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gennaio/2004 - Interviste
Amazzonia
L’ombelico del mondo
di Alberto Matricardo

Luogo pieno di fascino e mistero, le sue foreste contribuiscono in maniera determinante all’equilibrio complessivo del clima nel nostro pianeta

Al centro dell’America del Sud si trova il vuoto. Geograficamente la posizione dell’area del continente che secondo molti esperti di geopolitica, come Carlos de Meira Mattos e Golbery de Couto e Silva, dovrebbe fungere da catalizzatore o almeno da connettore di regioni per lo più costiere che si proiettano ciascuna verso oceani o mari diversi è occupata dalla Amazzonia, l’immensa area verde, che contiene un terzo di tutte le foreste del mondo, grande da sola quanto l’Europa occidentale, percorsa da un labirinto di fiumi larghi come laghi, fatta per lo più di terre incerte, perché periodicamente ricoperte dalle acque fluviali che in certe stagioni si alzano anche più di dieci metri rispetto al livello normale, e ciononostante ricoperta da una selva fitta, impenetrabile e quasi disabitata (due milioni di abitanti su un’area di circa tre milioni e mezzo di chilometro quadrati).
Lo spazio fisico, la centralità o la perifericità della loro posizione, condizionano gli uomini, la loro psicologia, le loro scelte ed azioni. Un centro vuoto influisce impercettibilmente, ma decisamente, sulla vicenda umana, ne condiziona la storia. L’America del Sud si percepisce periferica rispetto ai centri del mondo, ma anche rispetto a se stessa.
L’Amazzonia è uno dei pochi luoghi della terra in cui si può tornare alla condizione dello stato di natura, senza legge, senza controllo o protezione sociale. Una terra estrema, su gran parte della quale il Brasile ha formalmente sovranità, che però, a causa dell’immensità e impenetrabilità degli spazi, non sempre e non ovunque è in grado di esercitare. Così nazisti in fuga, organizzazioni come la vecchia Spectre di James Bond, scienziati pazzi, reti di trafficanti o di terroristi hanno potuto o potrebbero trovare qui quel luogo d’ombra di cui hanno bisogno per nascondersi, per organizzare affari illeciti, per tramare contro il mondo.
L’Amazzonia è un luogo ideale in cui la fantasia può sbizzarrirsi già a partire da una carta geografica, dagli enormi spazi verdi rigati dal reticolo azzurro delle acque, quasi senza traccia di insediamenti umani, in cui si dice che si nascondano ancora tribù indie che rifiutano il contatto.
Immediatamente o quasi, se si esce da ogni luogo abitato dell’Amazzonia, si scivola oltre il bordo della società umana organizzata e si viene inghiottiti dal mondo altro, della selva. L’Amazzonia è un vuoto pieno di acque lente e sempre quiete in cui vivono alligatori, caimani, una varietà enorme di pesci, alcuni piccoli e voracissimi, come i piranha, o grandi, enormi, come i delfini rosa. Di foreste grandi come mari, orlata da orizzonti opachi, su cui domina un cielo per lo più grigio, carico di umidità, o nero di nuvole. L’atmosfera dell’Amazzonia è per lo più densa, opaca, anche il sole riesce a fatica a vincere la resistenza caliginosa.
È l’ombelico naturale del mondo, come New York è l’ombelico economico. Perché è luogo in cui la vita si sprigiona in tutta la sua potenza, generando una varietà infinita ed ancora in parte a noi sconosciuta di animali e di piante. Ma anche perché le sue foreste contribuiscono in modo determinante all’equilibrio complessivo del clima della Terra, riassorbendo parte consistente dell’inquinamento umano del pianeta. Per questo è un luogo universale, il margine infinito indispensabile al centro, il contraltare che consente a questo di essere tale. L’economico, che è essenzialmente dissipativo, ha bisogno di un rovescio rigenerativo. L’Amazzonia è immensa fabbrica di ossigeno, tra i più grandi fattori di riequilibrio della grande stanza chiusa che è il sistema terrestre.
Se ci si chiede che cosa sarebbe stata l’America del Sud se al posto di questa selva impenetrabile ci fosse stata una immensa prateria, come quella del Middle West, non si fa una inutile elucubrazione mentale. Mettere una realtà virtuale a confronto con quella effettiva consente di rendere questa paragonabile, e dunque conoscibile.Si comincia a capire che l’America del Sud è un continente colonizzato dal mare, come quella del Nord, ma in cui le linee di penetrazione dalle coste non si sono mai saldate. L’Est non ha proceduto avanzando fino all’estremo Ovest costruendosi come nazione, le ondate migratorie si sono mantenute lungo le coste o si sono disperse verso l’interno, inghiottite dagli immensi spazi e soprattutto dalla barriera amazzonica. Per questo l’America del Sud è ancora un continente senza il suo centro. I Portoghesi colonizzatori, poco numerosi e sempre minacciati da altre potenze più grandi di loro a cui le terre immense del Brasile facevano gola, poterono oltrepassare la Raja – la linea di confine stabilita dal papa Alessandro VI tra le terre del Portogallo e quelle della Spagna - e violare durante l’unione della corona del Portogallo con quella di Spagna il trattato di Tordesillas, ma dovettero comunque fermarsi davanti alla immensa cortina verde amazzonica. Non poterono giungere mai al Pacifico.
In età più recente gli sforzi di spostare il dinamismo delle coste verso l’interno non hanno cambiato sostanzialmente la situazione. Lo stanziamento secolare sulle coste o nelle regioni immediatamente contigue della colonizzazione ha ormai sedimentato una mentalità, un modo di essere: sulle coste c’è il nuovo, all’interno c’è l’immobilismo, l’arretratezza, la vita più dura, più povera, più primitiva.
C’è un problema dell’Ovest amazzonico per il Brasile, come c’è un problema del Sud patagonico per l’Argentina. Entrambi i paesi, che sono i due maggiori dell’America del Sud, non prendono pienamente possesso dei loro territori, perché non riescono ancora a liberarsi dalla impronta sulla loro mentalità dell’insediamento della prima colonizzazione, legata all’idea della graduale penetrazione, e a pensarsi e progettarsi immediatamente a partire dal tutto dello spazio della loro sovranità.
I tentativi in questo senso, la invenzione della nuova capitale del Brasile a Brasilia, i ricorrenti sforzi argentini di spostare verso sud il baricentro demografico ed economico del paese, non hanno dato risultati certi ed apprezzabili.
In particolare, l’Amazzonia pare essere inadatta a venire inserita stabilmente in un processo economico di industrializzazione o di sfruttamento agricolo, che la renda centrale non solo dal punto di vista naturale, ma anche umano. La sua realtà potrebbe imporre di percorrere vie diverse ed inedite di sviluppo che ne mantengano sostanzialmente intatte le caratteristiche essenziali. Conviene pensare ad un suo inserimento in un circuito economico che, utilizzando in modo intelligente e diversificato l’enorme patrimonio di biodiversità che essa contiene, preziose per le più svariate esigenze dell’uomo, ne preservi allo stesso tempo la realtà di più grande complesso naturale del pianeta.
Continuando ad applicare schemi tradizionali di sviluppo il rischio per il complesso amazzonico è la disgregazione. A poco a poco, l’immensa riserva naturale può diventare un desolato acquitrino disboscato, una discarica inquinata ed inquinante (ogni deforestazione non solo riduce le capacità di assorbimento globale dell’inquinamento umano, ma, a causa delle emissioni di anidride carbonica prodotte dagli incendi, lo aggrava notevolmente). Il gigante verde può essere vinto da un’infinità di piccole e grandi cieche penetrazioni che non lo riconoscono come tale, che sono senza progetto, incapaci di saldarsi nel riconoscimento della unicità di quella terra. Il complesso amazzonico può essere forse trapanato e polverizzato, ma ciò comporterebbe una catastrofe di proporzioni mondiali, una sciagura immane per il pianeta Terra. Senza un grande progetto che ne salvi la funzione di polmone del mondo ed insieme la faccia essere il centro pieno del continente sudamericano, è molto probabile che si arrivi a questo: alla morte della più grande area verde del mondo e con essa alla morte della Terra, almeno come la abbiamo conosciuta ed abitata fino ad ora. Non sarebbe la vittoria dell’uomo sulla Natura, la Amazzonia non sarebbe vinta, ma il taglio definitivo da parte dell’uomo del ramo su cui egli stesso sta seduto. L’Amazzonia sarebbe solo dissolta. Come se le formiche livellassero l’Everest divorandolo a poco a poco dal basso, senza essere riuscite mai a scalarlo.
Mantenere il più grande polmone della terra e insieme farne il centro propulsore dell’America del Sud, quel centro che questo continente non ha mai avuto è come ottenere la quadratura del cerchio. Ma di questa natura sono le sfide attuali a cui l’umanità deve rispondere in questa fase della sua presenza sulla Terra.
Non è possibile con il tipo di razionalità che abbiamo sviluppato fino ad ora, quella razionalità che ha portato l’Europa a dominare il mondo, che ha consentito l’epopea del West, rispondere alla sfida dell’immenso enigma amazzonico.
Il mito ha sempre avuto una grande parte nella vicenda del rapporto dell’uomo europeo con questa area del pianeta. Accade così quando egli si trova davanti a qualcosa di immenso, che la sua mente fa fatica a chiudere in un concetto.
Fin nel nome che fu dato al suo grande fiume c’è la presenza del mito classico. Il Rio delle Amazzoni si forma proprio nelle vicinanze di Manaus. Le Amazzoni secondo un’interpretazione –erano così chiamate in derivazione da a - mazovV, che secondo un’interpretazione vuol dire senza seno, perché – secondo la leggenda - gli veniva bruciato da piccole affinché potessero più agevolmente usare l’arco da guerra; oppure, al contrario, secondo un’altra significa dal petto robusto. Ma secondo altri ancora il termine può derivare da una voce indoeuropea che vuol dire senza marito, o anche riferirsi alle sacerdotesse della luna (Masa) del Caucaso. In ogni caso le Amazzoni a cui pensavano i primi esploratori erano le mitiche donne guerriere del Ponto, della Scizia e della Libia, di cui narrano alcuni autori greci classici.
Il Rio delle Amazzoni ebbe il suo nome nel 1541, da Francisco de Orellana, luogotenente di Gonzalo Pizarro, governatore del Perù, che lo percorse. “Amazzoni”, donne guerriere bianche e grandi che combattevano ciascuna “con la forza di dieci indiani”, furono incontrate da Orellana nella regione del fiume Trombetas, secondo la narrazione di Fray Gaspar de Carvajal , nella sua cronaca dell’avventura.
Il fiume, che è il terzo per lunghezza e il primo del mondo per portata d’acqua, si forma appena più a est di Manaus dall’incontro di acque diverse, di colore e di composizione chimica. Quelle nere e acide del Rio Negro, e quelle giallastre, limacciose del Rio Solimoes. Le acque dei due fiumi non si mescolano subito, scorrono accanto, salvo alcune chiazze isolate dell’una nell’altra, per chilometri e chilometri. Sicché si può vedere lo spettacolo curioso di un fiume con acque di due colori, giallo e nero.
Manaus è la capitale dell’Amazzonia. È una città come tante altre, un porto franco dove attraccano navi oceaniche. Potrebbe essere una città di estuario, di un golfo. Il fiume che la bagna infatti, il Rio Negro, è così largo da sembrare a prima vista una vasta insenatura del mare. A stare in città non si direbbe che da ogni parte intorno si stendono migliaia di chilometri di selva. Solo a ricordarlo c’è l’alito che spira dal profondo della immensa foresta pluviale: il clima caldo e umido, costante per tutto l’anno.
Manaus è una città rinata negli ultimi anni. Dopo la fine dell’era del caucciù, all’inizio del novecento, era diventata una città residuale.La creazione della “zona franca” nel centro cittadino nel 1967 ha richiamato affaristi e acquirenti da tutto il mondo, oltre duemila nuovi grandi magazzini che vendono di tutto all’ingrosso e al minuto senza imposte, creazione di nuove fabbriche, sviluppo del porto fluviale e introduzione sempre maggiore di capitali ed investimenti. Il nuovo sviluppo ha in parte distrutto le testimonianze architettoniche della prima Manaus, quella del caucciù.
Le grandi navi da carico provenienti dall’Atlantico sono ricomparse nel porto, ma le merci e i prodotti ora arrivano anche via terra con i grossi camion che percorrono la transamazzonica. Ora però è soprattutto il turismo mondiale a darle nuova vita, nuova ricchezza. Il mito dell’Amazzonia è capace di attrarre migliaia di turisti da ogni parte del mondo.
Il Teatro Amazonas di Manaus è una costruzione unica, in stile rinascimentale italiano su progetto di Domenico De Angelis, del 1896, nel momento di massimo splendore del commercio della gomma.
È il simbolo e il custode della memoria storica della città. E anche un po’ un simbolo del Brasile e di tutta l’America latina. Il Teatro di Manaus, in sé bellissimo, esprime, nel contesto in cui è posto, qualcosa di estremo, di megalomane. Pretenzioso, ma anche vagamente tragico. È manifestazione di una volontà umana fortemente assertiva, che si attua su una realtà naturale che la eccede e la sovrasta.
Per un verso il teatro di Manaus è un commovente omaggio all’Europa, ed insieme una orgogliosa affermazione di appartenenza dei finanziatori alla sua civiltà lontana, per un altro una provocazione nei confronti della terra amazzonica, delle sue foreste inospitali, delle civiltà tribali indie. Tutto ciò di cui è fatto e adornato il teatro, dai lampadari agli arazzi, dai cristalli alle sedie, alle ringhiere, al mobilio, viene dall’Europa, da diversi paesi europei, dalla Francia, dall’Italia, dal Portogallo, dalla Germania, ecc. Poiché il teatro doveva rimanere sempre aperto, a causa del caldo, la via che passa accanto al Teatro venne al tempo dell’inaugurazione lastricata di gomma, affinché le carrozze, passando, non disturbassero gli spettacoli.
La ricca ed effimera borghesia formatasi con il caucciù aspirava a godere di una vita culturale e mondana che non avesse nulla da invidiare a quella delle grandi capitali europee. Sul palcoscenico del teatro di Manaus si sono esibite compagnie che talvolta venivano dall’Europa. Vi giungevano dopo un viaggio lunghissimo, prima attraverso l’oceano e poi sul grande fiume, per cantare davanti allo scintillante pubblico dei signori del caucciù. Il sogno dei baroni della gomma era quello di avere Sara Bernhard e Caruso ad esibirsi nel loro teatro. Offrirono per questo cifre favolose, ma non furono mai esauditi.
Ma il teatro doveva essere anche una sorta di asserzione e di ricapitolazione identitaria, davanti al vuoto misterioso ed inquietante delle selve. Su scudi posti sulle colonne dell’anfiteatro che chiudono la platea compaiono i nomi dei grandi autori teatrali di tutti i tempi delle nazioni europee: di Eschilo, Sofocle, Shakespeare, Goethe, Schiller, Calderon, Lope de Vega, Racine, Alfieri, Metastasio, ecc.
L’ambiente e la terra amazzonica sono presenti nella rappresentazione, sul grande sipario del teatro, del congiungimento delle acque dei due fiumi, che danno vita al Rio delle Amazzoni, su cui spicca la grande figura di una dea bianca. L’ambiente incombente su questo piccolo mondo dorato veniva filtrato attraverso le categorie dell’esotico e soprattutto del mitico.
L’aristocrazia bianca viveva come usavano gli europei ovunque nei loro imperi coloniali: isolati il più possibile dall’ambiente, chiusi tra loro, come in un avamposto in terra estranea. Il Teatro dell’Opera era anche una compensazione e una gratificazione per il sacrificio di vivere in un luogo tanto distante, non solo fisicamente, dall’Europa.
Ma la diversità amazzonica si imponeva in ogni caso. Il Teatro era fino a qualche decennio fa, quando fu introdotta l’aria condizionata, aperto da ogni parte per consentirne la massima ventilazione. Un sistema di aria forzata – che non so se abbia altri esempi al mondo - convogliava sotto le sedie della platea la scarsa brezza di Manaus, dando agli spettatori un po’ di frescura, in un ambiente dove un europeo normalmente suda quasi in continuazione.
Sulle rive dei fiumi e dei canali presso Manaus ci sono degli allevamenti di bestiame, delle fazendas che segnalano la loro esistenza con dei cartelli sui terrapieni o sui moli. Le fazendas sono sorte grazie al disboscamento. Dio sa se questo tipo di destinazione è appropriato ad una terra che per centinaia di migliaia di anni è stata ricoperta dalla foresta primordiale. Il suolo amazzonico deve la sua fertilità allo humus generato dal sottobosco. Quando vengono eliminati i grandi alberi di copertura, in pochi anni la terra, privata della sua protezione, inaridisce. Il disboscamento cambia il paesaggio che sarebbe quasi anonimo ed irriconoscibile dalle rive dei fiumi, se non fosse per la presenza numerosa di uccelli esotici, in particolare pappagalli, che spesso popolano all’inverosimile anche un solo albero o cespuglio, o per l’affiorare di tanto in tanto degli occhi periscopici di alligatori o caimani appostati nell’acqua bassa.
Il clima non si può trascurare in Amazzonia, si impone sempre con l’umidità altissima, con il caldo, la velatura del cielo. Piove molto spesso e a lungo anche se non è la stagione delle piogge.
L’acqua dei fiumi, in questo periodo, si alza fino a dieci metri oltre il livello normale. Tutto il paesaggio viene ricoperto da uno strato d’acqua. Rimangono emergenti solo le cime delle piante. La foresta si trasforma in un mare. In questa condizione, tutti gli animali, per sopravvivere, devono avere qualche dimestichezza con l’acqua.
Anche gli uomini che vivono ai margini della selva, sulle rive dei fiumi o delle loro infinite diramazioni, sono organizzati in funzione delle inondazioni. Sono i “seringueros”, i raccoglitori del caucciù, la borracha, emigrati in tempi andati da altre regioni del Brasile nella foresta nella speranza di un avvenire, all’epoca in cui pareva che la produzione della gomma avrebbe trasformato l’Amazzonia in un Eldorado, o i castanheiros che raccolgono i frutti spontanei della foresta.
Un po’ raccoglitori, un po’ agricoltori, un po’ pescatori vivono in misere capanne sul Rio Negro, sul Solimoes e affluenti. Sono chiamati riberinhos. Le loro case sono su zattere di enormi tronchi di balsa, che si alzano e si abbassano secondo il livello dell’acqua, oppure sono piantate nell’entroterra su alte palafitte, in previsione delle piene. Non ci sono case in muratura, ci sono solo baracche di legno, le cui assi sono spesso solo accostate, per cui da fuori si può vedere facilmente l’interno dalle fessure anche senza accostarsi ad una finestra.
I riberinhos sono in parte meticci, discendenti dell’immigrazione “nordestina” - cioè dal Nordest del Brasile - di più di un secolo fa, e in parte coboclos, risultato di antiche unioni tra portoghesi e indios.
Dentro le loro case in genere non c’è quasi nulla: non ci sono mobili, solo qualche amaca, qualche pentola e qualche piatto di ferro. Ma da qualche baracca su zattera, la sera trapela il riflesso azzurrino del televisore.
A parte ciò, questa gente vive per lo più in una condizione abbastanza prossima a quella adamitica, pescando gli innumerevoli pesci del fiume, coltivando fazzoletti di terra queimada, cioè sottratta temporaneamente con l’incendio alla selva. Eppure c’è una vita sociale, ci sono locali pubblici - sempre su zattera- qualche spaccio, perfino la pubblicità di qualche ritrovo o festa.
C’è anche qualche baracca dalle pareti dipinte, con le imposte e un lume sopra la porta. La maggior parte delle abitazioni però non conosce altro colore che quello grigiastro del legno invecchiato. I colori spenti, l’atmosfera umida e velata, la monotonia silenziosa e lenta della corrente fanno sì che difficilmente la vita umana si sottragga ad un vago senso di tristezza. Ma è solo un’impressione d’insieme. Le rare persone che si incontrano lungo i canali o sui bordi della foresta spesso sono allegre e ridenti.
Sull’acqua calma corrono battelli consunti e scoloriti che sembrano usciti da stampe dell’ottocento, con motori ansimanti, che procedono con una fretta che risulta in quell’ambiente quasi comica.
Sul bordo della selva i riberinhos si confondono con i posseiros, contadini poveri che occupano appezzamenti di cui non hanno la proprietà. È una realtà umana che vive al limite estremo, oltre la sua tenue nervatura di rapporti c’è solo la foresta profonda in cui non c’è alcuna legge, dove chiunque può nascondersi. Chi va magari anche di poco oltre questo limite può aspettarsi di tutto, come nel Medioevo accadeva in Europa appena fuori delle mura di un castello o di una città. E su persone, bianchi, che si sono inoltrati senza protezione nella selva e non sono più tornati si raccontano storie atroci.
È significativo il fatto che sull’area del bacino amazzonico che si trova nella parte brasiliana – ed è gran parte - la autorità competente sia la Marina di questo paese. Ad indicare che le acque sono prevalenti in questa regione, e che la sovranità viene esercitata effettivamente sui fiumi, meno sulla foresta, che peraltro è periodicamente ricoperta essa stessa d’acqua.
Qualcuno, partendo dal presupposto che la sovranità del Brasile su gran parte del bacino amazzonico entro i suoi confini è nominale, e che questo paese non ha ancora assicurato un effettivo controllo aereo sull’area - sicché è teoricamente possibile a chiunque ne abbia i mezzi insediarvi una base - fantastica di internazionalizzazione dell’Amazzonia, con modalità simili a quelle adottate in Antartide. O tenta di attuare una larvata occupazione militare, come gli Stati Uniti, adducendo la lotta contro il narcotraffico. Ma questo, al di là di ogni altra considerazione, significherebbe l’accettazione del fatto che l’America del Sud sia non solo un continente senza un proprio centro, ma anche espropriato della possibilità di averlo, dunque per sempre senza la possibilità di costituire una sua identità forte. Definitivamente, essenzialmente marginale. Significherebbe per l’America del sud e in particolare il Brasile dover di fatto stabilmente riconoscere una condizione di permanente blanda subordinazione coloniale, anche se “internazionale” e di nuovo tipo.
È vero però che l’Amazzonia è una terra di rilevanza planetaria, lo sfondo vitale, la condizione implicita su cui si erge il mondo delle relazioni economiche umane. Ma questa sua importanza universale non va affermata a scapito, con l’umiliazione del principio di nazionalità e di sovranità nazionale. L’Amazzonia rappresenta nel modo più grande ed imponente ciò che resta sulla Terra della “Natura”, cioè la forza ed il principio generatore della vita. Del mondo economico umano, organizzato in base ad una logica di consumo, l’Amazzonia costituisce insieme l’opposto e il contraltare.
Per questo l’Amazzonia è l’occasione, l’apertura verso prospettive altre da quelle cui siamo abituati. In Amazzonia l’economia, cioè l’attività dell’uomo volta a garantirsi migliori condizioni di sopravvivenza, minaccia di ritorcersi definitivamente contro se stessa.
La borghesia del caucciù tentò di contrapporsi alla grande Natura delle selve. Il Teatro Amazonas di Manaus venne costruito perché tutta l’Amazzonia selvaggia vedesse ed udisse che cosa era l’Europa, la sua civiltà, il suo canto. C’era nella decisione di costruire un Teatro dell’Opera degno di una grande capitale in mezzo alla foresta superbia, ma anche nobiltà. Ma ora non sono i nostalgici signori del caucciù a misurarsi con il contraltare naturale della civiltà, è la miriade di formiche, piccole e grandi, che divorano tutto, oltre l’estremo limite consentito dall’equilibrio globale, che sono capaci, giorno dopo giorno, di dissolvere il mito dell’Amazzonia nella banalità che la polverizza.
L’Amazzonia è per sua natura una regione universale, ma nel senso che proprio a partire da lì la Terra nella sua totalità può essere finalmente riconosciuta e trattata per quello che è sempre stata: un tutto unico ed interdipendente, un indivisibile. Le logiche particolari trovano lì il loro limite invalicabile.
Gli uomini hanno compiuto un lungo percorso nella natura, dal fondo ancestrale dei loro terrori, ma non il passo decisivo. Nel tempo profondo della preistoria, sentendosi creature indifese, si sono ritirati in un dentro, le caverne, per proteggersi dall’esterno. Questo è in sostanza ogni casa: un dentro protetto. Per migliorare la loro vita gli uomini hanno abbellito la loro casa portando dentro ogni cosa che ritenessero utile e desiderabile. Questa è stata la “economia”, cioè, letteralmente, la “legge della casa”. Ma è palesemente impossibile condurre questa logica fino in fondo, portare il mondo intero dentro. La “legge della casa” deve cambiare.
L’Amazzonia non può entrare, se non polverizzata e distrutta, nella economia così come la abbiamo sviluppata fino ad oggi. Osservandolo, si ha l’impressione che questo orizzonte immenso, velato, carico di umidità e di pioggia della terra amazzonica proponga un’alternativa drastica e definitiva: o l’uomo esce dalla sua caverna, o inghiottirà definitivamente la natura che si è arroccata in questo ultimo baluardo. In questo caso l’economia rimarrà senza la sua base naturale, di cui non può fare a meno, che garantisce la rigenerazione della Terra. La parte avrà divorato il tutto, e sarà lo squilibrio totale. La fine della natura comporterà necessariamente la fine dell’economia e dell’uomo stesso.
C’è chi oggi in Amazzonia vuole subordinare l’ universalità di questa terra ad interessi economici particolari. E c’è chi tenta di utilizzare l’affermazione di un’astratta universalità contro la sovranità nazionale dei paesi amazzonici. Ma l’universalità della regione amazzonica non può in nessun caso essere giocata contro i paesi, in primo luogo il Brasile, che su di essa hanno la loro sovranità. Il tutto non si afferma contro le parti.
C’è bisogno di una nuova fantasia creatrice per trovare una nuova razionalità che non sia quella che conosciamo, che arriva già costituita ai problemi, ma si genera e si modella a partire dai problemi che deve risolvere. Così hanno cominciato a fare i movimenti organizzati dei popoli della foresta, gli indios, i seringueiros , i castanheiros che sono oggettivamente interessati, per la loro vita e la loro economia, al mantenimento dell’ambiente da cui traggono ciò che serve alla loro esistenza.
Questi movimenti hanno incontrato la resistenza ottusa e sanguinaria dei fazendeiros, che impongono la loro volontà con la violenza dei loro eserciti privati di pistoleiros, spesso colpevolmente assecondati dalla Polizia. La violenza contro gli uomini della foresta è pari a quella che questa categoria di proprietari esercitano contro la natura. Il loro interesse è infatti di estendere in modo nocivo e scriteriato il sistema del latifondo praticato in altre regioni del Brasile anche all’Amazzonia.
Seringueiros, castanheiros, posseiros e indios hanno trovato momenti di unità in difesa della foresta, vincendo l’indifferenza, quando non l’ostilità aperta e la repressione, del governo e della Polizia, specie durante il lungo periodo della dittatura militare, che tendeva ad applicare la tradizionale logica distruttiva, industrialista e latifondista, all’Amazzonia. Negli ultimi decenni i movimenti dei popoli della foresta sono cresciuti attraverso una dura lotta, ed anche il sacrificio della vita di alcuni loro capi, in particolare di Wilson Pinheiro e di Chico Mendes. Grazie ad una nuova apertura e i contatti con la cultura politica e religiosa più sensibile ai problemi sociali, il movimento per la difesa e la promozione dell’Amazzonia ha assunto una rilevanza mondiale. I popoli della foresta, partendo dalla affermazione delle loro immediate necessità di sopravvivenza, hanno gradualmente preso coscienza – ed è stato riconosciuto nel mondo - che il loro impegno per la difesa della foresta contro il suo sfruttamento dissennato praticato dai fazendeiros e dalle multinazionali ha un valore universale, è essenziale per la Terra tutta. Lo schema rigido agrario ed industrialista tradizionale, per promuovere lo sviluppo, non funziona in Amazzonia, come del resto in tante altre parti del mondo. Ma qui la contraddizione è particolarmente evidente e mette in gioco problemi di incompatibilità complessiva con il sistema Terra. Negli ultimi anni è cresciuta la consapevolezza dell’importanza della sintesi e dell’alleanza tra le culture, le tradizioni dei popoli della foresta, e la scienza, la tecnologia più avanzata, i movimenti ambientalisti internazionali. È stato creato un consiglio nazionale dei popoli della foresta. Sono nate cooperative formate da soggetti locali che operano in campo economico, anche a livello internazionale, nel rispetto dell’ambiente amazzonico. Il turismo stesso, rispettando certe condizioni, può contribuire ad uno sviluppo sostenibile.
A livello mondiale è cresciuta la sensibilità riguardo alla rilevanza planetaria del problema amazzonico. Recentemente in sedi internazionali sono state avanzate proposte per il riconoscimento, con adeguati stanziamenti da parte dei paesi ricchi per uno sviluppo ecocompatibile della regione, della funzione insostituibile dell’Amazzonia nell’equilibrio terrestre.
Grazie alla inedita alleanza tra tradizione ed innovazione, che si avvale di esperienze locali e del supporto della sensibilizzazione e dell’impegno mondiale, sono stati ottenuti dei successi significativi, sia sul piano economico che su quello politico e giuridico. In particolare sono state vinte significative battaglie legali per il riconoscimento della proprietà delle terre agli indios. Le esperienze che dimostrano che è possibile andare in una direzione diversa da quella del brutale e dissennato sfruttamento di uomini e ambiente sono ormai importanti, smentendo la convinzione che l’unica logica di sviluppo dell’Amazzonia non possa essere diversa da quella violenta, industrialista ed agraria, che ha causato già immensi danni al suo equilibrio e alle popolazioni locali.
Il Brasile e l’America del Sud sembrano i meno adatti, per la loro arretratezza, ad affrontare la estrema frontiera dell’umanità costituita dall’esigenza di mutamento del modello di sviluppo. In Amazzonia, in particolare, ancora oggi l’analfabetismo riguarda il 75% della popolazione. Ma così avviene: i compiti più difficili vengono attribuiti dalla sorte a quelli che sembrano essere meno in grado di affrontarli, fino a che, proprio perché non possono sottrarsi ad essi, costoro non acquistano quella forza e quell’identità che solo la consapevolezza di un destino ineludibile riesce a dare. L’America del Sud, ed in particolare il Brasile, devono avere il coraggio – e qualche indizio positivo in questo senso c’è, anche in seguito all’elezione di Lula, sindacalista che in passato ha pagato di persona, con il carcere, il sostegno dato alle lotte dei popoli della foresta, a presidente del Brasile - di assumere tutta la originalità del destino che la loro posizione gli offre, di imparare dagli altri quello che è utile, ma di subordinarlo alla loro originale identità che li fa essere al centro dei processi di rigenerazione naturale della Terra, riuscendo a rovesciare l’apparente svantaggio di una natura che non si può dominare - ma solo semmai distruggere – con l’ avvio di una logica diversa di sviluppo, che sia di esempio a tutti e contribuisca a rimettere il mondo nel giusto rapporto con se stesso.
Il centro dell’America del Sud deve restare l’originario naturale che riequilibra il contraltare economico, dissipativo della Terra, la base della caverna che non può essere perciò stesso trascinata dentro di essa. Ma può essere – ed in parte è già – anche di più: un grande laboratorio in cui si attuano nuovi rapporti - su basi concrete e non semplicemente ideologiche - tra esigenze di promozione della vita umana ed esigenze della vita della natura.
L’Amazzonia richiede più che un compromesso. È il luogo dell’aut aut definitivo per la Terra e per l’uomo, in cui si può compiere la rovina ultima di entrambi o iniziare il superamento della logica tradizionale dello sviluppo, così come si è andata formando nei secoli in Europa ed è stata esportata nel mondo, che è giunta qui alla suo punto estremo ed insuperabile. L’umido e grigio silenzio dell’ orizzonte amazzonico attende questo: che chi tenta di portare il mondo intero nel fondo protetto della sua caverna, comprenda di trovarsi, proprio perciò, nel punto più pericoloso ed esposto

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