Il “primato” dell’organizzazione criminale calabrese è segnalato nell’ultima relazione del ministero dell’Interno sull’attività delle Forze di polizia e sullo stato dell’ordine e della sicurezza pubblica
Cosa nostra è in fase di mimetizzazione e di ripiegamento. La camorra ha un raggio di azione limitato all’area della Campania. La ’ndrangheta calabrese dunque sale alla ribalta come la più potente organizzazione criminale presente in Italia. Gli investigatori più attenti alla realtà della criminalità organizzata non hanno dubbi: la ’ndrangheta è radicata nel territorio calabrese, ma al tempo stesso ha propaggini rilevanti su larga parte del territorio nazionale, e in particolare Lombardia, Piemonte, Liguria, Veneto, Emilia Romagna, Lazio; si diffonde in Europa con basi in Olanda, Germania, Francia, Spagna e Belgio, e si spinge oltre Oceano, fino a Canada, Stati Uniti, Colombia, Venezuela e Australia.
Il “primato” dell’organizzazione criminale calabrese è segnalato nell’ultima relazione del Viminale al Parlamento sull’attività delle Forze di polizia e sullo stato dell’ordine e della sicurezza pubblica. La ’ndrangheta, si legge nel rapporto, “detiene il primato nello scenario criminale nazionale” sia per la tenuta interna e il forte controllo del territorio, sia per la competitività ormai acquisita nel traffico della cocaina. Il “plusvalore” della ’ndrangheta consiste essenzialmente “nella capillarità delle sue strutture anche al di fuori dell’area di origine e ciò consente una gestione diffusa degli affari, con il progressivo insediamento nei mercati economici e imprenditoriali del centro e del nord Italia.
La pericolosità delle cosche calabresi è sottolineata anche dai servizi segreti. Nell’ultima relazione semestrale al Parlamento la ’ndrangheta è tratteggiata come “una delle più insidiose strutture criminali, abile nella gestione di risorse finanziarie ed attività imprenditoriali”. Il monitoraggio dell’intelligence, registra “reiterati tentativi di infiltrazione nelle gare di appalto, attraverso collaudate e differenziate metodologie di stampo intimidatorio che non escludono temporanee alleanze con altre organizzazioni delinquenziali”. In prospettiva, secondo i servizi, “appaiono destinati ad attirare l’attenzione delle ’ndrine gli ingenti finanziamenti collegati alle iniziative di rilancio economico della regione, nonché le risorse finalizzate alla realizzazione di centrali elettriche, ma soprattutto alla costruzione del ponte di Messina”.
Il più redditizio settore d’intervento resta tuttavia il traffico di stupefacenti. Le “famiglie”, rileva la relazione, “specie quelle localizzate sulla costa ionica, sono in grado non soltanto di incidere sul mercato nazionale, ma anche di controllare i flussi di importazione della droga dai luoghi di produzione fino all’Europa. Si valuta in particolare che i legami instaurati con i cartelli colombiani abbiano consentito alla mafia calabrese di assumere un ruolo pressoché egemone nel commercio di cocaina”.
Raramente, comunque, la ’ndrangheta fa notizia. Lodevole eccezione, ma anche conferma di una regola, una lunga, dettagliata inchiesta pubblicata su “l’Unità”: “Vibo Valentia, pizzo o morte sotto il sole”. Aldo Varano racconta come la ’ndrangheta, la mafia calabrese, controlli praticamente ogni affare: e se qualcuno alza la testa, spara. “Avvertimenti” chiarissimi: “se qualcuno non paga, lo facciamo saltare”.
Scrive tra l’altro Varano: “Alla ’ndrangheta del pizzo il mese scorso è stato assestato un colpo micidiale con l’operazione Dinasty, la decimazione del clan Mancuso che la Commissione antimafia giudica uno dei più potenti d’Europa. La cosca ha radici e cuore a Limbadi, nel Vibonese, ma fa affari e investimenti ovunque possibile. Hanno gioito in molti per quest’indagine della mobile di Vibo, diretta da un giovane ‘poliziotto di strada’ come il dottore Rodolfo Reperti…Ma il vice di Pierluigi Vigna, il procuratore aggiunto della Dna Emilio Lo Donne, ha avvertito: “Ai Mancuso è stato inferto un duro colpo, ma sia chiaro, non mortale”.
Una mafia, la ’ndrangheta calabrese, ricca; forse più di Cosa nostra. Insinuante e pericolosa perché agisce di preferenza sotto traccia; di questa mafia così poco appariscente ben poco si conosce. Cerchiamo allora innanzitutto di capire le dimensioni del fenomeno, aiutati da un recente rapporto della Direzione Investigativa Antimafia.
Il giro d’affari, innanzitutto, la “roba”. Nel rapporto semestrale della Dia apprendiamo che alle cosche calabresi sono stati confiscati beni per 5 milioni di euro, mentre quelli sottoposti a sequestro ammontano a oltre un milione di euro.
Dalle analisi effettuate dalla Dia emerge un quadro preoccupante: la mafia calabrese, al pari della “cugina” siciliana, sta cambiando pelle, dimostrando una grande capacità di adattamento; e si sta modernizzando sulla base di un’articolata rete di proiezioni in ambito nazionale, che si alimenta del supporto delle varie comunità calabresi insediate ormai da più generazioni nelle grandi e medie città del Settentrione; i suoi interessi spaziano dal traffico della droga al controllo del gioco d’azzardo, e può contare su un consistente numero di affiliati.
Si è fatta inoltre particolarmente insidiosa e preoccupante la capacità di infiltrarsi nel sistema imprenditoriale, attraverso l’investimento di enormi capitali: “Una grossa massa di liquidità viene reinvestita in strutture societarie o in beni immobili attraverso un’accorta attività di riciclaggio, realizzata ricorrendo all’esterovestizione mediante l’intervento di società fiduciarie con sede in paesi offshore”; inoltre, per supportare questi traffici, la ’ndrangheta provvede a infiltrarsi nelle realtà locali, così da poter condizionarne l’attività amministrativa.
Ma ecco la mappa delle ’ndrine calabresi, provincia per provincia:
Catanzaro: il fenomeno si presenta “disomogeneo e contraddittorio”; questo perché “tuttora sono notevoli le differenze fra capoluogo e fascia ionica, dove le famiglie locali non sono ancora riuscite a raggiungere livelli organizzativi e strutturali tali da consentire loro di affrancarsi dall’influenza delle più potenti famiglie delle province confinanti”. A Catanzaro permane la supremazia delle famiglie Costanzo e Catanzarini; nel corso di questi anni hanno acquisito crescenti margini di autonomia crescenti, ma non sono ancora del tutto svincolate dall’influenza dei Mancuso di Limbadi e dagli Arena di Isola di Capo Rizzuto. Nell’area dell’alto versante jonico catanzarese invece “le organizzazioni criminose operanti sono quattro: Sciumaci, Panne-Jazzolino (alleata ai Cannolo di Cutro); Carpino (alleata agli Arena); e Bubbo (alleata ai Coco-Trovato).
Nell’area di Lamezia Terme operano numerose cosche, tutte riconducibili ai due schieramenti storicamente dominanti: gli Iannazzo e i Torcasio-Cerra-Giampa; in quest’ultimo clan si è verificata una spaccatura interna: alcuni esponenti della famiglia Giampa di recente risulterebbero essersi avvicinati alle posizioni degli avversari, “creando i presupposti per una recrudescenza della contrapposizione fra le opposte fazioni”. Una situazione che gli investigatori così descrivono: È emerso che a Lamezia non vi è un’associazione centralizzata, bensì “più associazioni dedite ad attività illecite che vogliono conservare una loro autonomia operativa”. Ed è in questo contesto che gli investigatori della Dia collocano alcuni episodi criminali verificatisi nel primo semestre del 2003, come l’omicidio di Antonio Perri: un commerciante ucciso all’interno degli uffici del centro commerciale “Atlantico” di cui era titolare. Secondo la Dia Perri “era ritenuto vicino a tutte le famiglie del luogo, pur mantenendo una posizione di neutralità”. Un delitto che fa credere come “nel comprensorio lametino sono in lotta fra di loro schieramenti mafiosi dei Giampa-Iannazzo, ai quali si sarebbero affiancati elementi dei gruppi criminali dei Ponte-Cannizzaro, con l’appoggio della cosca Anello di Filadelfia (Cz) da una parte; dall’altra i Torcasio-Cerra, cui si sarebbero affiancati elementi della cosca Gualtieri, con l’appoggio di affiliati alle cosche Giorni e Pizzata di San Luca (Rc)”.
Ancora: estorsioni, racket e traffico di droga sono le principali attività criminali gestite dalla ’ndrangheta in provincia di Cosenza: “Dove a seguito di una lunga stagione di guerre, contornata da importanti operazioni di polizia giudiziaria che hanno permesso la condanna a lunghe pene detentive per associazione mafiosa per moltissimi affiliati, si è creata una forte instabilità tra le organizzazioni criminali presenti sul territorio”.
Le estorsioni e l’usura restano, insomma, le attività principali delle cosche criminali calabresi; utilizzate per affermare la propria autorevolezza, ed esercitare il controllo sul territorio. Nel mirino della criminalità, “esercenti di attività commerciali e imprenditori edili impegnati nella realizzazione di opere pubbliche”, reati, stima la Dia, che “sono molto più consistenti e radicati di quanto risulti dalle denunce presentate alle autorità preposte”. Lo si ricava, tra l’altro, “dall’ultimo numero di danneggiamenti e di incendi dolosi accertati, che costituiscono un fedele indicatore del fenomeno a fronte della generalizzata omertà e della scarsa collaborazione delle vittime, che ne rendono difficile il contrasto”.
Cosenza appare controllata dal gruppo Perna-Ruà, nel quale sono confluiti i superstiti delle famiglie Perna-Cicero-Prando, e Pino-Sena; un tempo i due clan erano ferocemente contrapposti; oggi appaiono riuniti sotto la direzione di due boss: Ettore Lanzino e Domenico Cicero.
All’interno di questo gruppo, sostengono gli investigatori, si sono create quelle che si possono definire vere e proprie “competenze”: un primo gruppo, capeggiato da Giulio Castiglia, si occupa di gestire il racket delle estorsioni; un secondo gruppo, guidato dai fratelli Carmine e Romano Chirillo, controlla invece il traffico delle sostanze stupefacenti. Una situazione solo apparentemente monolitica: presenta invece, si legge nella relazione della Dia “ampi margini di instabilità… La leadership del nuovo gruppo non è da tutti riconosciuta, e in particolare dai superstiti del gruppo Bruni, che potrebbero trovare un importante alleato nel gruppo di nomadi stanziali capeggiato da Francesco Bevilacqua”.
Diversa la situazione nei centri della fascia costiera tirrenica, caratterizzata da una maggiore e consistente stabilità, “nonostante la presenza sul territorio di numerose famiglie”. Le cosche emergenti, ad ogni modo, sono quelle di Francesco Muto e le “famiglie” alleate dei Polillo di Cetraro, e degli Stemmo-Valente di Scalea e Belvedere Marittimo, specializzate nel controllo delle attività connesse alla pesca e alla commercializzazione dei prodotti ittici nelle zone di Paola e di Scalea.
A Paola e a Fuscaldo, inoltre, sono presenti i Serpa-Martello-Scofano: gestiscono una diversificata tipologia di attività delittuose, vanno dallo spaccio di sostanze stupefacenti alle estorsioni e l’usura. Il centro di Amantea risulta controllato dalla famiglia Gentile (traffico di droga); i Femia sono insediati a Santa Maria del Cedro (tra l’altro, gestiscono il mercato del video-poker); a San Lucido si è consolidato il controllo dell’organizzazione di Michele Tundis, che “rappresenta una proiezione sul territorio del gruppo cittadino dei Perna-Cicero-Rua”.
Ma sono il litorale ionico e l’area dell’alto casentino a costituire, nella provincia, “l’area territoriale ove la ’ndrangheta vanta il più antico radicamento…In tali aree sono presenti tre poli di aggregazione criminale che, dopo anni di lotte anche intestine, hanno raggiunto una certa stabilità: le ‘ndrine di Rossano, Corigliano e di Cariati”.
A Rossano, spiegano gli investigatori, il controllo è assicurato dalla cosca Manzi-Mordò, con al vertice un triunvirato composto da Salvatore Morfò, Nicola Acri e Antonio Manzi; a Corigliano, il leader è Natale Perri, che sostituisce il capo storico dello schieramento, Santo Carelli, detenuto. La ‘ndrina di Cariati, infine, è “governata”, nonostante si trovi in carcere, dal capo storico Domenico Critelli. In piena osmosi con quest’ultimo gruppo, “opera il gruppo di zingari di Lauropoli, con a capo Francesco Abruzzese, che controlla la sibaritide. Situazione diversa, invece, a Cariati: “Dove approfittando della detenzione di Critelli, hanno esteso la propria influenza i Greco-Crescenti di Mandatoriccio”.
Oltre a queste tre organizzazioni, sono presenti sul territorio altre realtà criminali di notevole spessore: per esempio i Decio di Castrovillari e i Magliari di Altomonte.
Nella provincia di Reggio Calabria operano cosche “numerose, ben organizzate dal punto di vista strutturale, che vantano schieramenti dotati di grande potenza di fuoco”. Uno scenario criminale che unito a un tradizionale criminale risalente nel tempo ne hanno determinato l’affermazione in ambiti territoriali che vanno ben oltre i luoghi di origine…La ’ndrangheta reggina vanta proiezioni sulla quasi totalità del territorio nazionale, ma anche insediamenti organizzati in numerosi paesi esteri, con proiezioni extracontinentali, attraverso le quali gestisce in ambito internazionale proficui traffici di stupefacenti, importando enormi quantità di droga sia dal Sud America che attraverso le rotte balcaniche”. Gli interessi delle cosche mafiose del reggino è rivolto al traffico di sostanze stupefacenti, ma non solo: “Non trascurano il tradizionale controllo del racket delle estorsioni, che garantisce un sicuro presidio del territorio”. Gli investigatori, comparando i dati riferiti alla provincia di Reggio con quelli di altre province calabresi, rilevano “la pericolosità delle contiguità delle cosche al tessuto economico, in particolare in questo momento, in cui sono in fase di realizzazione importanti opere pubbliche”.
Rispetto alle altre famiglie mafiose della Calabria, in provincia di Reggio “permane la suddivisione territoriale articolata in mandamenti: uno cittadino e due provinciali (ionico e tirrenico), e gli equilibri fra le numerose famiglie sono ben definiti e connotati da grande stabilità”.
Per quanto riguarda Reggio Calabria, il rapporto della Dia conferma che la supremazia è detenuta dalla cosca De Stefano-Tegano; in passato ha condiviso potere e affari con il gruppo dei Condello-Rosmini, ma negli ultimi anni sta riprendendo il sopravvento sia a livello “amministrativo” che economico-militare. La strategia delle “famiglie” cittadine è sempre più orientata all’accaparramento di appalti e sub-appalti pubblici, attraverso prestanome; ma anche potendo contare su complicità con le varie amministrazioni locali, nelle quali vengono “infiltrati” personaggi vicini alle cosche; e si giustifica dunque pienamente la definizione di “comitato d’affari”.
Nella fascia tirrenica la stabilità del “sistema mafioso, anche in vista dei rilevanti interessi economici connessi all’area portuale di Gioia Tauro, è assicurata dai Piromalli-Molé… Le attività di transhipment e gli insediamenti di importanti iniziative imprenditoriali hanno attirato l’attenzione delle locali famiglie mafiose, che hanno visto nelle nuove realtà commerciali rilevanti opportunità per la realizzazione di affari illeciti e per affermare il predominio nell’area di influenza”.
Più tesa e fluida la situazione sul versante ionico: dove pur non essendo in corso guerre sanguinose, è comunque preoccupante lo stato di tensione esistente. Nella Locride si consuma da anni un’interminabile faida, che vede contrapposte due storiche famiglie, i Cordì e i Cataldo. Faida che i maggiori rappresentanti della ’ndrangheta reggina vedono con preoccupazione, “perché causa di attenzione delle istituzioni”. Per questo motivo sarebbe stata decretata una sorta di scomunica nei confronti dei protagonisti.
Una situazione, osservano gli analisti della Dia, che avrebbe “rallentato il processo evolutivo delle cosche della Locride, che sono rimaste ferme alle estorsioni e agli omicidi”; e tuttavia, ultimamente “si sono registrati segnali d’allarme, i quali anche se di intensità minore rispetto agli episodi delittuosi del recente passato, meritano il massimo rispetto investigativo”.
Una situazione, quella descritta nella relazione, che conferma “l’intenzione delle cosche reggine di mantenere bassi livelli di visibilità, al fine di non allarmare eccessivamente l’opinione pubblica e non costringere le autorità ad elevare la guardia verso il fenomeno mafioso”.
Preoccupante inoltre “l’aumento del trend legato agli attentati dinamitardi ed incendiari commessi nei confronti di esercenti commerciali e di pubblici amministratori locali”. Infatti, nel solo primo trimestre di quest’anno se ne sono registrati complessivamente 154: 112 a veicoli, 42 ad esercizi commerciali.
Nella provincia di Crotone, il gruppo criminale più “prestigioso” è quello degli Arena, anche se non mancano altri sodalizi della ’ndrangheta, definiti “tra i più organizzati e pericolosi”, con proiezioni nel Nord Italia e all’estero, e saldi rapporti con le cosche di Reggio Calabria: con le quali condividono soprattutto il traffico di droga.
Il campo d’azione delle cosche crotonesi è prevalentemente quello del litorale ionico, dove sono concentrati “i maggiori interessi economici”; al momento, tuttavia, si registra “una fase di ristrutturazione”. Gli Arena di Capo Rizzato, un tempo gruppo leader, non dominano più incontrastati, e devono “convivere” con altri gruppi, cosicché si sono determinate situazioni di contrapposizione latente. Gli Arena, infatti, appaiono indeboliti più di altre “famiglie” dai risultati delle inchieste giudiziarie. Si stanno così consolidando i clan dei Grande-Aracri e dei Farao-Marincola; nei centri provinciali, inoltre, sono presenti piccoli ma agguerriti gruppi, che “a livello locale mantengono il controllo del territorio anche grazie alla legittimazione che deriva loro dall’essere più o meno vicini a gruppi maggiori”.
La mappa redatta dalla Dia colloca i Campa-Vrenna a Crotone; gli Anania-Cariati a Cirò Marina, gli Iona a Rocca di Neto; i Cannolo a Cutro; a Strangoli i Giglio-Levato. Un semestre “caratterizzato da fatti di sangue causati da regolamenti di conti fra opposte fazioni per il controllo in regime di monopolio di specifiche attività criminali”.
A questo proposito la Dia richiama in particolare l’attenzione sull’omicidio di Pasquale Gualtieri e Maurizio Nicosia, avvenuto l’8 febbraio scorso a Isola di Capo Rizzuto. Entrambi affiliati alla cosca di Pasquale Nicosia, i due, secondo gli investigatori, sarebbero stati uccisi nell’ambito del conflitto sorto tra i Nicosia e gli Arena per il controllo della gestione delle attività illecite nella zona
Sul piano statistico, si osserva nella relazione, “l’ultimo omicidio avvenuto in tale area, risale al 16 febbraio 2002, quando è stato assassinato Vincenzo Scerbo, legato da vincoli di parentela alla cosca degli Arena”.
Vibo Valentia, infine: la cosca dominante è quella dei Mancuso, che opera anche a livello internazionale. Nonostante gli investigatori abbiano inferto un duro colpo al clan, con l’operazione Dinasty, che ha portato in carcere una cinquantina di affiliati, i Mancuso sono ancora in grado di esercitare quello che viene definito “un dominio incontrastato sul territorio. Molti esponenti di rilievo del gruppo sono in carcere, e questo avrebbe determinato una spaccatura in seno alla cosca, di cui tentano di profittare alcuni clan “minori”.
La Dia infine, segnala con preoccupazione i pesanti condizionamenti subiti dalle attività amministrative degli enti locali; gli atti di intimidazione, “perpetrati in danno di alcuni amministratori ed imprese edili”. Una recrudescenza che ha recentemente indotto la Commissione parlamentare antimafia a recarsi a Vibo Valentia per effettuare alcune audizioni specifiche. Dalle quali si è ricavato “un dato oggettivo: che la provincia vibonese è governata, sotto l’aspetto criminale,, da uno dei più potenti clan calabrese, e per questo motivo è stato richiesto un intervento più incisivo ed adeguato da parte dello Stato per contrastare le azioni criminosi del clan Mancuso”. La provincia di Vibo Valentia, come le altre province calabresi, “è colpita dal fenomeno delle estorsioni e dell’usura, di esclusivo appannaggio della criminalità di tipo mafioso; conseguenza di questa stabilità nel controllo del territorio è una situazione dell’ordine e sicurezza pubblica apparentemente non allarmante, con un numero relativamente basso di gravi eventi delittuosi”.
I fatti, la situazione, dunque sono noti. Chi li ignora è perché ha deciso di farlo. E motivi molto “concreti” alla base di questa decisione, ci saranno. O no?
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