solide basi, e si comprende inoltre quali indagini devono essere eventualmente ancora svolte (così ad esempio in una indagine per truffa per consegna di assegno privo di copertura, dovendo la Polizia giudiziaria nel capo d’imputazione esplicare gli artifizi e raggiri subiti dalla persona offesa, si renderebbe conto della necessità di chiedere a quest’ultima se l’indagato, nel consegnare l’assegno aveva assicurato la copertura dello stesso, non potendosi altrimenti parlare di truffa ma di spendita di assegni senza provvista, fattispecie priva di rilievo penale).
Tutto ciò aiuterebbe la Polizia giudiziaria a ragionare allo stesso modo del pubblico ministero, a parlare la sua stessa lingua: e ciò sarebbe tanto più utile adesso che la Polizia giudiziaria, con l’istituzione del giudice di pace anche per il settore penale, è chiamata ancora più spesso a svolgere il ruolo di pubblico ministero di udienza.
Andrebbero poi maggiormente coinvolti nelle indagini e nella redazione degli atti i funzionari e i diritenti della Polizia giudiziaria (che hanno superato difficili concorsi per laureati e che per la loro preparazione potrebbero fornire un contributo importante) e che invece spesso sono quasi totalmente assorbiti in ruoli burocratico-amministrativi, quali ad esempio il pagamento degli straordinari o l’organizzazione dei turni di lavoro.
La valorizzazione delle risorse della Polizia giudiziaria ed un loro migliore coordinamento con l’attività del pubblico ministero si rendono dunque indispensabili nel perseguimento dell’obiettivo che accomuna tutte le Procure italiane, che è quello di esaminare tutta l’ingente quantità di notizie di reato assicurando nel contempo un livello qualitativo più che decoroso nella trattazione delle stesse.
Assicurare l’effettivo rispetto del principio dell’obbligo nell’esercizio dell’azione penale sembra infatti il modo migliore per difendere il mantenimento del principio stesso, sottraendo un argomento decisivo a coloro che, partendo dalla constatazione dell’impossibilità per le Procure di trattare tutte le notizie di reato, vorrebbero attribuire al Parlamento la scelta circa i reati da perseguire.
(Da “La Magistratura”, organo dell’Associazione Nazionale Magistrati, n. 3/4 - luglio/dicembre 2003. Per gentile concessione).

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