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febbraio/2004 - Interviste
Crimininalità finanziaria
Un latte a lunga contraffazione
di Paolo Andruccioli

Analisi dei reati ricorrenti nelle recenti crisi industriali. Parmalat e Cirio in Italia Enron e tanti altri casi negli Usa ma anche in Europa. Falso in bilancio, truffa e persino associazione per delinquere, oltre che false comunicazioni sociali e riciclaggio di denaro sporco. Obbligazioni spazzatura e truffe nei confronti dei risparmiatori. Le patologie sono diventate la normalità dell’economia

Lo scandalo Parmalat è scoppiato all’improvviso. Un fulmine in un cielo quasi sereno, che era già stato solcato però da qualche nube scura come quella della Cirio. In ogni caso, alla fine del 2003 erano in pochi coloro che avevano capito la situazione e tra l’opinione pubblica e i risparmiatori non esisteva (forse) la percezione del pericolo, nonostante vari segnali che si erano manifestati durante tutto l’anno, a partire dal febbraio 2003. Il gruppo alimentare più famoso in Italia e più globalizzato aveva fatto registrare qualche problema di finanziamento e di riorganizzazione della sua vastissima rete internazionale, ma non temeva ancora concorrenti ed era in grado di chiedere e ottenere fiducia con tranquillità ai mercati finanziari. In fondo, negli ultimi quattro anni aveva raddoppiato il suo fatturato grazie a una serie spericolata e ininterrotta di acquisizioni. I più esperti avevano però cominciato a sospettare qualcosa per lo sbilanciamento finanziario, visto che il gruppo di Collecchio aveva prodotto una emissione di circa 7 miliardi di euro in bond, ovvero in obbligazioni.
Troppi prestiti chiesti ai mercati e ai risparmiatori, bond che rischiavano di non essere coperti da un’adeguata solvibilità e liquidità. Così già a novembre del 2003 si comincia a parlare della necessità per il gruppo di Calisto Tanzi di operare una prima cura dimagrante. Le banche propongono di tagliare i rami secchi per recuperare denaro fresco. Si proponeva di intervenire, ma nessuno poteva immaginare cosa stava per accadere.
Nel 2002 il gruppo aveva chiuso il bilancio con un fatturato di 7.590 milioni di euro, ma con una emissione di bond che aveva già raggiunto la quota di 5,9 miliardi di euro. L’azienda del latte aveva fatto passi da gigante da quel lontano 1961, anno in cui Calisto Tanzi, ventiduenne, aveva ereditato dal padre Melchiorre la società di famiglia che produceva salumi e conserve. Per la precisione storica è nel 1962 che nasce Parmalat, con una piccola fabbrica di pastorizzazione del latte e un negozio a Collecchio. Tanzi sarà anche il primo in Italia a vendere il latte nelle confezioni di tetrapak. Prima di lui c’era stata solo la bottiglia di vetro. Quarant’anni di storia di un’azienda che è diventata appunto mondiale con 36mila dipendenti e filiali, controllate, holding praticamente in tutto il mondo, dagli Usa all’America Latina, dall’Europa alle Isole Cayman e perfino in Cina. Il gruppo di Collecchio in tutti questi anni era diventato qualcosa di molto diverso dai suoi esordi che oggi ci appaiono quasi preindustriali. L’azienda del padre di Tanzi era figlia del dopoguerra di un’Italia ancora agricola e poco sviluppata dal punto di vista industriale. Con Calisto, Parmalat rappresenta il passaggio all’Italia industriale attraverso il boom economico degli anni Sessanta. E poi rappresenta oggi il passaggio a un’altra epoca che i sociologi hanno battezzato “postindustriale” perché i servizi del terziario superano in consistenza la manifattura industriale. Con Parmalat possiamo rileggere dunque una parabola dell’Italia produttiva: dal boom industriale alla crisi dell’industria, dalla manifattura alla cosiddetta finanziarizzazione dell’economia.
Con questo articolo noi non abbiamo però la pretesa di ricostruire tutta l’evoluzione di un grande gruppo industriale italiano, né tantomeno di descrivere le novità strutturali della nostra epoca attraverso il passaggio del gruppo di Collecchio dal latte ai derivati dell’altra finanza. Abbiamo invece provato a ricostruire le accuse principali che vengono mosse dai magistrati al patron e ai più alti dirigenti Parmalat, nonché ai funzionari delle banche che sono state coinvolte nel bene e nel male nel giro dei finanziamenti e ai responsabili delle società di certificazione e di revisione che sono accusate di non aver visto o di non aver voluto vedere quello che succedeva realmente dietro i bilanci della multinazionale di Parma. Il nostro tentativo è dunque una ricostruzione del caso Parmalat e in parte di altri scandali che lo hanno preceduto, da Cirio ai bond argentini, passando ovviamente per il crollo di Enron, per cercare di capire fino a che punto le crisi industriali si possano trasformare in casi di criminalità economica. Fino a che punto insomma, nell’epoca in cui trionfa la finanza, l’attività imprenditoriale è messa a rischio di reato. La domanda è perfino banale: perché gruppi apparentemente in ottima salute come Enron e Parmalat hanno avuto tracolli così rovinosi? Fino a che punto hanno contato, in questi e in altri casi, meccanismi criminali che potrebbero ripetersi in nuovi episodi e coinvolgere altre realtà importanti.

Segnali inquietanti
Il 6 dicembre del 2003 il pool di magistrati della Procura di Roma ha iscritto nel registro degli indagati il presidente di Capitalia, la banca nata dalla fusione con Banca di Roma di altri importanti istituti di credito come Bipop Carire, e altri quattro funzionari. I reati ipotizzati per il presidente Cesare Geronzi e per i suoi collaboratori sono “concorso in bancarotta fraudolenta preferenziale e truffa”, gli stessi reati per i quali è stato indagato Sergio Cragnotti, ex patron della Cirio e della Lazio. Il coinvolgimento della banca romana è tutto da dimostrare, ma è singolare che nell’epoca della finanza globale rispunti un reato sancito dall’articolo 216 del regio decreto 16/03/42 della legge fallimentare.
In sostanza i dirigenti di Capitalia sono stati accusati di aver favorito uno o più creditori del fallito non rispettando la par condicio creditorum. Secondo la legge fallimentare, la banche possono essere incolpate di concorrere alla distrazione o all’occultamento delle risorse finanziarie, ma la cosa che più ha destato preoccupazione è stata l’altra accusa dei pm romani: truffa nel collocamento dei cosiddetti Cirio-Bond. Sul Sole 24 ore del 6 dicembre del 2003, è stata anche pubblicata una parte del decreto di perquisizione per la Guardia di Finanza in cui si può leggere il riferimento al “conseguimento di un profitto ingiusto con frode costituito nel collocare sul mercato interno titoli obbligazionari, titoli emessi sul mercato estero (Lussemburgo)” e destinati spesso a investitori istituzionali in violazione delle normative.
Con quella indagine, che anticipò di qualche mese il caso Parmalat, è emerso dunque uno dei problemi che poi sono stati più al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica nazionale e internazionale: il cattivo o poco trasparente meccanismo che sta alla base del mercato obbligazionario. Le banche sono state accusate (spesso anche ingiustamente, come poi hanno dimostrato le inchieste) di aver sfruttato le informazioni in loro possesso per vendere ai piccoli risparmiatori e in qualche caso anche agli investitori istituzionali, obbligazioni a rischio. L’accusa delle associazioni dei consumatori e in particolare di quelle nate proprio in questi mesi per difendere i piccoli risparmiatori riguarda lo scaricamento del rischio: siccome le banche erano le uniche che conoscevano tutti i particolari delle crisi industriali e finanziarie tipo Cirio e poi Parmalat avrebbero sfruttato la loro posizione di potere per vendere a terzi obbligazioni di incerta copertura, o meglio di bond a rischio default, che è il termine inglese per descrivere il crack finanziario di una società che non riesce più a rimborsare con le proprie risorse i soldi chiesti in prestito ai risparmiatori e agli investitori attraverso appunto le obbligazioni. Si tratta di un’accusa grave sia dal punto di vista strettamente penale, sia dal punto di vista economico e psicologico. Le accuse di reato dovranno infatti essere dimostrate e noi vogliamo essere anche in questo caso garantisti. Non possiamo cioè condannare nessuno prima delle sentenze della magistratura. Possiamo però mettere l’accento sugli aspetti economici e psicologici (e perfino morali) della faccenda. Le banche hanno infatti subito dei colpi durissimi con queste accuse perché il rapporto tra credito e clienti si basa proprio sulla fiducia. Si insinua la cultura del sospetto e non è un caso che i giornali e i settimanali hanno avviato una vera e propria campagna stampa contro tutte le banche, contro il sistema nel suo complesso. Solo qualche titolo: “Ma tu ti fidi delle banche?” (Panorama, 15/1/2004); “Boom, crack, da Cirio a Parmalat tutte le trappole e i bidoni che mettono a rischio i risparmi”, Panorama, 18/12/2003); “Crack e tangenti, da Italgrani a Cirio, da Bipop a Parmalat, le trame i segreti, la corruzione” (L’Espresso 5/2/2004.
L’attenzione si è rivolta quindi prevalentemente sulle banche e poi sul sistema dei controlli e della vigilanza sui mercati finanziari. Nell’agone politico i disastri finanziari si sono trasformati in uno scontro di poteri e di rimpallo di responsabilità. In particolare l’anno è cominciato con un duro attacco del Ministro dell’economia Giulio Tremonti al Governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio. Secondo il Ministro, casi come quello della Cirio e di Parmalat sono potuti accadere perché la Banca d’Italia non ha vigilato adeguatamente. Altri hanno invece attaccato la Consob, la commissione di vigilanza sulla Borsa; altri ancora hanno invece ribaltato le accuse sullo stesso ministero dell’Economia. Come non poteva sapere il Ministro? Alla fine si è deciso di istituire una Commissione bicamerale (di Camera e Senato) di indagine sul rapporto tra imprese e sistema del credito e del risparmio. L’obiettivo principale di tutti i politici, Tremonti in testa, è ora quello di tutelare i risparmiatori. Una posizione per alcuni di coscienza (come si fa a truffare le signore anziane che investono?), per molti una posizione politica utile a produrre un qualche voto in più in vista delle prossime scadenze elettorali.
I lavori della Commissione di indagine parlamentare erano ancora in corso quando noi siamo andati in stampa con questo numero della rivista, perciò non siamo in grado di anticiparne le conclusioni. Nel frattempo si era però scatenata la “guerra” sul progetto di riforma del ministro Tremonti, il cui unico obiettivo era quello di ridurre i poteri del Governatore Fazio. In questo contesto non ci interessa però entrare nel merito delle questioni della vigilanza e del controllo. Ci interessa invece; visto l’obiettivo che ci siamo prefissi (individuare la tipologia dei reati finanziari che sono stati commessi), proporre una riflessione su come sono state indirizzate le cose. Nei casi Cirio e Parmalat in particolare ci sono stati vari soggetti in campo: per utilizzare la metafora della vigilanza possiamo dire che ci sono stati dei “ladri”, dei “derubati” e dei “poliziotti” messi sotto accusa perché non avrebbero vigilato adeguatamente; la bizzarria di tutta questa vicenda - ha spiegato Giorgio Benvenuto; membro della Commissione parlamentare di indagine - è che sono stati messi sotto accusa soprattutto i “poliziotti” (ovvero la Banca d’Italia e la Consob), ma sono stati lasciati in pace i “ladri”, ovvero chi ha commesso i reati che poi hanno danneggiato migliaia di risparmiatori. Mentre i magistrati indagavano sulle reali responsabilità delle aziende, il dibattito pubblico è stato indirizzato verso altri obiettivi: il controllo, le norme inadeguate e via dicendo.

La radice delle truffe
Tutti hanno attaccato i “vigilanti”, tutti (o quasi tutti) si sono stracciate le vesti per il risparmio tradito che in effetti è un problema molto serio. Come mai però non si è quasi parlato dei reati all’origine di tutte queste storie? Negli Usa lo scandalo Enron ha messo sotto i riflettori i principali responsabili del tracollo, ovvero i top manager e i revisori dei conti che hanno permesso i reati. Con lo scandalo Enron e Worldcom sono state inasprite le pene e le normative sul falso in bilancio, i trucchi contabili; i raggiri finanziari. L’opinione pubblica statunitense si è giustamente concentrata sul cuore del problema, ovvero sui meccanismi che hanno portato a un “buco” di bilancio di 1,2 miliardi di dollari e sull’ammissione da parte dei dirigenti della Enron di aver gonfiato i conti; si è anche scoperto poi che gli stessi dirigenti hanno incassato 1,1 miliardi di dollari vendendo azioni del gruppo prima che crollassero.
In Italia, invece, si è perso molto tempo a parlare dei meccanismi insufficienti che hanno permesso i reati. Ma i reati? Chi li ha spiegati e chi ha cercato di decifrarne l’origine?
Pochi giorni prima del Natale 2003 i giornali italiani hanno pubblicato la notizia dell’annuncio della Bank of America; secondo la banca americana il gruppo alimentare Parmalat non ha mai avuto nessun conto presso i suoi sportelli alle isole Cayman. I documenti contabili Parmalat da cui risultava una disponibilità di oltre 4 miliardi di dollari erano dunque completamente falsi. In proposito, l’ex procuratore Gerardo D’Ambrosio, intervistato da l’Unità del 21 dicembre, ha spiegato che il crack Parmalat ha molte analogie con il crack Sindona e la fine del banco Ambrosiano. Alle origini di quelle storie, ha ricordato D’Ambrosio, c’erano le patologie dell’economia italiana e l’assenza di controlli e deterrenti, ora definitivamente azzerati con la depenalizzazione del falso in bilancio.
Il punto vero di tutti questi recenti scandali finanziari sta - secondo D’Ambrosio che se ne intende - nella mancanza di trasparenza nei bilanci e nel passaggio da una millantata solidità finanziaria alla scoperta di irrimediabili condizioni di insolvenza. Eppure la depenalizzazione del falso in bilancio è stata approvata in Italia proprio quando negli Usa esplodeva il caso Enron; “negli Usa - spiega ancora D’Ambrosio - ci sono ora più controlli che in Italia e addirittura per gli amministratori che alterano i bilanci si prospettano pene paragonabili a quelle comminate per un omicidio”. Le nuove norme italiane non permettono invece neppure una tutela minima dei risparmiatori. Se stanno davvero così le cose, che cosa è stata dunque la polemica sul risparmio tradito? Non ricordare l’origine dei mali e ripartire sempre dalla coda dei problemi può indicare solo due cose: o ignoranza delle questioni o una raffinata forma di ipocrisia politica. Scegliete voi la risposta corretta.

La fabbrica delle carte false
“Una multinazionale? Era la fabbrica delle carte false”. Così titolava il Corriere della Sera un articolo del 22 dicembre firmato da Vittorio Malagutti. Nell’inchiesta su Parmalat, spiegava l’autore, sono emerse montagne di carte false. Erano falsi i contratti di licenza e perfino le cambiali; così il “buco” accertato ha raggiunto i 10 miliardi di euro. I dirigenti di Parmalat (che si sono difesi scaricando tutte le responsabilità sul capo Tanzi), hanno lavorato per anni in bilico tra economia legale e illegale. Secondo i resoconti giornalistici, sarebbero stati falsificati anche i contratti di licenza per il marchio Santal concesso ad aziende come la Boston holding; erano false anche le “promissory notes”, le cambiali intestate a grande aziende internazionali. Il falso più falso ha riguardato naturalmente il fondo Epicurum, delle isole Cayman, che ha fatto da detonatore a tutto lo scandalo. Quel fondo non era falso. Esisteva veramente, solo che Parmalat non ci aveva investito soldi, ma titoli (falsi); per questo era difficile per Epicurum restituire al mittente quell’investimento. Si sono delineati così i contorni di una gigantesca frode.
Nelle isole Cayman, uno dei paradisi fiscali più famosi nel mondo, aveva la sua sede anche la Bonlat, cassaforte off shore di Parmalat. L’unico scopo di tutte queste scatole cinesi e questi incastri internazionali del gruppo di Collecchio era dunque quello di mascherare le perdite enormi di gestione del gruppo. Tutte le aziende del gruppo di Calisto Tanzi sembra che viaggiavano nel mondo in perdita cronica. Come è stata possibile una situazione del genere? Alcuni hanno tentato di difendere Tanzi dalle accuse. Il suo amico di infanzia; il Ministro delle infrastrutture Lunardi, appena uscite le prime notizie di accusa, ha dichiarato che Tanzi sarebbe uscito pulito da tutta questa storia. Per Lunardi, come per qualche altro amico, non era possibile accettare una evidenza così tremenda; altri hanno perfino sospettato che ci fosse stata un’operazione contro il gruppo di Collecchio, motivata magari per invidia industriale o per giochi di potere politico. Le inchieste giudiziarie hanno però scoperchiato a poco a poco una pentola di reati. La frode Parmalat durava a quanto pare da molti anni, anche se solo nell’ottobre del 2003 i revisori hanno pubblicamente formulato i primi dubbi. Tre giorni prima di Natale il “buco” Parmalat era salito a 14 mila miliardi di vecchie lire.

Chi ha speculato?
La cosa forse più odiosa di tutta questa faccenda è che ci sono state delle persone e dei gruppi di potere che hanno approfittato della crisi. Mentre un grande gruppo industriale come Parmalat rischiava il tracollo generale (e c’è chi si augura una sua totale cancellazione e liquidazione), ci sono state persone che si sono arricchite e altre che hanno goduto degli effetti della crisi. Vogliamo attirare la vostra attenzione solo su una piccola notizia che è passata quasi inosservata nel dicembre scorso, cancellata da tutto il polverone che si è alzato intorno all’azienda di Collecchio. Un attendibile quotidiano nazionale ha infatti scritto che dal 9 dicembre al 19 dicembre del 2003 il titolo Parmalat quotato in Borsa e i bond quotati in Lussemburgo fecero segnare alcuni ribassi e rialzi eccezionali. Che cosa vuol dire questo? Semplice che ci sono state centinaia di piccoli risparmiatori che sono stati pesantemente danneggiati da Parmalat, ma ci sono stati anche pochi grossi speculatori che si sono ulteriormente arricchiti ai danni di tutta la collettività. In termine tecnico questa si chiama speculazione. E non è neppure un reato.
Ma uno dei punti su cui meno si è riflettuto dopo il caso Parmalat e quelli che lo hanno preceduto riguarda però la natura stessa del capitalismo industriale nell’epoca della finanza globale. Dietro queste parolone si nasconde una realtà molto semplice: le imprese, per competere, devono assumere oggi una dimensione internazionale, avvalersi della rete globale del commercio e degli scambi dei prodotti base per l’industria e se possibile condurre la gara del costo del lavoro. Per questo le aziende sono spinte ad aprire attività all’estero riducendo sempre di più la loro presenza nelle nazioni di origine. Perfino la Levi’s, forse la più famosa azienda di jeans del mondo, ha chiuso di recente l’ultimo stabilimento negli Usa (dove è nata per opera di un industriale tedesco emigrato negli States). Ora la produzione della Levi’s si svolge tutta all’estero per sfruttare il più basso costo del lavoro. Anche la Parmalat ha tentato la strada della delocalizzazione, ma i suoi dirigenti si sono fatti tentare da uno dei reati ormai ricorrenti: il falso in bilancio. Non è però un atteggiamento esclusivo dell’azienda di Collecchio, dato che un osservatore attento come Turani ha potuto scrivere su “Affari e finanza” di Repubblica del 26 gennaio 2004 che “una volta gli imprenditori, con l’aiuto dei loro commercialisti, passavano la notte a falsificare i propri bilanci al fine di nascondere gli utili al fisco per pagare meno tasse. Adesso il mondo è capovolto. Gli stessi imprenditori passano notti insonni, sempre con i loro commercialisti, a falsificare i bilanci al fine di nascondere le perdite dovute alla cattiva gestione”.
Se abbiamo ben interpretato questa affermazione apparentemente molto pesante del giornalista economico, possiamo dire che uno dei temi ricorrenti delle crisi industriali più recenti è quello che riguarda l’incapacità di competere senza utilizzare altri strumenti legali e non legali, che sono però fuori gara. Si potrebbe leggere la recente storia del capitalismo come una immensa gara sportiva truccata. I protagonisti usano cioè il doping. Non tutti ovviamente, ma il rischio che i casi come quello della Enron negli Usa, di tante aziende nel Regno Unito e ora della Cirio e della Parmalat in Italia si possano ripetere è molto forte. Il rischio di scivolare dalla finanza normale alla finanza criminale è costante. Il più semplice dei reati che vengono contestati è infatti quello dell’evasione fiscale. Perfino il governo italiano, nel varare il recente disegno di legge per la tutela del risparmio (Consiglio dei ministri del 3 febbraio 2004), ha dovuto ammettere che bisogna cominciare a intervenire sui paradisi fiscali. Molte aziende – anche italiane – trasferiscono in questi paesi (Isole Cayman, Lussemburgo, Delaware negli Usa, ecc.) i loro riferimenti fiscali per abbattere i costi e tentare così di partecipare alla gara della globalizzazione.
Si registra così, tanto per rimanere ai fenomeni più evidenti, una tentazione degli industriali italiani di trasformarsi in finanzieri, cercare nella finanza un più veloce veicolo di moltiplicazione della ricchezza (U. Bertelè, Sole 24 ore, 10 dicembre 2003). In questa situazione mutata ci vorrebbe almeno trasparenza, ovvero tutto il contrario di quello che è successo con l’operazione Parmalat e l’operazione del fondo Epicurum. Da industriali a finanzieri e da finanzieri a criminali è un percorso che per fortuna solo in pochi scelgono. Ma la tentazione è continua e basta rileggere l’elenco di tutti i reati contestati nel caso Cirio e Parmalat per rendersene conto. Ai dirigenti di azienda, ai funzionari di banca coinvolti e ai revisori dei conti sono stati contestati (e le inchieste sono ancora in corso) reati pesanti che vanno dalla truffa, all’associazione per delinquere. Sono temi che ci spingono ad approfondire il discorso nei prossimi mesi, quando saranno più chiari i contorni della grande truffa. E quando si saranno chiariti definitivamente tutti i rapporti tra i protagonisti di questa storia.






Parmalat, una società sportiva

L’azienda di Calisto Tanzi ha cercato con ogni mezzo di stare al passo con i tempi. Ha diversificato la sua produzione, è diventata una società globale e si è gettata a capo fitto nello sport e nel mondo delle sponsorizzazioni: la pubblicità – nell’epoca dei loghi e dei marchi – è tutto. Così in questi anni abbiamo visto la scritta Parmalat sulle tute da sci dei grandi campioni della neve, sulle maglie dei calciatori del Parma e sulle tute rosse della Ferrari. Già nel lontano 1974 nacque infatti lo slogan “il latte dei campioni”, grazie alla sponsorizzazione della Coppa del mondo di sci e della Ferrari di Niki Lauda. Stranezza della storia la Ferrari di Lauda in Formula 1 era la macchina che ha permesso di entrare sulla scena a uno come Luca CorDero di Montezemolo, oggi candidato alla presidenza della Confindustria e la stessa macchina che ha contribuito a creare la fama di Tanzi e della Parmalat. La vita è veramente fatta a scale, c’è chi scende e chi sale. Un’altra sponsorizzazione famosa della scritta Parmalat, anzi forse la più famosa è quella della squadra di calcio. Nel 1987 la Parmalat già sponsorizzava il Parma calcio che a quel tempo giocava in serie B. Qualche tempo dopo la squadra verrà acquistata da patron Tanzi. E nel 1993 il Parma calcio ha avuto anche la soddisfazione di strappare la Coppa delle Coppe. Per molti nostalgici quei tempi, oggi, sono molto lontani.




La vigilanza sotto accusa

Dopo il caso Parmalat è scoppiata una vera e propria emergenza politica. Ci sono stati scontri e conflitti sia all’interno della maggioranza, sia tra i poteri forti, ovvero in particolare tra il ministro dell’economia Giulio Tremonti e il Governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio. Il primo ha cercato in tutti i modi di concentrare tutta l’attenzione dello scandalo Parmalat sul problema della vigilanza. Secondo Tremonti e molti altri, il caso Parmalat e prima quello della Cirio non sarebbero stati possibili se gli istituti del controllo avessero fatto il loro mestiere, prima fra tutti la Banca d’Italia. Sotto accusa anche la Consob, che vigila sulla Borsa. Fazio ha risposto che non si tratta di mancanza di controlli, ma di reati commessi dai protagonisti della vicenda. Sia i vertici delle più importanti banche esposte sia la stessa Bankitalia hanno sostenuto cioè le tesi che sarebbe stato impossibile controllare e scoprire la crisi di Parmalat perché tutte le carte erano truccate. Sono stati gonfiati i bilanci, è stato evaso il fisco, sono stati commessi molti altri reati societari e tributari. Chi poteva prevedere quindi la crisi? Sarà l’inchiesta della magistratura a chiarire meglio le cose. Intanto il governo ha varato un disegno di legge che ha come scopo il riordino di tutto il sistema di vigilanza e controllo. Entro giugno dovrebbe essere operativa la nuova legge.





Il mistero del bond

Con il caso Parmalat ha fatto la sua comparsa sui giornali un termine che è sempre stato utilizzato dagli esperti e dai cronisti finanziari, ma oscuro ai più: bond. I titolisti dei quotidiani e dei periodici sono andati a nozze con questo termine perché permette infiniti giochi. Molti per esempio hanno fatto riferimento al famoso James Bond. Così abbiamo visto titoli tipo “pericolo bond”, il “giallo dei bond” e via dicendo. Più banalmente bond significa obbligazione, ovvero uno degli strumenti finanziari più utilizzati nell’ultimo periodo. L’obbligazione si può vedere anche come una sorta di prestito che il sottoscrittore fa all’azienda emettitrice. La Parmalat emette dei bond perché ha bisogno di liquidità per finanziare le sue attività, i risparmiatori comprano i bond per fare un investimento dato che poi la cifra dovrebbe essere restituita con gli interessi. Diciamo dovrebbe perché possono succedere (ma gli esperti giurano che sono solo casi limite) casi di “default”, ovvero situazione in cui le aziende che si sono fatte prestare i soldi arrivano a un punto tale di crisi che non hanno la possibilità di restituire i soldi. Ed è il crack finanziario.

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