Emilio Alessandrini era il magistrato che aveva individuato la pista dei servizi deviati nella strage di piazza Fontana. Venticinque anni or sono fu ucciso dai terroristi “rossi” di Prima Linea, quando stava indagando sul Banco Ambrosiano
Venticinque anni or sono: la mattina del 29 gennaio 1979, a Milano, il magistrato Emilio Alessandrini veniva assassinato da due terroristi di Prima Linea, Marco Donat Cattin e Sergio Segio.
Sono gli “anni di piombo”. E, periodicamente, delle stragi. Il terrorismo, di “destra” e di “sinistra”, è l’elemento portante di una strategia della tensione che ha risvolti politici ed economici profondi ed occulti. Piazza Fontana, piazza della Loggia, l’Italicus, Peteano, le uccisioni di magistrati, poliziotti, carabinieri, e l’ultimo delitto eclatante, l’assassinio di Aldo Moro, sono fino a quel momento gli episodi maggiori, o i più visibili, di una guerra allo Stato (la Notte della Repubblica, la chiamerà Sergio Zavoli in una esemplare ricostruzione televisiva) nella quale il nemico della democrazia indossa di volta in volta maschere diverse. E muove burattini dai colori apparentemente opposti, “rossi” e “neri”: figure di poco o nullo spessore, sovente inconsapevoli dei fili che li guidano, disposti a uccidere, e a essere uccisi, o, i più astuti e prudenti, a tacere su quello che sanno o intuiscono, per salvare la faccia, e soprattutto la pelle.
Emilio Alessandrini era arrivato alla Procura di Milano nel 1969, a 26 anni, dopo un brillante corso di studi giuridici all’Università di Napoli, e aveva condotto le prime indagini sulle Sam (Squadre d’Azione Mussolini), formazioni del terrorismo di marca neofascista antesignane dei Nar, Ordine Nero, La Fenice, e similari. Il giovane sostituto procuratore aveva impostato un’istruttoria che puntava sui mandanti dei neosquadristi, e sarà questa sempre la sua linea: cercare in alto, scovare chi sta dietro agli esecutori. Nel 1972, insieme al collega Luigi Fiasconaro, gli viene affidata l’istruttoria per la strage di piazza Fontana (12 dicembre 1969). In due anni, Alessandrini e Fiasconaro giunsero a individuare le responsabilità e le connivenze dei vertici dei servizi segreti, scoperchiando una pentola che avrebbe in seguito rivelato una intrico di complotti eversivi e di complicità a vari livelli, politici e finanziari. Nel 1974 una pronuncia della Cassazione aveva sottratto l’istruttoria ai due pm, e Alessandrini si era interessato prevalentemente di reati finanziari. Un campo vasto e complesso, nel quale si muovevano poteri e potenti di vario genere, che Emilio Alessandrini esplorava con notevole capacità di analisi: un magistrato intelligente, di un’integrità assoluta, rigorosamente fedele all’etica della democrazia (all’epoca non era stato ancora coniato il termine “toga rossa”). Un servitore dello Stato inflessibile nella sua dedizione al dovere. E perciò, per qualcuno, molto scomodo.
Il 16 marzo 1978, in via Fani, dopo il massacro della sua scorta, era stato rapito Aldo Moro. Pochi giorni dopo, il settimanale Oggi pubblicava un articolo secondo il quale Paolo Baffi, governatore della Banca d’Italia dall’estate del 1975, era tra i prossimi bersagli delle Br. Baffi, nell’estate del 1977, aveva disposto un’ispezione all’Italcasse (Istituto di credito delle Casse di risparmio italiane), che permetterà di scoprire ingenti illeciti finanziamenti a imprenditori e politici democristiani. Subito dopo la sua nomina, il governatore, con il vicedirettore e responsabile della Vigilanza, Mario Sarcinelli, aveva resistito ai vari tentativi di spingere la Banca centrale a sostenere finanziariamente Michele Sindona (nel dicembre 1973 definito pubblicamente da Giulio Andreotti “benefattore della lira”), legato ad ambienti massonici e mafiosi, dal 1974 in piena bancarotta, in Italia e negli Stati Uniti. E nell’aprile 1978 la Banca d’Italia inviava undici ispettori del servizio di Vigilanza al Banco Ambrosiano, di cui era presidente dal 1975 Roberto Calvi.
Il Banco Ambrosiano era strettamente collegato allo Ior (Istituto delle Opere di Religione), la cassa del Vaticano, allora diretta dal vescovo americano Paul Marcinkus, alla Loggia P2 di Licio Gelli (della quale fa parte anche Sindona, amico e mentore di Calvi), e ramifica la sua attività finanziaria in una serie di banche e società collocate in vari paradisi fiscali e paesi latinoamericani. L’ispezione era durata sette mesi, concludendosi il 17 novembre 1978. Nella relazione finale, gli ispettori rilevavano “accorgimenti volti ad eludere i controlli dell’organo di Vigilanza”, e sottolineavano lacune, abusi, anomalie, oltre a irregolari favoritismi finanziari a società appartenenti a Michele Sindona, Umberto Ortolani, Angelo Rizzoli, e altri imprenditori e affaristi i cui nomi, tre anni dopo, appariranno negli elenchi degli iscritti alla Loggia P2. “In sostanza - affermava la relazione - l’amministrazione del Banco è imperniata sul presidente e consigliere delegato signor Roberto Calvi… Dal sopralluogo è emerso che tutti indistintamente i fidi dai 10 ai 18 miliardi vengono fatti rientrare nei casi urgenti e come tali posti in essere su autorizzazione del presidente… Il Banco ha consolidato una rete finanziaria che gli consente di gestire notevoli flussi di fondi, al riparo dei controlli delle autorità valutarie italiane”. Gli ispettori segnalavano le “difficoltà che il Banco potrebbe incontrare nello smobilizzo dei finanziamenti e dei depositi all’estero” determinate dalle attività fuori d’Italia, sulle quali dall’Ambrosiano non vengono fornite indicazioni. In realtà come sarà evidente tre anni più tardi, la situazione dell’Ambrosiano era molto più irregolare - o, meglio, illegale - di quanto quella prima ispezione avesse potuto appurare: il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi era una scatola vuota, un meccanismo servito a finanziamenti illeciti, a operazioni illegali, a riciclaggi, a manovre politiche ed economiche in varie direzioni, il tutto sotto la direzione non del solo Roberto Calvi (che alla fine ne sarà la vittima sacrificale), e reso possibile da supporti, connivenze, aperte complicità a larghissimo raggio. Se il Burattinaio si chiamava Licio Gelli, il Venerabile della Loggia P2 aveva potuto assumere e mantenere il suo ruolo grazie a una rete di interessi che lo sosteneva, e lo rende ancora oggi pressoché intangibile.
Comunque, la relazione della Banca d’Italia era più che sufficiente a inquietare la “banda dell’Ambrosiano” (da intendere in senso lato), la stessa che appoggiava e difendeva Michele Sindona, anche se in soccorso del Banco si mossero subito con cospicui prestiti gli allora dirigenti (piduisti) di enti pubblici e di istituti di credito. Il 23 dicembre 1978 la relazione veniva trasmessa alla Procura di Milano, e affidata a Emilio Alessandrini. Per chi aveva molto da nascondere, nel sommerso del mondo finanziario e politico, il nome del magistrato era un segnale di pericolo gravissimo. E la Loggia P2 era attiva, e ben posizionata, in tutti i settori che contano: dall’imprenditoria alla finanza, dai vertici governativi a quelli militari, in primis i servizi segreti, ufficiali e ufficiosi.
“A distanza di un anno il delitto conserva comunque una buona dose di inesplicabilità: data l’enorme popolarità del giudice, i terroristi dovevano necessariamente avere ben presente il rischio che l’assassinio si sarebbe potuto trasformare, come poi è avvenuto, in un boomerang: se hanno ugualmente deciso di agire, evidentemente i motivi dovevano essere molto gravi e pressanti”: così scriveva, nel febbraio 1980, su Nuova Polizia e Riforma dello Stato (la rivista allora diretta da Franco Fedeli), il professor Giuseppe De Lutiis, uno dei più attenti studiosi dell’eversione politica, consulente di varie commissioni parlamentari.
Quel 29 gennaio 1979, a uccidere Emilio Alessandrini fu un commando di Prima Linea: un omicidio non difficile, il magistrato aveva appena accompagnato il figlio Marco a scuola, era in macchina fermo a un semaforo, non aveva scorta. A sparare, otto colpi di pistola, due alla testa, furono Sergio Segio e Marco Donat Cattin, figlio di Carlo Donat Cattin, esponente della destra democristiana (il suo segretario Ilio Giasolli figurerà negli elenchi della Loggia P2). Ma che cos’era Prima Linea? Qualcuno li ha definiti “una banda di cretini”, e nella definizione vi è certamente del vero, ma non basta. Quei “cretini” uccidevano, anzi non facevano altro. Sotto questo aspetto apparivano quasi un doppione delle Br, ma a differenza dei brigatisti non avevano una struttura criminale relativamente organizzata. I killer di Prima Linea vivevano e agivano in una clandestinità molto relativa, e nei loro ambienti si sapeva bene chi erano e che cosa facevano. Marco Donat Cattin arriverà a telefonare una rivendicazione dall’apparecchio di casa del padre.
Subito dopo l’omicidio Alessandrini, la Procura di Milano disponeva un’operazione Polizia-Carabinieri indirizzata a individuare i centri terroristi della metropoli lombarda, e in questo contesto veniva messo sotto controllo il telefono di Piero Del Giudice, intestato alla moglie, frequentatore degli ambienti dell’estrema sinistra (indicato dal Viminale fra i primi elementi sospetti per il sequestro di Aldo Moro). Saranno i carabinieri a intercettare una telefonata nella quale il colonnello Rocco Mazzei informava la consorte di Del Giudice dei particolari dell’operazione. Il colonnello Mazzei, del comando della Legione dei Cc di Milano, veniva messo sotto inchiesta disciplinare: l’ufficiale preferirà dimettersi dall’Arma, ed entrare alle dipendenze del Banco Ambrosiano. Il nome di Rocco Mazzei figurerà negli elenchi della Loggia P2.
Resta, dopo venticinque anni, la domanda: perché i killer di Prima Linea, un gruppo che si ammantava di una pseudo ideologia di estrema sinistra, uccisero proprio il magistrato che aveva individuato la linea stragista - “neri” + servizi deviati - per la bomba di piazza Fontana?
Nel gennaio 1979, Emilio Alessandrini stava conducendo due inchieste, entrambe in fase iniziale, delle quali avrebbero dovuto essere informate solo poche persone, collocate in posizioni nevralgiche: quella sull’Ambrosiano, e un’altra riguardante l’Autonomia milanese, condotta insieme al giudice istruttore Pietro Calogero, e sfociata più tardi negli arresti di Toni Negri e altri “cattivi maestri” aspiranti al ruolo di mosche cocchiere del terrorismo brigatista.
Scriveva, nel suo articolo del 1980, Giuseppe De Lutiis: “È possibile - e forse probabile - che essi (i killer, n.d.r.) abbiano saputo che il magistrato stava coordinando una ricerca sulla violenza armata come forza dell’azione politica, e probabilmente erano stati informati anche della sua partecipazione ai due vertici che si erano svolti nelle settimane precedenti a Cadenabbia e Bologna. Avevano saputo qualcosa di più preciso? E da chi?”.
Già, da chi? De Lutiis, che scrive prima dello scandalo della Loggia P2, con i suoi clamorosi annessi e connessi, e prima del crack dell’Ambrosiano, si riferisce all’inchiesta sull’Autonomia. Ma aggiunge: “Non ci sembra casuale che un ignoto terrorista intervistato da Panorama nell’ottobre ’79 abbia dichiarato che il giudice ‘per una ragione precisa e specifica rappresentava un pericolo immediato: c’era qualcosa di cui Alessandrini era a conoscenza, o qualcosa che stava per scoprire’… Con ogni propabilità, insomma, Alessandrini si apprestava a compiere un secondo lungo viaggio attraverso le sentine del potere, un viaggio che forse si sarebbe dimostrato ancora più sconvolgente di quello che tra il 1972 e il 1974 lo portò, insieme a Fiasconaro alla soglia del massimo vertice militare dello Stato”. E anche De Lutiis sottolineava che “nei giorni immediatamente precedenti al suo assassinio il giudice stava esaminando la vicenda dell’Ambrosiano, la banca milanese legata a Sindona e ad alcune potenti lobbies finanziarie e politiche, e pare che stesse preparando i primi avvisi di reato”.
La condanna a morte di Alessandrini fu decisa da chi era in grado di essere informato rapidamente sull’attività del magistrato. Un’organizzazione che poteva attingere vari settori, pubblici e privati, e per vie traverse sollecitare l’intervento di elementi criminali, “politicizzati” o meno. Qualche mese dopo l’omicidio Alessandrini, l’11 luglio 1979, l’avvocato Giorgio Ambrosoli, nominato dalla magistratura milanese liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona, sarà abbattuto da un killer mafioso. Per Alessandrini qualcuno, forse, ha “suggerito” a dei killer, “cretini” ma volenterosi, l’urgenza di eliminare un magistrato che stava indagando sul retroterra del terrorismo “rosso”. Quando sono in gioco forti interessi, una tattica sperimentata consiglia di confondere le acque, di lanciare il sasso e nascondere la mano. Una tattica che emerge lungo tutta la strategia della tensione
Beninteso si tratta di ipotesi, basate però su dati di fatto e riscontri precisi, che dovrebbero trovare delle risposte. Altrimenti la morte di Emilio Alessandrini, come altre, resterà un enigma legato al ricordo, e al rimpianto.
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